di Mario Bernardi Guartdi
Dio benedica gli illusi che restano fedeli alla propria giovinezza. Dio guardi con indulgenza ai delusi, diventati infedeli, e poi scettici, che, ripensando a “quella” giovinezza, provano struggente nostalgia e si chiedono se non sarebbe stato preferibile continuare a credere, obbedire e combattere fino in fondo in nome di “quegli” entusiasmi e di “quelle” generose ebbrezze. Dio sorrida a quel toscanaccio di Indro Montanelli che nel febbraio del 1955, in un incontenibile slancio di sincerità, pubblicò sul “Borghese” di Leo Longanesi, con lo pseudonimo di Antonio Siberia, un articolo intitolato “Proibito ai minori di quarant’anni” dove, per l’appunto, evocando la giovinezza di una generazione allevata dal Fascismo, raccontava di illusioni e delusioni, e, per così dire, si faceva una “ragione” della propria scelta amara: quella di aver “disertato”.
Ma alla fine altre “ragioni” gli balzavano fuori dal cuore. E scriveva: «Sono molte le occasioni in cui riesco a persuadermi che quella diserzione era autorizzata e legittima: gli argomenti non mi mancano. Ma ce ne sono altre in cui la domanda rimane senza risposta. Dinnanzi alla tomba, perduta nel deserto, di Berto Ricci, e a quella di Carlo Ròddolo, e a quelle di Pallotta e di Giani, che videro tutto, che seppero tutto e ciò nonostante morirono, mi chiedo chi di noi abbia avuto ragione e l’abbia azzeccata di più. Forse, se fossimo rimasti tutti insieme sulle posizioni ch’essi non vollero abbandonare, quell’epopea mancata avrebbe potuto diventare vera (…). Io, per me, confesso di non sentirmi punto tranquillo…».
E oggi cosa possiamo dire a cinquantacinque anni di distanza dalle ricognizioni montanelliane? Anche noi, privi della “riserva aurea” di una giovinezza “primavera di bellezza”, non siamo tranquilli..
Niente lagne, però. L’impegno militante al di là di tutte le destre e tutte le sinistre non ce lo può impedire nessuno. Se andiamo a CasaPound incontriamo delle colorite, generose attese: e non sembrano proprio “disperate speranze”. Anzi ci si presentano piene di fervore e di costruttivo “volontarismo”. Nonostante tutto, qualcosa di “bello” c’è ancora e non è detto che sia “impossibile”. Sfidiamolo, l’impossibile. Provocando. Azzardando. Ne abbiamo di eredità che possono funzionare come alimenti vitali. Che possono essere anacronisticamente propositive.
E magari lo sapeva anche Indro che non risparmiava graffi a nessuno, e che rideva e irrideva, amaro e cattivo, per esorcizzare un mondo di valori “andato a male”, salvo poi pentirsene, inchinarsi di fronte alle tombe di Ròddolo, Giani, Ricci, Pallotta, e chiedersi: ma non è che avessero ragione loro? Ma non è che anch’io avrei dovuto stare insieme a loro fino in fondo? Ma non è che, andando a morire, ci abbiano lasciato un paradossale segnale di vita e, sconfitti (?) dalla storia abbiano vinto loro e adesso vengano a dirci: provateci? Anzi: riprovateci?
Noi, questo fecondo “sospetto” ce l’abbiano. Ed abbiano anche la convinzione che se “incontri” un eroe non te ne liberi più. Ti si imprime dentro. Tutto scontato, se si vuole, per chi l’eroe ce l’abbia già nel Pantheon personale. Insomma: Ricci, Giani, Pallotta, Ròddolo sono “nostri”: e le suggestioni che ci vengono da loro- pensiero e azione indissolubilmente legati fino all’estremo sacrificio – sono, per dir così, “naturali”.
Ma è quando a restare “contaminati” sono biografi provenienti da tutt’altre contrade ideali e politiche che non puoi fare a meno di chiederti: non sarà che quelle vite siano esemplari “per tutti”?
La biografia di Paolo Buchignani dedicata a Berto Ricci (“Un fascismo impossibile”, Il Mulino, 1994) è nota. Ed è altrettanto noto che l’Autore- antifascista di estrazione moderata- ancor oggi è costretto a “difendersi” da chi gli fa osservare che in quel profilo c’è troppo pathos, troppo coinvolgimento emotivo, troppa complicità. Eppure Buchignani non è né un nostalgico né un simpatizzante. Come non lo sono Aldo Grandi che è stato il primo a riattivare la memoria di Niccolò Giani (“Gli eroi di Mussolini”, Rizzoli, 2004) e Thomas Carini (“Niccolò Giani e la Scuola di Mistica Fascista 1930-1943”, Mursia, 2009) che è tornato sul tema, approfondendo opere e giorni dell’intellettuale e volontario di guerra triestino.
Il fatto è che non ci si può se non profondere in esercizi di ammirazione di fronte a degli eroi.
Coraggiosi nel pensiero- fatto di fede e di tensione creativa, e per nulla timoroso di sfide apparentemente eretiche, allorché si trattava di confermare principi e fini – e terribilmente coerenti nella testimonianza.
Kalói kaí agathói? Belli e buoni? Questo è il dilemma che gli storici non sanno sciogliere. Belli e buoni nella dittatura, nonostante la dittatura? Belli e buoni, e tuttavia antidemocratici, intransigenti, estremisti, esaltati, fanatici, intolleranti? Belli e buoni con quelle idee brutte e cattive?
E’ davvero arduo risolvere il problema, perché dove sono le idee “brutte e cattive”? Cerchiamole nell’Antologia. Bene, nel Decalogo dell’Uomo Nuovo, stilato da Arnaldo Mussolini, che di Niccolò Giani e di tutti i “mistici” fu, insieme al Duce, esemplare figura di riferimento, leggiamo: «1- Non vi sono privilegi, se non quello di compiere per primi la fatica e il dovere; 3- Essere intransigenti, domenicani, fermi al proprio posto di dovere di lavoro, qualunque esso sia. Ugualmente capaci di comandare e di ubbidire; 5- Avere fede, credere fermamente nella virtù del dovere compiuto, negare lo scetticismo, volere il bene ed operare in silenzio».
Tre appelli al dovere, ed è impossibile prescindere da questo elemento fondante della coscienza personale e della sostanza etica, morale e civile, qualunque sia il quadro storico entro cui si è collocati. Fascista quanto lo si voglia, questa “mistica” vale per sempre. E in tutti gli scritti di Giani, c’è davvero qualcosa che va al di là del Fascismo come fenomeno storico, e si propone come scenario metapolitico, “sacrale”se si vuole, in cui Persona, Comunità e Spirito si fondono.
Il tutto è discutibile o addirittura pericolosamente retorico? O magari aberrante? D’accordo: discutiamone. Cominciando, però, col prendere atto di quella che fu una temperie eroica. E considerando l’alto grado in cui ebbe a manifestarsi nei tre “poeti armati” Ricci, Giani, Pallotta.
Già, Guido Pallotta, il gerarca del sorriso. Generoso, appassionato, infaticabile, immacolato nella dirittura morale e nella purezza ideale – così ce lo presenta Grandi, e non abbiamo motivo di dubitarne- muore in battaglia nel dicembre del ’40. Onorando la Patria e la Causa. E la fedeltà alla propria giovinezza. Nel febbraio di quell’anno, al Primo Convegno della Scuola di Mistica Fascista, aveva detto: «Chi intende misticamente la Rivoluzione non può non essere preparato a morire per essa, perché vi è un solo modo di essere mistici quando la Patria chiede sangue: offrirlo».
