Non c’era che aspettare la risacca del verminaio, quei critici del Padre Dante che i futuristi aspettavano al varco, giusto per restituire alla poesia la nudità della voce. E con la phonè spogliata, sgrossata dalla crosta della filologia istituzionale, cavarne la pietra polita della tradizione che – sia ben chiaro – giammai è accademia.
Ed è un affresco grandioso quello delineato da Alessandro Scali nella sua opera “Dante pietra d’inciampo (dall’Inferno con Amore)” edita da Il Cinabro (euro 20), è un lavoro all’interno dell’insegnamento segreto, un libro di difficile reperimento nel mercato accademico e istituzionale che solo in virtù del privilegio – “il trafficare altrove”, per dirla con Carmelo Bene – abbiamo letto. L’inciampo dunque. La trama presa a prestito da Dante usa i molti fili di un immenso patrimonio culturale e Scali ha messo a dimora i virgulti e le talee del più nascosto dei giardini per dimostrare una tesi ambiziosa: l’esistenza di una tradizione originaria unitaria che lega la cultura musulmana, celtica, greco-romana e, perfino, quella ebraico-cristiana, in ovvio contrappunto al giudeocristianesimo oggi in voga. “La Divina Commedia” si pone così come un grande ricettacolo di miti, simboli e rimandi capace di legare queste diverse culture individuandone i punti in comune. Lavoro impegnativo corredato da una corposa bibliografia che spazia dalla mistica medievale di Meister Eckhart a quella del Maestro sufi Muhyi-d-Din ibn ‘Arabi, da Omero a Lucrezio a Virgilio, dalla letteratura medievale ai grandi dell’esoterismo come Julius Evola, Mircea Eliade, René Guénon, da Etienne Gilson a Friedrich Nietzsche alla “Kabbalah” di Scholem al “Parzifal” di Wolfram von Eschembach. Già molto ricco è l’influsso islamico nella “Divina Commedia” nell’ambito cosmografico. Il maestro sufi Ibn-al-Arabi, morto venticinque anni prima della nascita di Dante nel suo “Le Rivelazioni della Mecca”, per esempio, narra il viaggio di due maestri sufi nell’aldilà, che sotto la guida dell’arcangelo Gabriele visitano l’Inferno con i suoi sette ripiani circolari e concentrici, ai quali corrispondono peccati sempre più gravi, il Purgatorio con altri sette simmetrici ripiani, ove sono collocate le anime di coloro che nutrono la speranza di una pena non infinita e i sette cieli che compongono il Paradiso. Echi e rimandi non mancano, dall’assistenza di una guida, l’arcangelo – che nella “Divina Commedia” è impersonata dapprima da Virgilio e poi da Beatrice – alla gerarchia dei tre ambiti dell’aldilà a cui corrispondere l’analoga struttura geometrica dei tre Regni. Sono del resto noti i rapporti di scambio fecondo tra la civiltà islamica e quella cattolica che dal secolo VIII hanno pervaso il tessuto culturale e sociale europeo, a partire dall’espansione araba in Europa cominciata in Spagna nel 711 d.C. quando Tariq ibn-Ziyad attraversò lo Stretto di Gibilterra, fino al 1238 quando Ferdinando III di Leon e Castiglia e Giacomo I di Aragona, riuscirono ad attuare la riconquista cristiana della Penisola iberica. La cosmografia dantesca, con le sue simmetrie geometriche che culminano nel concetto di Dio come luce-emanazione, deriva a sua volta dalla dottrina neoplatonica, conosciuta dal poeta fiorentino attraverso la mediazione araba, tramite per l’occidente per la filosofia greca. Fu così che il neoplatonismo permeò la scolastica medievale rappresentata da filosofi quali san Bonaventura e Duns Scoto.
Questi rimandi vengono taciuti solitamente dalla critica dantesca quasi che riconoscerne la presenza nel poema significherebbe sottolinearne la subalternità e la non originalità. Invece individuare tali corrispondenze serve a comprendere la capacità di trasmissione culturale di cui il mondo islamico si fece portatore in occidente e, d’altra parte, la lungimiranza dei sovrani spagnoli che si fecero promotori di scuole di traduzione dall’arabo già a partire dal secolo XI quando Alfonso VI istituì, nella Toledo strappata agli arabi, la prima scuola di traduttori capaci di riscrivere in castigliano e latino il patrimonio culturale arabo e greco. Tale sintesi culturale raggiunse il suo acme con il grande Federico II. Già la signoria normanna in Sicilia aveva fatto sua l’attività spagnola di traduzione e conservazione del patrimonio culturale arabo. Con l’avvento di Federico II al trono normanno, questa consuetudine viene innervata all’interno di un grandioso disegno politico, atto a inserire il mondo islamico nella compagine imperiale. Per questo, grande impulso egli diede alla ricerca e alla traduzione di testi arabi, con una spiccata predilezione per le opere che potevano arricchire i suoi interessi: astrologia, matematica, alchimia e filosofia. La fondazione dell’Università a Napoli e la scelta di Palermo come capitale testimoniano anche geograficamente il centro di questa compagine. Il sufi Ibn-Sab’in allievo di Muhyi-d-Din, fu il maestro di Federico nelle architetture di metafisica, come si evince da un codice in lingua araba conservato ad Oxford nel quale si possono leggere le domande formulate dall’imperatore e le risposte del maestro sufi. Ecco che il filo dei rimandi unisce Dante, attraverso Federico II, all’opera di Ibn-Arabi. Sembra strano però che nonostante la confluenza delle due civiltà nell’opera di Dante, Maometto, il profeta fondatore dell’islam, il Rasul ossia l’inviato-legislatore che imporrà il monoteismo presso le varie etnie arabe di fede politeista, sia addirittura posto dal poeta nella bolgia infernale che accoglie i seminatori di discordia. Spettacolo osceno si presenta infatti al lettore del XXVIII canto dell’Inferno. Maometto appare con il collo squarciato e l’intestino fuori dallo stomaco. La descrizione del suo supplizio ha un tono triviale e sarcastico che sembrerebbe dunque contraddire la tesi della sintesi tra civiltà islamica e cristianesimo presente nella “Commedia”.
Più di ogni altro argomento, la presenza di Maometto nelle bolgie infernali sembra inficiare le tesi fin qui sostenute che trovano il loro più acceso sostenitore in Miguel Asin Palacios, il più grande arabista del suo tempo che nel 1919 scrisse “La escatologia musulmana en la Divina Comedia” facendo riferimento ad uno dei più importanti maestri sufi, quel Ibn-al-Arabi che aveva narrato il viaggio oltremondano dei due maestri sufi. Secondo Scali la contraddizione è solo apparente. Dante non può accettare la dottrina islamica, anzi deve ribadire la fedeltà alla propria fede cristiana, né tanto meno cita mai l’opera di ibn-al-Arabi. Ma ciò che è inaccettabile nell’ambito pubblico perché sarebbe incomprensibile alla vasta platea dei credenti, assume altra evidenza se riportato sul piano esoterico. È questo il piano dell’incontro tra la tradizione mistica del sufismo e la sapienza originaria della tradizione cristiana cara a Dante.
Il sufismo è l’indirizzo mistico che si stacca dall’ortodossia islamica, trova la sua legittimità nel riferimento ad un insegnamento segreto che Maometto avrebbe comunicato ai suoi più intimi sodali e ha come scopo l’unione mistica dell’anima con Dio. Ben presto si arriverà ad uno scontro tra le due correnti religiose, fino ad una soluzione di compromesso individuata da Al-Ghazzel nell’XI secolo. Dante, assecondando la teoria della “doppia verità”, tiene ben separate religione e spiritualità, teologia e conoscenza sapienziale. È, in fondo, la stessa strada seguita da Federico II, convinto che la Verità è unica e si mostra nella sapienza originaria e poi storicamente assume forme diverse secondo i vari contesti storici. Lui poteva contemporaneamente definirsi defensor fidei in occidente e in oriente Khalifah, che significa successore, vicario.
Un altro tema viene affrontato da Scali per individuare il percorso millenario della tradizione che perviene fino alle pagine della “Commedia”. È la nascita dell’ordine dei Templari voluto da san Bernardo di Chiaravalle nel 1118 che trova la sua sede nella chiesa chiamata Templum Salomonis, che si affaccia sulla spianata di Haram-esh-Sherif a Gerusalemme. È questo il tempio fatto costruire intorno al 970 a.C. dal re biblico Salomone scelto da JHWH per la sua sapienza. Era una costruzione monumentale, lunga circa 38 metri. Nella parte più riposta sorgeva l’Arca dell’Alleanza. Il tempio venne distrutto da Nabucodonosor nel 587 a.C., riedificato successivamente, devastato da Antioco IV Epifane e infine bruciato accidentalmente in epoca romana, nel 70 d.C. Il tempio è per gli ebrei la dimora del divino. È la Pietra che custodisce la Parola. Collocato al centro di Gerusalemme, dunque al centro di Israele, contiene nell’Arca dell’alleanza le Tavole della legge. Già questo simbolismo rinvia ad analoghe tradizioni presenti in altre culture: i menhir celti, l’edificazione della chiesa di Pietro voluta dal Cristo, la Ka’ba islamica, la coppa greca da cui si beve l’ambrosia bevanda dell’immortalità, la pietra del Graal da custodire con grande cura. I Pauperes Commilitones Templique Salomonici, all’inizio solo sette cavalieri guidati da Ugo de Payns e Goffredo di Saint-Omer, prenderanno il nome di Templari del Tempio, parola che indica un luogo geografico e insieme spirituale. Dante per intraprendere il suo viaggio muoverà, non a caso, dal tempio di Gerusalemme. Il sapere iniziatico a partire da re Salomone, conduce ai cavalieri guerrieri il cui ordine si richiama espressamente al Tempio come archetipo di Verità rivelata presente sia nell’islamismo che nel ciclo del Graal. Infatti coma racconta von Eschembach nel “Parzifal”, una notte una schiera di angeli depositò sulla terra il Graal, la Pietra, custodita da una schiera di uomini “non meno puri degli angeli” al comando del re Mazadan, capostipite di Artù. La storia viene narrata da un maestro di nome Kyot la cui schiatta discendeva da re Salomone, che aveva casualmente ritrovato un manoscritto redatto in arabo. Di nuovo confluiscono gli apporti della civiltà ebraica, islamica e cristiana. Gli uomini puri appartengono alla saga celtica e sono l’archetipo dei monaci-guerrieri ai quali si richiameranno i Templari. La Pietra graalica portata sulla terra dagli angeli è speculare alla Pietra della Ka’ba recata dall’angelo Jbra’il. Ognuna ha il potere di dare legittimità all’autorità. Il Graal designa il re, la Pietra nera nomina gli imam.
Che le tre religioni abbiano identica origine lo testimonia la figura di Abramo che riceve la benedizione dal sacerdote dell’Altissimo, Melchisedek, nome con cui la tradizione biblica indica il principio dell’autorità, che significa “Re di giustizia” e “Re di pace” ed è primo, “non ha antenati”. Come afferma Guénon nel “Re del mondo”, rappresenta la vera figura del figlio di Dio al quale Abramo dà la decima di tutto. Nel “Parzifal”, l’eroe si scontra in combattimento con il proprio fratello di cui ignora l’identità, in una lotta che non ha vincitori ma stabilisce la divisione dei due ambiti, l’oriente e l’occidente. L’unità sostanziale delle due tradizioni è stabilita dalla loro filiazione da Abramo. La presenza dei Cavalieri templari in Palestina è caratterizzata da rapporti con i musulmani che vanno dalla deferenza all’amicizia. Vi sono addirittura dei musulmani tra i Templari, e venne assegnata al Saladino la militanza onoraria all’interno dell’ordine, mentre il Gran maestro, autorità prima ed indiscutibile tra i Templari, è spesso garante dei trattati firmati tra le autorità islamiche e i re latini d’oriente. Dante entra in contatto attraverso il suo maestro Brunetto Latini, uomo di grande cultura e prestigio, con il gruppo iniziatico dei “Fedeli d’amore”. Il suo “Trésor” è un’opera enciclopedica ricca di rimandi alla filosofia araba, alla religione islamica, agli insegnamenti dei maestri sufi. È lo stesso poeta a riconoscere il suo debito con il maestro: “Mi insegnavate come l’uom s’etterna”. È questo sapere iniziatico che porterà Dante a comporre la “Divina Commedia”. Il viaggio oltremondano descritto da Dante nel suo poema, è collocato nella Settimana santa dell’anno giubilare 1300, considerato dal poeta, essendo il suo trentacinquesimo, il centro della sua vita e insieme il centro dei tempi. Infatti si credeva che il mondo fosse fino ad allora durato 65 secoli e altrettanti ne mancassero alla fine. Il percorso di Dante ha sia un significato individuale sia universale. Dante smarrito “nella selva oscura” rappresenta la condizione dell’uomo offesa dal peccato originale che produce due effetti. L’uomo perde il “recte vidère” e “il recte fàcere”. Inoltre l’Europa priva com’è della guida imperiale, si dibatte in una grave crisi politica. Ecco perché Dante si propone di realizzare una duplice missione “la cui portata impegna cielo e terra”, ossia la salvezza dell’uomo che passa attraverso il battesimo e la salvezza dell’umanità che ha bisogno di una guida politica legittimata dalla chiesa. Dopo Enea che realizza il compito affidatogli dagli Dei – fondare Roma – e san Paolo che istituisce le fondamenta dottrinarie del cristianesimo, Dante che vive al tempo della vacanza imperiale e della corruzione della chiesa, intende restaurare i due poteri logorati da un conflitto secolare. Già nella “Monàrchia”, il poeta aveva legittimato il potere imperiale come guida dei popoli individuandone la fonte di legittimità in Cristo.
Dante ritiene impossibile una salvezza per l’uomo fuori dalla tradizione spirituale che si invera nel battesimo. Così come la salvezza dei popoli deve essere garantita dall’obbedienza al potere imperiale. L’imperio è il potere che dal re viene trasmesso alla societas. Dopo la colpa commessa da Adamo che ha significato per l’umanità intera la perdita dell’innocenza, la fondazione dell’Impero romano trova la sua legittimità nel riconoscimento divino. San Paolo afferma infatti che “omnis potestas a Deo”. La tesi di Scali, a questo punto, si fa ardita. Sostiene lo scrittore che poiché il sacrificio di Cristo, atto a redimere l’umanità corrotta dalla colpa di Adamo, è avvenuto sotto la giurisdizione di Ponzio Pilato, procuratore romano della Giudea, egli aveva titolo per comminare la pena. E addirittura immagina che il conflitto di poteri tra il Sinedrio e Pilato si giochi sul corpo di Cristo. Anna, dottore della legge, e Caifa, sommo sacerdote, decidono di affrettare la morte di Gesù poiché la sua condanna ha instillato dubbi e inquietudine tra il popolo. Così ordinano di spezzare le ossa dei crocefissi per abbreviarne il trapasso dopo avere chiesta e ottenuta l’autorizzazione a Pilato ad agire così. Ma non appena il picchetto di guardie si appresta ad eseguire l’ordine, il centurione romano Caio Cassio immerge la sua lancia tra la quarta e la quinta costola di Gesù, secondo l’uso militare romano. Secondo Scali questo gesto oltre a compiere la profezia di Isaia, “Non un osso di lui verrà spezzato”, acquisisce all’Impero “la con titolarità del sacrificio cristico”, poiché scavalca e delegittima l’autorità del Sinedrio e sancisce la sacralità dell’Impero romano ora divenuto cristiano. La centralità della tradizione romana nella “Commedia” è ovviamente attestata dall’aver scelto Virgilio come guida fino alla soglia del Paradiso. Già Enea era stato protagonista di una discesa agli inferi che ha la funzione di investire l’eroe troiano dell’alta missione per la quale è stato prescelto, rivelandogli i compiti ai quali deve attendere attraverso l’oracolo della Sibilla cumana, sacerdotessa di Apollo. Lo stesso Dio a cui Dante rivolgerà la sua invocazione nella prolusione al Paradiso perché lo aiuti, insieme alla “divina virtù” a portare a compimento il suo viaggio.
Ancora una serie di analogie lega il mito greco-romano all’epos cristiano. Come si legge nell’Eneide, Laomedonte fondatore di Troia si era macchiato di empietà nei confronti di Apollo e Poseidone. La sua colpa determina la distruzione della città. Enea, semidio perché figlio di Venere, riceve dalla madre la rivelazione del compito che lo attende: fondare la città eterna. Anche Dante smarrito nella selva oscura, deve compiere il suo destino. Entrambi questi eventi, lo smarrimento e la successiva salvezza non sono che l’eco della vicenda di Adamo, a cui anche il santissimo Corano si riferisce. Di nuovo la tradizione raduna le diverse mitologie nella salvezza dell’umanità che si compie con il sacrificio sulla croce del Cristo. Alla tracotanza, suprema colpa dell’uomo rispetto al divino nel mito greco corrisponde il peccato dell’uomo, la disubbidienza al Dio cristiano. La salvezza suppone la liberazione dalla propria individualità, che esige l’oblio della razionalità umana, forma ancora finita, maschera che impedisce l’unione estatica con il divino. Anche in questo caso i rimandi fanno riferimento al mondo greco, al mito platonico dell’androgino, l’unità maschio-femmina prima della lacerazione che ha provocato il nascere dei due differenti sessi.
Anche presso i Templari si celebravano riti iniziatici che alludevano al ritorno ad uno stato primordiale di innocenza, che si sublima nella figura del Cristo, che è insieme morte e resurrezione. Dante deve liberarsi “dalle forze maligne presenti nelle profondità del suo io” con l’aiuto del suo maestro Virgilio. Nel XVI canto dell’Inferno, il Poeta giunge ad uno strapiombo. Per poter superare tale abisso dovrà ricorrere a Gerione, mostro infernale. Ma prima lancia nel baratro una corda che fa parte del suo abbigliamento. Scali legge, in questo gesto, l’abbandono del suo vecchio io e il coraggio di cavalcare il mostro seppure strettamente abbracciato a Virgilio. L’incontro con Dio si colloca su un piano altro dall’umana razionalità. Nelle parole di san Paolo, “la follia di Dio è più sapiente degli uomini”.
Il 22 maggio del 1312, Clemente V con una bolla pontificia decreta la soppressione dell’ordine dei Templari, così da poter impadronirsi delle enormi ricchezze dell’ordine. Il Papa è alleato del re di Francia, Filippo IV il Bello, che volendo istituire in Francia un potere assoluto, senza alcuna interferenza religiosa, mira al controllo dei vescovi francesi e vuole incamerare i beni dei Templari in Francia per finanziare la guerra contro l’Inghilterra e spianare la strada di suo fratello, Carlo di Valois, al trono imperiale. Si compie la rottura definitiva dell’unità dell’Europa, la perdita del centro spirituale rappresentato da Gerusalemme e si pongono le basi per lo scisma luterano. Dal punto di vista politico, le guerre di supremazia tra le nazioni scaveranno solchi incolmabili dentro il continente europeo. Nei roghi dei Templari brucia l’Europa, Scali fa risalire a questi eventi la morte del sacro, che causa l’autoreferenzialità del potere politico, centrato solo sulla realizzazione della propria volontà di potenza. Sul piano individuale, si assiste alla nicciana “morte di Dio” che consegna l’uomo ad un’esistenza priva di senso, perché non più radicata nella “follia” del divino. L’uomo ha di nuovo commesso quello che Dante riteneva il peccato cosmico dell’hybris, la tracotanza.