Piccola prova della fine del mondo
Il testo che proponiamo apparve sul numero 10 (dicembre 2000) della rivista Etna Uomo Ambiente, stampata dall’Associazione D.E.A. (Difesa Ecologica Ambientale): una “Unità Operante” sorta all’interno di Heliodromos, che per diversi anni condusse attive campagne militanti “tese all’affermazione di una nuova cultura dell’ambiente”, con particolare attenzione alla Sicilia ed al territorio etneo.
L’occasione che determinò questo scritto fu una protesta degli autotrasportatori, i quali, alla fine del secolo scorso, attuarono un blocco del trasporto merci che, per alcune settimane, mise a dura prova gli approvvigionamenti commerciali. L’argomento affrontato ci è sembrato particolarmente attuale, almeno per quanto riguarda l’odierna “psicosi delle scorte” e relativa corsa all’accaparramento dei prodotti nei supermercati.
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Tutto cominciò quasi per caso. Nel giro di pochi giorni ai caselli autostradali iniziarono a crescere i TIR fermi ai bordi della strada: come elefanti abbattuti a un passo dalla meta, le enormi strutture metalliche giacevano immobili e senza vita. All’inizio nessuno ci fece caso, registrando con la coda dell’occhio (e del pensiero!) una scena solo leggermente più affollata del solito. I viaggiatori abituali, entravano ed uscivano dall’autostrada vedendosi crescere davanti, giorno dopo giorno, l’origine dei guai loro e della popolazione tutta; compresa quella non motorizzata, intenta a sonnecchiare sulle panchine assolate delle piazze di paese, sulle sedie dei bar e fra le bancarelle della fiera.
La televisione e i giornali lanciavano notizie troppo vaghe e per nulla lungimiranti, perché potesse cogliersi la pericolosità del fenomeno. Quelle notizie che si sta ad ascoltare o di cui si legge il titolo distrattamente, pensando ad altro perché ad altro è rivolta l’attenzione del momento. E non si capisce il motivo per cui si debba perdere allora il tempo a scrutare le pagine di un giornale o a fissare il video, se il pensiero svolazza altrove, incapace di fissarsi sui particolari e di accumulare conoscenze e informazioni. Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe, adesso, fuori tema.
I primi a capire che qualcosa non andava furono gli abitudinari, quelli che possedendo una rigida schematizzazione mentale, che si potrebbe superficialmente confondere con una qualche forma di ordine interiore, notarono che alcuni tasselli del loro geometrico panorama quotidiano non erano al loro posto. Nelle loro organizzatissime escursioni ai supermercati si accorsero che qualche scaffale scarseggiava di prodotti di prima necessità, come bitter e gingerini; per non parlare della margarina e del dado star. Ben presto il fastidio si trasformò in apprensione, e quindi in ansia: assumendo finalmente i connotati del dramma epocale.
La formica divenne dunque modello di vita e cominciò la corsa all’accumulo, non solo di prodotti solitamente usati, ma anche di stupidaggini che, in altra occasione, mai ci si sarebbe sognati di portare a casa; temendo, giustamente, che le mogli le avrebbero tirate in testa all’incauto acquirente. Gli scaffali si svuotarono di latte, pasta, zucchero, conserve e carta igienica nel giro di poche ore. E quando i gestori dei supermercati, gongolanti all’inizio per questa inaspettata manna, cominciarono a temere per la loro incolumità e per quella dei loro dipendenti, cercarono di attuare improvvisate forme di regolamentazione negli acquisti (non più di un carrello a persona, non più di cinque pacchi di zucchero a testa, non più di dieci rotoli a…!), l’ingegno della gente si aguzzò, giustamente, nel momento del bisogno.
Ed ecco partire intere famiglie all’arrembaggio, con grande soddisfazione per quelle numerose (qualcuno rispolverò frasi storiche, dettate in altre epoche da ben altre motivazioni ed ideali, tipo: «il numero è potenza»), mentre quelle poco numerose cercarono di arrangiarsi, facendosi prestare il ragazzino scemo dalla vicina di pianerottolo o andando a rispolverare vecchie zie dimenticate da tempo in un isolamento inumano e idiota.
Ma siccome le disgrazie non vengono mai da sole: una volta riempite le dispense, ci si accorse che altri fronti si aprivano, per cui la lotta doveva essere continua e dura se si voleva garantire la sopravvivenza della propria stirpe. Stesso destino dei supermercati dovettero quindi subire le farmacie e i tabaccai, i negozi di elettrodomestici e, ovviamente, i rivenditori di telefonini e loro accessori, ferramenta e abbigliamento. Alla fine, il panico generale trovò un infallibile segnalatore nella spia del carburante delle auto. Il momento tanto temuto giunse per tutti, e ci si mangiò le mani per aver trascurato un particolare che una condotta abitudinaria e accecante aveva reso inimmaginabile. Molti si resero conto di non aver mai valutato quanto poco durasse un pieno e, soprattutto, di come senza quel pieno sarebbero stati “fottuti”.
Per gente abituata a trascorrere, senza averne consapevolezza, una grossa fetta della propria esistenza in auto, incolonnati ai semafori o lanciati a centocinquanta in autostrada, l’ultimo pieno assumeva indubbiamente i sinistri connotati dell’ultimo giorno del condannato a morte. E allora la follia collettiva ebbe come approdo conclusivo le pompe dei rifornimenti oramai a secco e irrimediabilmente chiusi, in cui si organizzarono bivacchi e turni di pernottamento, nella vana speranza che il dio degli automobilisti facesse piovere benzina e gasolio dal cielo. Si narra che alcuni fortunati fecero in tempo a portarsi a casa bidoni di venti, trenta e qualcuno anche di quaranta litri di benzina: convinti di essere così riusciti a sfuggire alla paralisi generale e ad una fine non degna di uomini abituati a muoversi dalla mattina alla sera.
Le mogli guardavano con disprezzo i mariti che rientravano col bidone vuoto, e i figli odiavano i genitori che tornavano dal supermercato con provviste sufficienti appena a sopravvivere, fra gli stenti, solo per poche settimane. Il tessuto sociale rischiava di essere eroso alla base, nel suo nucleo fondante, e le autorità sembravano incapaci di trovare una soluzione che non gli facesse perdere la faccia. Lo spirito della rivoluzione cominciò a serpeggiare minaccioso, anche fra i cittadini più innocui e meno portati per natura a intemperanze e colpi di testa. Probabilmente qualcuno giunse anche ad organizzare comitati insurrezionali, pronti a passare alle vie di fatto, ispirandosi agli alti ideali contenuti nell’inno di Gianburrasca: «La storia ci ha insegnato/che un popolo affamato/fa la rivoluzion./Viva la pappa col pomodor».
E proprio nel momento più buio, quando oramai il paese si trovava già con un piede oltre il ciglio del burrone, ed era stato sfiorato il punto di non ritorno: i camionisti dei TIR sospesero il blocco e ripresero a viaggiare e a far viaggiare le merci che oramai la popolazione non sperava più di rivedere. Gli odi, i rancori, i proclami bellicosi e ogni tipo di tensione, come per incanto, rientrarono dentro le coscienze da cui erano stati vomitati. Qualcuno, ma pochi, si sorpresero di essersi fatti prendere la mano e di essersi spinti troppo oltre i limiti della decenza e del buon senso. Un paio arrivarono anche a vergognarsi! Ma tanti, soprattutto, si ritrovarono dall’oggi al domani alle prese con un nuovo problema che gli fece trascorrere qualche notte insonne: «E adesso che cazzo me ne faccio di tutto questo zucchero, di tutto questo latte a lunga conservazione e di tutta questa carta igienica?»