Kâma-Kâla:
Éros e Thánatos
ovvero il motivo ierogamico
Il presente scritto di Giuseppe Acerbi, diviso in due parti per la sua lunghezza, apparve sul numero 11 (Autunno-Inverno 1996/1997) e sul numero 14 (Estate 1998) di Heliodromos, aprendo così la sua collaborazione con la nostra rivista. Lo proponiamo adesso in questa sede, per mantenere l’impegno preso con i nostri lettori di riproporre i testi del compianto Giuseppe, il cui valore e le cui smisurate conoscenze risaltano, qualora ce ne fosse bisogno, in maniera evidente dal testo qui presentato.
A costo di smentire il titolo del soggetto richiesto in un seminario indiano su Kâma as a Human goal in Ancient India (tenutosi a Thane, presso Bombay, nell’aprile del ’93), al quale tuttavia codesto scritto si era in origine indirettamente ispirato, occorre invero dire che la sessualità nell’antichità indiana non poteva essere in alcun modo concepita semplicemente come meta umana. La concezione del sesso quale meta umana, cioè terrena (cfr. in latino la relazione fra l’a.m. hûm-ân-us= “umano” ed il s.n. hum-us= “terra” (1), è assolutamente moderna, tanto in Oriente quanto in Occidente.
Oltretutto, l’accezione del scr. Kâma non riguarda propriamente l’aspetto sessuale dell’essere umano, e della natura animale più in generale; bensì l’aspetto passionale, ossia erotico (nel senso originario del gr. érôs = ardore, passione) (2). Come tale, esso è equivalente più all’Elemento Fuoco, personificato dal dio Agni, che non all’Elemento Acqua, rappresentato da Soma (3). In altre parole, le valenze semantiche del nome del Dio del Desiderio sono maggiormente corrispondenti ad un temperamento di tipo asurico e demonico, piuttosto che ad uno di tipo divino ed eroico; solo quest’ultimo, infatti, è caratterizzato nella sua tipologia caratteriale da quei tratti dominanti che potremmo propriamente definire magnetico-sessuali. Trattasi, ad ogni modo, di aspetti riguardanti in entrambi i casi la cd. mitologia della fecondità e della fertilità. Ma, se nel primo caso, ponendo un’equivalenza tra Kâma ed Agni, si finisce per porre in evidenza il simbolismo teriomorfico; nel secondo caso, tracciando un rapporto analogico tra Kâma e Soma, si giunge viceversa ad esaltare il simbolismo fitomorfico. Il che è come dire che, in quanto Agni, Kâma è necessariamente legato al sangue ed a tutto quel che concerne il sacrificio animale; ma, in quanto Soma, si connette invece alla linfa ed a tutto quel che si richiama al sacrificio vegetale. Da ciò risulta, allora, che per un verso ovvero nei suoi caratteri più rozzi ed arcaici – in realtà più misteriosi ed arcani – Kâma corrisponde a Çiva, cioè a Kâla; il quale non per niente è spesso da considerare un allotropo di Agni, quando non è addirittura a lui associato – parimenti a Rudra – nella veste allegorica di un Sacrificatore, che ha Prajâpati od un suo alter-ego demonizzato (in realtà una raffigurazione simbolica dell’Âtmâ) quale oggetto del Sacrificio cosmogonico. Per un altro verso, ossia nei suoi caratteri più lineari e recenti – insomma nei suoi tratti più dirozzati ed ingentiliti – lo stesso dio corrisponde invece a Vishnu; nonché ad Indra, il benefico Dio delle Piogge fecondante la Terra con il suo “Seme”. (4) Questo secondo aspetto di Kâma è in verità una trasposizione sul piano mitico di un fatto che dal punto di vista naturale risulta essere un atto di fertilizzazione, non già di fecondazione. Ma siccome le piogge hanno come effetto immediato la crescita delle erbe e delle piante, e queste offrono il nutrimento essenziale al mondo animale, ovvero di conseguenza uno stimolo indiretto alla riproduzione del medesimo, ecco che fin dai tempi più remoti il ciclo pluviale è apparso sempre inscindibilmente connesso a quello riproduttivo (5), tramite appunto il passaggio intermedio del ciclo vegetativo. Naturalmente, tanto la simbologia fitomorfica ivi delineata, concernente le piogge, la linfa ed il sacrificio vegetale, così come quella teriomorfica cui si è prima accennato, poggiantesi sul valore rituale del fuoco, del sangue e del sacrificio animale, posseggono entrambe aspetti esoterici; che non staremo qui ad illustrare in dettaglio, ma che debbono essere tenuti presenti qualora si voglia provare a comprendere più addentro la funzione allegorica delle due basi culturali sommariamente descritte. Diremo solo che il fuoco e le piogge alludono al Mondo Celeste (ossia a quello noetico), il sangue e la linfa al Mondo Infero (ossia a quello psichico), i corpi animali e vegetali al Mondo Terreno (ossia a quello ilico). È palese, d’altra parte, che il Trimundio (Triloka) sia da porre microcosmicamente in relazione alla Triade formata da Spirito (Buddhi), Anima (Manas) e Corpo (Çarira). Esso è inoltre correlato con i tre principali stati mentali, provocati dai tre Guna. Ora, essendo ogni rito la ripetizione cerimoniale di un analogo atto cosmogonico di natura mitica, tale rito può essere benissimo compiuto in senso inverso, ad un fine realizzativo. Donde si spiegano le pratiche delle oblazioni. Siccome ogni pratica sacrificale dà modo agli individui di realizzare interiormente quel che nel rito si compie esteriormente, si capisce perché anticamente i Sâdhaka adottassero per la loro Siddhi, secondo il loro temperamento sanguigno o linfatico, dei simboli di tipo venatorio-pastorale (come facevano i Pâçupata) oppure orticolo-agricolo (al modo dei Pâñcarâstra). Il Pâça shivaita (6) evoca, ad esempio, tutto un ambiente di conoscenze e pratiche shamaniche, di vita selvaggia e tribale, vissuta a fianco degli animali, nei confronti dei quali si giunge quasi ad una assimilazione concettuale col mondo umano, in senso iniziatico. Altrettanto potrebbe dirsi del Linga (‘Fallo’) di Çiva, chiaro emblema di una vitalità animalesca, di una fecondità virile ed attiva, nonché di una mentalità focosa; per contro lo Çankha (‘Conchiglia’) vishnuita, parimenti al Padmâ (‘Loto’), suggerisce l’idea di una fecondità femminea e passiva, di una fertilità germinale e vegetativa, insomma di una mentalità umorale. Pure gli altri due emblemi essenziali di Vishnu, il Gadâ (‘Mazza’) ed il Cakra (‘Ruota’; quest’ultima talora personificata nel Cakrapurusha o, diversamente, nel Sudarçanacakra), se in maniera diretta si rifanno al Râçicakra, offrono un rimando in maniera diretta ai culti agrarî; dato che la conoscenza dello Zodiaco e la pratica astrologica andavano nei tempi antichi di pari passo con lo sviluppo della scienza e della tecnica orticola, se proprio non vogliamo dire agricola.
Quanto già detto dà ragione, dunque, della differenza fondamentale che ha sempre caratterizzato il culto degli Asura rispetto a quello dei Deva, vale a dire l’impiego in un caso di sacrifizî cruenti e nell’altro di sacrifizî incruenti. Va comunque sottolineato che, parlando di Asura e di Deva, non ci riferiamo per l’occasione soltanto a delle astratte categorie numinose, quali possono essere parallelamente in Grecia, i Titani e gli Dèi (7); bensì intendiamo implicare entro le due classi citate le ‘Generazioni’ umane corrispondenti, le quali secondo la dottrina degli Yuga si sarebbero sviluppate durante le età conosciute dai testi sacri come Tretâyuga e Dvâparayuga. In Occidente rinveniamo tematiche analoghe in relazione all’Età Argentea ed all’Età Bronzea. Non si può tuttavia dimenticare che la figura di Kâma nasce mitologicamente (nei Purâna) dalla ‘Testa’ di Brahmâ ed è concepibile impersonalmente come il ‘Desiderio di Manifestazione’ da parte del Creatore, ovvero intendendo tale figura come una personificazione di siffatta funzione (8). Da questa interpretazione metafisica ed ideale di Kâma deriva l’altra cui abbiamo sopra accennato di Kâma come ‘Eros, Passione’ in senso igneo. Per continuare con le associazioni prima citate, crediamo che l’atteggiamento passionale, seppure sia proprio in senso lato di tutti gli esseri umani, rappresenti in senso più ristretto un tratto tipico della mentalità degli Kshatriya (‘Guerrieri’), anziché di quella dei Vaiçya (‘Produttori’); giacché i primi sono simbolicamente correlati al culto degli Asura ( o Pitri – ‘Antenati, Padri’ – che dir si voglia) ed i secondi al culto dei Deva (‘Dei’). Kâla, Rudra ed Agni esemplificano la prima categoria numinosa; mentre Indra, Dyaus e Soma rappresentano la seconda.
Certamente il ‘Desiderio di Creazione’ è un parallelo, su un piano più elevato, del desiderio di copulazione; il quale, sottolineiamo ancora, è distinguibile concettualmente sia dalla seduzione sessuale, sia dalla sensualità… Perciò, considerando tale relazione analogica in senso inverso, cioè realizzativo, potremmo ammettere che vi sia, al di là di quanto si creda generalmente, una diretta relazione tra la ricerca del piacere tout court e la ricerca della beatitudine spirituale. È proprio questa relazione, del resto, che sfrutta il Tantrismo in accordo con le necessità umane del Kaliyuga, laddove spinge l’iniziato a cercare mete sempre più alte; pur concedendogli quale base di partenza il sostrato inferiore della psiche umana, simbolicamente rappresentato dall’Elemento Terra. È particolarmente la ‘Via di Sinistra’ (Vâmâcâra), che può essere concepita come dipendente da tale Elemento; dato che la ‘Via Mediana’ (Uttarâcâra) e la ‘Via di Destra’ (Dakshinâcâra) fanno leva, rispettivamente sull’elemento Acqua e sull’Elemento Fuoco (9). I loro Colori simbolici sono, vicendevolmente (in rapporto ai solstizî e agli equinozî, il Rosso, il Bianco ed il Nero; colori che, mûtâtis mûtândis, ritroviamo persino oggidì, ormai pienamente degenerati, in qualità di emblemi delle principali correnti ideologiche del mondo politico a livello mondiale (*).
Nella propria veste più tipica il dio Kâma è rappresentato iconograficamente quale Arciere, che ha a disposizione nella sua faretra Cinque mitiche ‘Frecce’; una per ciascuno dei ‘Cinque Sensi’, dei quali è considerato essere il dispositore. Evidentemente queste ‘Cinque Frecce’ sono omologabili, sul piano della Manifestazione (Vyakta), a ciò che costituiscono le ‘Cinque Teste’ (Pañcaçiras) di Brahmâ sul piano dell’Immanifesto (Avyakta) (10). Infatti, ciascuno dei ‘Cinque Sensi’) (Pañcemdriya) dipende da un Bhûta (‘Elemento’), esattamente come i Pañcaçiras del ‘Grande Antenato’ (Pitâmaha). Il ruolo svolto da Kâma all’interno dell’induismo appartiene nel Buddhismo, come sappiamo bene, a Mâra; le cui ‘Figlie’ sono spesso ritratte nella scultura antica nell’atto demonico di tentar di corrompere il pensiero di Siddhârta, confondendo illusoriamente la ricerca spirituale del futuro Buddha con la sete di desiderio sessuale. Talora, le ‘figlie’ compaiono nell’iconografia in numero di quattro, o addirittura di otto, e sono disposte a cerchio attorno al protagonista del sortilegio; sì da assumere una veste propriamente cosmica e quasi a suggerire – se ci è concesso di interpretare psicologicamente la scena di un celebre rilievo di Nâgârjunakonda – una dispersione onirica da parte di Sâkyamuni, ritratto in un momento di cedimento interiore e di disdicevole soggezione a Mâra, ovvero alle potenze fantasmagoriche del Samsâra (11). Siffatto particolare ci induce a riflettere però sul valore profondo del personaggio di Mâra, un alter-ego, a nostro modo di vedere, di Mrityu e di Marut (cfr. il lat. Mârs, gentile. Mârtis) nella funzione di Dio della Morte; anche se in Mâra (12) parrebbe esservi, a differenza dei suoi omologhi indiani, un tratto più specifico di Dio del Male. La B.Â.U. – i. 3, 9-10 dimostra, tuttavia, come anche nel caso dell’abbinamento tra i concetti di Male e di Morte fosse un fatto assolutamente scontato. Il Male, beninteso, era assimilato dagli antichi alla Morte, in quanto suo aspetto negativo. Cfr. in sanscrito le voci mara/mâra (‘morte’) – lat. malum (‘male’), gr. mòlos (‘pena’), m. at. mal (‘macchia’) – e mrityu (id.) – lat. mors, mortis (id.), gr. mòros (id.) e bròtos (‘mortale’). Mentre il Bene era, ovviamente assimilato alla Vita, quale suo aspetto positivo; quantunque nella Morte medesima si ravvisasse un tempo tale aspetto benefico ed, altrettanto, nella Vita un aspetto reciprocamente malefico. Tutto dipendeva, è chiaro, dal fatto che si considerassero Vita e Morte in senso cosmogonico (creativo) od ontologico (realizzativo).
L’accostamento tra i concetti di Érôs e di Thánatos è rintracciabile non solo nell’antica mitologia hindu, ma pure in quella greco-latina, ove ritroviamo un’analoga giustapposizione. Si pensi, ad esempio, in ambito ellenico ai rapporti rispettivamente coniugali ed adulterini , intercorrenti tra Efesto ed Afrodite o fra la stessa dea ed Ares, con allusioni evidenti a due coppie di Segni zodiacali (Lîbra-Scorpio da un lato ed Ariês-Taurus dall’altro); oppure, diversamente, alla storia di Edipo, di assai antica origine, ma riformulata teatralmente nelle tragedie greche di Eschilo e Sofocle (13). A Roma è invece reperibile l’effigie divina di un certo Pîcus Mârtius, raffigurato come un giovane avente un picchio sul capo, a mo’ dello Horus egizio, che viceversa portava sulla testa un falco; ed alternativamente rappresentato quale ‘Picchio’ appollaiato su una stele lignea (14), con ovvia allusione al Phallus Dei, secondo quanto risulta dall’analisi dell’etimo di certi vocaboli del linguaggio volgare e dialettale italiano. Tale figura divina è descrivibile a grandi linee come un Signore della Pioggia, elemento vitale per la fertilità della terra, al pari di quel che è il seme per la fecondità animale (15). È da ritenere, comunque, che tale nume sia in realtà un doppione di Marte (16), il Dio della Guerra; siccome è lecito supporre che in origine questi sia stato forse più genericamente il Dio della Morte, oltreché della Pioggia. Ed anche dal punto di vista astrologico, rileviamo come in tutta l’area indomediterranea il dispositore celeste del pianeta corrispondente – lat. Mârs, scr. Mangala per dissimilazione, similmente a quanto avviene tra il lat. Sâturnus (dalla rad. sri-) ed il scr. Çâni; ovvero, in maniera rovesciata, tra il lat. Cancer ed il scr. Karka – abbia i tratti di un Signore della Preservazione e della Morte (o della Guerra) (17). Julius Evola, autore di un magnifico saggio sulle rilevanze metafisiche della sessualità umana, pubblicò a suo tempo un’illustrazione (18) intesa ad evidenziare l’affinità somatica tra i tratti di una donna in atteggiamento di godimento amoroso e quelli della stessa donna nella condizione di estasi religiosa e di beatitudine spirituale. L’argomento è inoltre ampiamente dibattuto nel testo, che è senza dubbio una delle massime espressioni di ricerca sulla questione della relazione tra Érôs e Thánatos (19). L’intento di codesto saggio è però apertamente filosofico e letterario, mentre il punto di vista dal quale il medesimo soggetto è costì considerato è prettamente mitologico ed iconografico. Su questa base notiamo, dunque, che l’identificazione di Kâma con Mâra è insomma quasi un’alterazione concettuale del soggetto, nel senso elementale precedentemente descritto. O, per meglio dire, trattasi di un’interpretazione diversificata e parallela, ma non del tutto equivalente; perché il vero alter-ego di Kâma non e Mâra, bensì Kâla. Sebbene in sanscrito l’uno e l’altro di questi ultimi due nomi designino il Dio della Morte, secondo quanto si può rilevare filologicamente, Kâla rispetto a Mâra ha tuttavia un rapporto più stretto – indipendentemente da quanto si è riferito in precedenza, a proposito del rilievo buddhista di Nâgârjunakonda – con la Ruota Celeste (20). E seppure nel mito di seduzione di Çiva per mezzo di Kâma (21), secondo una convenzione universalmente valida che vuole l’innamoramento associato alla stagione dei fiori, sia proprio Vasanta (personificazione in veste maschile della Primavera) a creare uno scenario floreale adatto alla suggestione amorosa, provocata dal Dio del Desiderio nella mente di Mahâdeva, siamo convinti che l’abbinamento di Kâma con la Primavera (22) sia cronologicamente più recente di quello con l’Inverno (scr. Hemamt-a, lat. Hiem-s, gr. Cheím-a /- ôn). Si potrà obiettare che quest’ultimo accostamento non sia tanto giustificato nella mitografia, il che è forse vero; tuttavia, esso è deducibile attraverso una più attenta analisi linguistica ed iconologica. Dal punto di vista filologico abbiamo già visto (23) come il termine kâma (dal vr. kam = ‘desiderare’) sia apparentabile ad una rad. km sm-, ampiamente diffusa in tutta l’area euroasiatica, sia nelle lingue indoeuropee sia in quelle di altro ceppo etnolinguistico. Da questa radice pare provenire la stessa parola sham-an (voce da intendersi – secondo noi – nel senso di ‘asceta’, aspirante al ‘Cielo’ e designante lo shamano nelle lingue occidentali moderne, ov’è giunta dal tunguso, attraverso il russo), che sarebbe da porre in correlazione secondo Eliade (24) con il scr. çram-an-a (‘asceta, colui che pratica atti di austerità’); avente quali varianti il pa. Sam-an-a, il tur.-tart- kam, l’alt. kam/gam, il mong. kam-i, etc. Il ricollegamento col sanscrito ci mostra, comunque, che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un fenomeno di dissimilazione linguistica (25); onde la vera radice dovrebbe essere concepita sostituendo alla nasale una liquida, ovvero nella forma kri/kli-. Dalla qual cosa osserveremo che, in realtà, il scr. Kâm-a è strettamente apparentato alla voce Kâl-a (26), quasi omonima; probabilmente per il fatto che il Dio Kâma non è altro che un aspetto funzionale, di tipo ierogamico del dio Kâla (27). Ciò spiega allora perché mai il primo di essi, allorquando venga chiamato Kâmeçvara, sia presentato iconograficamente in amplesso con Kâla, una forma rituale della dea Kâlî (28). In tale mithuna tra Kâmeçvara e Kâla, il che è come dire di Kâla con Kâlî (29), cioè di Çiva con la sua Çakti, è la prova inconfutabile dell’associazione tra Kâma e l’Inverno, in precedenza postulata. Infatti Kâla, cioè Crono (30), è il dominatore astrologico del Capricorno, ossia il Makara per gli Hindu. E proprio il Makara (approssimativamente il ‘Coccodrillo’) costituisce, a conferma, il veicolo alternativo di Kâma in luogo dello Çuka (‘Pappagallo’) (31). Per essere più esatti, esso è il vessillo principale del nume; la cui insegna, possiede del resto – secondo quanto è possibile osservare in casi analoghi (vedi ad es. il Gallo di Skanda, che dallo stendardo passa a volte a fianco del dio) – una funzione equivalente a quella del vâhana (32). Si vedrà parimenti come lo Çuka ci riporti al latino Pîcus Mârtius, cioè a Marte; e quindi all’Ariete (Mesharâçi), Segno del quale codesto nume è il dispositore zodiacale (vide suprâ). Ragion per cui possiamo interpretare i due veicoli di Kâma, il Coccodrillo (33) ed il Pappagallo, come dei riferimenti annuali differenziati; il primo di essi, basato sul ciclo solstiziale (poggiantesi sull’opposizione Inverno-Estate ed avente come punto di partenza o di arrivo l’Inverno, ovverossia il Makararâçi), ed il secondo sul ciclo equinoziale (con l’opposizione Primavera-Autunno ed il punto di partenza o di arrivo in Primavera, ossia nel Mesharâçi) (34). È da ricordare, ancora, che gli Uccelli nella cultura vedica (così come in molte altre, anche al di fuori dell’area indoeuropea), sono per lo più emblema dei Deva. Trattasi di un’immagine simbolica discendente, senza dubbio, da un arcaico retaggio shamanico di origine paleolitica. Invece il Makara (35), che dispone di valenze simboliche per certi versi del tutto analoghe a quelle del Kâlamukha (36), possiede caratteri nettamente asurici, similmente al Nâga. Col che completiamo la nostra serie di associazioni: a) Ciclo solstiziale > Coccodrillo > Asura (simbolismo saturnio); b) Ciclo equinoziale > Pappagallo > Deva (simbolismo marziale). Le due categorie citate corrispondono spiritualmente a due distinte pratiche individuali di realizzazione interiore, la prima delle quali è il Dakshinâcâra, e la seconda Uttarâcâra, per usare il linguaggio del Tantrismo. Ma, in verità, si tratta di due metodi di rappresentazione simbolica presenti nella stessa tradizione vedica e rispondenti grosso modo ad un punto di vista shivaita, nel primo caso, e ad un punto di vista vishnuita, nel secondo. Questo dà ragione di quanto asserisce il Vayupurâna (xxxii. 21), cioè che la pratica estremistica e rozza (in altre parole, selvaggia e tribale) dello Yajña, vale a dire il mito di Rudra che trafigge Prajâpati, sia stato il tratto culturale tipico del Tretâyuga; mentre la pratica vishnuita, più moderata e dirozzata (ossia rurale e familiare) nell’aspetto sacrificale, sarebbe stata propria del Dvâpara. (37) Una volta di più potremmo tirare in ballo, in proposito, la mentalità kshatriya (aristocratica) e quella vaiçya (produttiva); dal momento che la distinzione tra i due Varna considerati è applicabile, secondo quel che si deduce dalle Scritture induiste, tanto all’antinomia tra Shivaismo e Vishnuismo quanto alle due Età cicliche nelle quali si sono sviluppati procedimenti cultuali similari a quelli impiegati nell’ambito di codeste due vie spirituali.
Ciò, per l’analogia delle une e delle altre coi Mahâbhuta ad esse corrispondenti; ovvero, rispettivamente, Agni e Âp. Dal che si può spiegare, per un verso, la tipologia cruenta (Fuoco > Sangue) dello Yajña primevo e dello Shivaismo posteriore; entrambi basati su una spiritualità originatasi in ambiente orticolovenatorio; e, per altro verso, il carattere in genere non cruento (Acqua > Linfa) del Vishnuismo, sicuramente formatosi in un ambiente già relativamente civilizzato. Nel primo caso (vedi Pitriyâna) prevale, infatti, la simbologia notturna di Agni, vale a dire degli Asura, gli ‘Antenati’ – che si tramanda fossero adoratori di numi agrari e silvicoli – essendo i detentori per eccellenza del ‘Fuoco del Sacrificio’, emblema della tradizione tramandata dai padri tribali; nel secondo caso (Devayâna) è al contrario preminente la simbologia diurna di Soma, legata ai Deva, in altre parole a divinità di tipo pluvialseminale (38).
Ma torniamo a Kâma. Una volta delucidato in sintesi l’ambiente mitologico di appartenenza del dio, proviamo ora ad entrare dettagliatamente in un’analisi iconografica delle rappresentazioni che lo contrassegnano. Non vogliamo, per ora, sottoporre il soggetto ad un minuzioso esame figurativo, intendendo solo al momento esporre a grandi linee le principali interpretazioni iconologiche relative ad esso. Sicché possiamo distinguere, al riguardo, le seguenti rappresentazioni: 1) Kâma su Pappagallo (la più celebre, che vede il nume munito dell’arco di canna da zucchero e delle proverbiali Cinque Frecce); 2) Kâma su Pavone (Mayûra), assai rara; 3) Kâma saettante Çiva con frecce floreali nel bel mezzo di un paesaggio montano, tentando d’indurlo ad amorosi propositi nei confronti di Umâ; 4) Çiva che distrugge Kâma, incenerendolo col ‘Terzo Occhio’ (denominata Kâmantakamûrti oppure Kâma dahanamûrti); 5) Rati che, cospargendosi delle ceneri dell’amato sposo, prega Mahâdeva di rivivificarlo; 6) Kalâ alias Lalitâ, o Kâmeçvarî, emergente da Kâmeçvara, itifallico, brandendo la Spada; 7) Kâmeçvara in amplesso con Kâmeçvarî; 8) Kâma con Arco, fronteggiante Rati, la quale tiene in mano il Pappagallo; 9) Rati col Pappagallo in mano, tipo cortigiana che attende il beneamato; l0) Rati su Pappagallo, con Arco e Frecce; 11) Rati su Oca Selvatica (Hamsa) a mo’ dell’Afrodite greca; 12) Kâma appaiato alle sue due consorti (Rati = ‘Piacere’ e Trishnâ = ‘Sete’) e disposto su carro (Ratha) Solare; 13) Kâma con Arco, appaiato alle due consorti; 14) Id., appaiato a quattro consorti (sono inserite quivi due paredre minori ed in certi casi anche delle repliche del dio); 15) Kâma, affiancato da Rati e Prîti e sormontato dal Makara per emblema; 16) Kâma e Rati affiancati ad un Gandharva, reggente un vessillo col Makara; 17) Anangavajra, o Vajrânanga (forme quasi omologhe di Mañjuçrî, Dhyâni Bodhisattva costituente a propria volta un’emanazione di Akshobhya, uno dei 5 o 6; per taluno Dhyâni Buddha), il primo ritratto mentre è seduto in meditazione sotto un Albero in Fiore ed il secondo nell’atto di scagliare una freccia ammaliatrice dalla punta sagomata a gemma di loto; 18) Kâlachakra su Ananga e Rudra; 19) Kâma e Rati su Rahu, fungenti da veicolo a TârodhbavaKurukullâ, una rossa Dâkinê (39) .
Tra le raffigurazioni simbolicamente equivalenti, dobbiamo inoltre menzionare: a) gli Uttarâkura, genti paradisiache ritratte quali manifestazioni dell’Albero del Kalpa, od in mezzo a una Selva – tra pure fonti zampillanti, copiosa frutta e mansuete fiere – in un’innocente orgia primigenia (40); b) altre immagini ierogamiche, con vegetazione acclusa, alludenti più genericamente al motivo della fecondità quale metonimia dell’Abbondanza; c) una sola coppia umana (Yugalika) ai lati dell’Albero del Kalpa; d) la stessa coppia immersa in un più generico sfondo arboreo (41); e) la figura isolata di un muni praticante il coito con doppia o tripla partner (var. lo Yogî come Bhogî), oppure di una donna con doppio partner; f) la titillazione del clitoride ad opera di una seconda figura femminile, o l’autoerotismo di uomini e donne; g) l’asceta caratterizzato da gigantismo fallico, ovvero dotato di un grosso membro drizzantesi fino al petto e più oltre, sì da ricoprire con una semicirconferenza l’intera schiena; h) i Rishi contemplanti teurgicamente la Yoni della Devî; i) le scene cerimoniali di culto del Linga; l) l’esposizione erotica dei genitali da parte maschile o femminile; m) l’esposizione da parte femminile della Yoni ad un Linga litico; n) la produzione orgiastica dell’Elixir di Lunga Vita (Amrita) nel Vaso dell’Abbondanza (Pûrnakumbha); o) i Mithuna a coppie od orgiastici di uomini e donne: tra di loro, oppure singolarmente uniti a determinati animali sacri (Cinghiale, Cavallo, Cane, Cervo, Toro) (42). Oltre alla zooerastia (praticata ritualmente alla maniera preistorica, ma interpretata superficialmente dai paletnologi come manifestazione di bestialità, ossia d’indistinzione tra l’umano e l’animalesco), bisogna notare, compaiono nelle espressioni erotiche dell’arte indiana scene di utilizzo disinibito delle più ricercate tecniche amatorie; a partire da particolari asana prescritti nel Kâmaçâstra, sino ad arrivare alla più comune fellâtio , all’autofellâtio, ai cunnilinguus, al coito anale o a quello reciprocamente rovesciato e persino, se non andiamo errati, alla pederastia, al lesbismo ed alla pedofilia (43).
Codeste icone, rintracciabili in genere sulle pareti dei templi od, a volte, in certi altri simulacri – sono evidentemente da concepire quali episodi metaforici, seppure aventi una base cerimoniale effettiva nelle pratiche tantriche, dell’insaziabile cerca di una meta trascendente da parte delle anime dei viventi. Una cerca che può essere intesa, alchemicamente, come un progressivo sgravamento dalle proprie componenti psichiche inferiori, costituenti dei lacci interni che frenano l’individuo verso la suprema realizzazione. Inutile aggiungere che l’Amore in tal modo messo in risalto, di cui i succitati numi indiani – non meno di quelli mediterranei – non sono che la personificazione, diventa la stessa cosa della Luce metafisica; o, se preferiamo (secondo quanto suggerisce l’etimo latino del vocabolo, supponendolo derivato dalla forma *A-mor-s, cioè dalla rad. mri), dell’Immortalità.
Per concludere, vogliamo qui segnalare la scena amorosa di uno speciale rilievo di un tempietto a forma di ratha di Tiruvarur, forse del XVI sec. (44); ove notiamo una femmina nuda – la Çakti – avvolta da fronde arboree nell’atto di massaggiare dolcemente il glande di un maschio divino, pure lui svestito e dotato di attributi shivaici. Sullo sfondo, ben mimetizzata e quasi irriconoscibile, spicca l’ombra della Morte, in agguato sotto forma di Kîrttimukha (lett. ‘Bocca di Leone’). Sul piede destro di Çiva è seduto in padmâsana uno Yama dalle minuscole dimensioni, il quale tiene in mano il suo Kâladanda (lett. ‘La Verga del Tempo’) ovvero la Mazza – emblema dell’Unità Divina primeva – con cui il Signore della Vita e della Morte genera gli esseri da sé medesimo e poi li spazza via dal mondo, facendoli prima cadere come birilli, indi riassorbendoli nel Principio. Una volta di più Êrôs e Thánatos celebrano così, ritualmente, il loro perenne connubio. È facile comprendere la relazione intercorrente tra la fenditura di quel funereo ‘Volto Leonino’, tanto misterioso e pieno di terrore per i profani, prigionieri degli aspetti grossolani della realtà, e lo kteís femmineo, che corrompe la mente dell’uomo e lo spinge a desiderare altro da sé. Tuttavia, proprio come il Linga è oggetto di femminile bramosia da parte della kâminî e la Yoni è rifugio ed albergo per il membro del maschio, desideroso di cogliere nelle intimità della donna con cui è in amplesso il sommo piacere della vita, altrettanto – potremmo asserire – la sacra Unione con la Divinità ricolma di un’eccelsa beatitudine per l’anima umana, salvandola dalle angustie della vita temporale e proteggendola dalle grinfie della Morte.
Giuseppe Acerbi
(1) Vedi in proposito A. Ventura, il simbolismo dell’agricoltura – Vie della Tradizione (A. IX, vol. IX, N° 35, Lug. -Set.), Palermo 1979, p. 155. A differenza del Ventura, tuttavia, riteniamo personalmente che tra i termini Hom-ô (‘Uomo’) – donde l’a.m. hûm-ân-us ed Humus (‘Terra’) non vi sia solo una convergenza fonetica, ma una vera e propria parentela filologica. Tali voci sono da connettere, infatti, al n.at. Himmel (“Cielo”), sì da potersi intendere l’Uomo shamanicamente come il ‘Figlio del Cielo e della Terra’ in senso triadico. Codesta concezione, di origine evidentemente indoeuropea, è rintracciabile pure in tutta l’aria nordasiatica ed, in particolare, in quella estremo orientale. Così troviamo in Giappone l’ai. Kamui (Cielo), vocabolo cui sembra peraltro correlato nella lingua nipponica il termine Kami, il quale indica i ‘Celesti’. Orbene, in India abbiamo una voce, Kâma, che a nostro avviso (vedi G. Acerbi, La Lingua Celeste. Nûmina Nômina – Sear?, Scandiano [R.E.], [pubblic. in programma in 2 voll., entro il 1996-97], Vol. I, P.I, C. IV, n. 16) è apparentata a tutte quelle sopra citate. Codesto nome divino, infatti, crediamo non indichi altro che un aspetto del dio Kâla, ovvero una variante erotica di tale divinità in rapporto ai miti ierogamici annuali. E a prova di ciò si potrebbero citare varie voci appartenenti all’ambito euroasiatico (alcune delle quali già citate), come ad es. il scr. Sum-a (ass. Çam-u), tutte provenienti comunque da una medesima radice, seppure con parecchie varianti, che potremmo trascrivere, a grado zero, con questa formula consonantica: √k(h/s/ço sh) – ri (li/m/n) -; tale radice ha sostanzialmente un senso celeste ed indica in modo particolare il “Cielo Notturno”. D’altra parte, lo stesso s.m. Kâl-a (gr. Kr-òn-os / Chr-òn-os e Kàl-ôs / Kel-e-òs, lat. arc. Càel-us) può essere inteso in sanscrito col valore non solo di “Tempo”, ma altresì di “Cielo Notturno”; in entrambi i casi, tuttavia, possiamo avere la forma impersonale o la personificazione di codesta forma in chiave mitologica. Cfr. al riguardo l’accezione dell’attributo che gli funge da sinonimo, cioè l’a.m. kâl-a / kri-shn-a (‘nero, blu, scuro’); pa. kâl-a / kan-h-a (id.); gr. kel-ain-òs(‘nero, scuro’) e ker-ùl-os (‘blu’); lat. câl-îgine-us (“nero, denso”) – derivato da câl-îg-o (‘nerezza, tenebra, oscurità’) – nonché càel-es / càel-es-t-is (‘celeste, divino’) – connesso a Càel-it-es / Càel-est-es (‘Celesti, Superi’) – e càer-ul-us / càer-ul-e-us (‘azzurro’); ital.m. cel-ést-e, cer-úle-o (‘azzurro’). Da notare che con la rad. Çm-, una delle varie dissimilazioni della kri- (vide suprâ), abbiamo pure nell’antica lingua indiana la voce çyâm, â (‘nero, blu, scuro; Terra’), in cui è presente un infisso semiconsonantico -y- (corrispondente ad una liquida), il quale non altera però la parentela filologica del morfema çyâm con il lessema foneticamente affine Sum-, già considerato; dalla dentalizzazione della prima consonante radicale si ha ancora in sanscrito l’a.m. tam-as-a (‘di color scuro’). A conferma di quanto detto, rileviamo che nella lingua egizia il termine Khem – donde è poi derivato il nome ellenico di Chímês, il mitico ‘Primo Alchimista’ dell’Alchimia greco-alessandrina – designava un dio con caratteri ierogamici assai simili a quelli del quasi omonimo nume indiano. È probabile, del resto, che egli (venerato a Mendes, sotto forma di Capro) avesse tratti celesti, al modo di Kâma; e che la voce Kêm-i, applicantesi ad una evidente controparte femminea e ctonica del primo, indicasse in origine solo la ‘Nera Terra’ (simbolo alchemico della’Materia Prima’), divenuta poi secondariamente anche la ‘Terra Nera’. Cioà l’Egitto stesso, siccome abitato dagli scuri Camiti – il Cam biblico è una versione ebraica del Khem egizio e del Camos moabitico – o perché fertilizzato dal limo nerastro. L’epiteto di ‘Nera’ alla Terra Madre era in ogni caso di uso tradizionale pure nella mitologia greco-romana. D’altronde, alla voce Kêm-i può essere ricollegato, oltre al lat. Hum-us, il gr. *Cham-á / Thém-is / Dêm-os o Dâm-os(‘Terra’). Si deve tener conto, comunque, che nelle lingue classiche occidentali tale accezione di ‘nerezza’ scompare, ancorché cetamente sottintesa, secondo quanto abbiamo già visto. Da ciò posiamo dedurre, indirettamente, che gli aggettivi sopra citati – tratti dalle tre principali lingue indoeuropee – significassero dapprima ‘ctonico’ e che solo in un secondo tempo abbiano assunto il valore lessicale di ‘nero’. Segnaliamo, in aggiunta, che il s.f. Khal-a (‘Terra’) – var. dentalizz. in tal-a (‘superficie, base’), equivalente al lat. Tel-l-ûs (‘Terra, Regione’) ed al gr. Thûl-ê (e la mitica ‘Terra’ Iperborea) – può essere concepibile in sanscrito quale termine opposto e complementare al s.m. Kâl-a (var. Ka /Kha= ‘Tempo, Cielo’ od intesa come nome del Supremo), nel senso precedentemente suggerito – e qui unificato – di ‘Nera Terra’, di fronte al ‘Cielo Notturno’; vedi ancora le voci femminili di Ku/ Kur-u (‘Terra, Regione’), gr. Gê / Chôr-a (Id.), lat. (dentalizz.) Ter-r-a (Id.). Fra questi due estremi, uno celeste e divino e l’altro terreno e umano, oscilla tanto in India come in Occidente la concezione antica dell’Amore, in base a quel che ci è mostrato dalle affinità linguistiche del termine Kâma. Se volessimo, tuttavia, tracciare il quadro di una vera e propria etimologia del termine in questione, dovremmo affidarci allora al vr. chr-á-ô (‘bramare, desiderare’), var. ch-aír-ô (‘esser lieto, prendere diletto’); equivalente greco del scr. har-y (‘piacere, desiderare’), con cui il vr. kam (‘desiderare, volere’) è senz’altro apparentato. Cfr. ancora il lat. câr-us (‘caro, diletto, amato’), che il Monier-Williams (Sanskrit-English dictionary, s.v. kam 2, pag 252, col.1) connette all’irl. caem-h (‘desiderabile, amabile; desiderio, amore’) ed al scr. kam (‘desiderato, amato’), attraverso la forma ricostruita *camrus; la quale è, però, secondo noi errata e da riscrivere semmai così: *carmus. Infatti in latino abbiamo il s.n. car-m-en (‘inno, canto, formula sacra o magica, poesia amabile od erotica; responso, vaticinio’), da cui provengono il fr. m. char-m-e (‘incanto, magia; attrazione, fascino’) e l’ingl.m. char-m (id.), nonché il s.f. caer-em-ôni-a (‘culto, cerimonia; venerazione, onore’), che provano in maniera evidente la nostra tesi; tali vocaboli sono manifestamente correlati al gr. char-á / chár-m-a (‘gioia, letizia’) ed ai suoi derivati chár-is (‘grazia, amabilità’), chár-is-ma (‘grazia divina’) e char-mo-nê (‘piacere, diletto’), che a loro volta ci rimandano ai due verbi poc’anzi riferiti (chráô e chaírô). Cfr., infine, il got. Hör-s da T.W. Rhys-Davids e W. Stede (Pali-English Dictionary, s.v. kâma, p. 203, col. 1) ritenuto attinente al lat. cârus; siffatti autori, inoltre, alle voci kâla (ibîd. pp. 210-211, col 2-1) e kamba (ib., p. 180, col 2) presentano delle comparazioni, alcune delle quali rientrano nel lessico da noi qui riportato ed associato alla radice di cui sopra.
(2) Il gr. ér-ôs érôt-os (‘arsione, brama, desiderio’), ricollegantesi al termine ar-á (‘desiderio, pena’), equivale dal punto di vista filologico al lat. ard-or (‘ardore, calore, fuoco’); parallelamente abbiamo nella lingua ellenica il s.m. erôd-i-ós (‘airone’), lat- ard-e-a (id.).
(3) Alludiamo, ovviamente, ai due Mahâbhûta Tejas e Âp, principî i quali in latino hanno la medesima denominazione dei due rispettivi numi ivi citati ed a loro presiedenti nell’Induismo; vale a dire Ignis e Hûmor. Si noti che il termine Hûm-or (‘Acqua, Umore’), scr. Som-a (Id.), ir. Haom-a, è correlato nella lingua latina ad Hum-us (vedi n. 1). E dato che altre voci, con un senso igneo, quali cal-or (‘calore’) e cr-em-o (‘bruciare’), appartengono in tale idioma alla famiglia lessicale che abbiamo raggruppato in precedenza (ibîd.) sotto la rad. kri / kli-, con tutte le sue dissimilazioni nelle sibilanti o nelle nasali già indicate, ecco che tale radice viene a rappresentare delle forme lessicali che fanno riferimento nell’insieme a ciascuno dei ‘Quattro Elementi’ (Aria, Fuoco, Acqua e Terra). E vedremo più oltre quali importanti conseguenze si possono dedurre da ciò, in relazione alle ‘Frecce’ di Kâma.
(4) Tale vocabolo nelle lingue indoeuropee è simultaneamente riferibile sia all’umore organico che determina la riproduzione animale, sia all’agente biologico che procura la germinazione vegetale. È da ritenere, pertanto, che sin dai tempi preistorici i nostri comuni antenati abbiano intuitivamente percepito le leggi elementari di questi due cicli basilari dell’esistenza; codesta percezione va intesa, però, in un senso occulto e magico, anziché razionale. È oggettivamente ipotizzabile, tuttavia, che gli stessi si siano poi di conseguenza orientati verso concezioni cosmologiche coerenti con tale postulato iniziale.
(5) Ciò spiega l’aneddoto divertente, raccontato da un noto giornalista contemporaneo (A. Todisco, Viaggio in India – Mondadori, Milano 1966, P. II, p. 129; ed. Einaudi, Torino 1962), riguardo una circostanza effettivamente verificatasi nell’India odierna. Sembra che qualche decennio fa, allorché venne allestita una campagna governativa di promozione degli anticoncezionali, essendo questi stati adottati in via sperimentale dagli abitanti di un villaggio, in seguito ad un alluvione nella stessa regione finirono per essere respinti dai locali, che li consideravano responsabili dell’avvenuta perturbazione atmosferica. È questo un esempio molto significativo di come una coscienza arcaica possa concepire l’unità dei cicli naturali, onde lo sconvolgimento di uno solo di tale cicli si ripercuote inevitabilmente pure sugli altri.
(6) Sarebbe un grave errore considerare il Pâça un emblema zodiacale. Il Kâlapâça, infatti, è un evidente emblema del Kâlaçakra; ma è secondo noi troppo riduttivo equiparare tale ‘Ruota del Tempo’ al Râçicakra. Vi è del resto menzione nel Rigveda (ii. 27, 1-4 e 12) di un tipo di calendario pre-zodiacale, forse bimestrale (vide infrâ), che sembrerebbe riferirsi alla funzione probabilmente originaria dei Sei Asura; i quali sono ivi (cfr. verso 4 / b) identificati ai Sei Âdytya (‘Soli’), descritti a loro volta come “Re, Custodi dell’Ordine Cosmico” (Rjabhya Ritanibhyo) (verso 12 / a). E la supposizione è confermata dalla Upanishad (B.Â.U.- i. 3, 1 e 6), laddove si dichiara che gli Asura – equivalenti ai Daitya (cfr. il termine con gr. daítys= ‘parte, porzione’), in quanto Demoni – avrebbero generato i Deva per autoframmentazione. Cfr. al riguardo, in greco, il vr. daínymi (‘dividere, separare’), donde il s.m. daímôn (‘demone, genio, antenato’); buono o malvagio, a seconda che sia pacificato o meno), il quale testimonia così l’applicazione nell’ambito della mitologia ellenica di uno stesso concetto in un contesto similare a quello vedico-upanishadico appena delineato. Giacché, in base ad Esiodo (Op. – vv. 127-42), è d’uopo considerare i Daímônes come i ‘Divini Padri’ dell’Età dell’Argento ossia la ‘Seconda Stirpe’ di uomini (“Deúteron aúte génos…/ argyreon poíêsan…”) seguita a quella degli Theoí; la ‘Prima Stirpe’, creata dagli Dei Immortali nell’Età dell’Oro (“Kryseon mèn prôtista génos merópôn anthrôpôn / athánatoi poíêsan…”). A differenza di Esiodo, Platone (Crat. – xvi. 397 / c – 98 / e) propone invece una distribuzione quaternaria, piuttosto che quinaria, delle ‘Stirpi’; non facendo la dovuta distinzione tuttavia, diversamente dal suo predecessore, fra i Daímônes Epichthónioi (vale a dire gli Theoí, i quali sono addivenuti dopo la morte dei Démoni superiori o del tutto pacificati, insomma degli Dei Superi; in quanto perfettamente identificati agli Dei Immortali, cioè alle varie funzioni – seppure immanifeste nell’Età Aurea – della Divinità Suprema) e i Daímônes Ipochthónioi (ossia i Daímones veri e propri, Démoni Inferiori, dimoranti negli inferi e non ancora ben pacificati). Ora, siccome ad ogni umana ‘Stirpe’ corrisponde mitologicamente una data ‘Generazione’ divina, e c’insegna ancora il grande poeta ellenico (Th. – vv. 154-208) che al dio primevo Urano – sorta di deus ôtiôsus – è subentrato Crono (il capo dei ‘Sette Titani’) in funzione di ‘Eroe culturale’, è chiaro che deve esservi un rapporto inequivocabile tra il primo nume e gli Theoí e Rishi, Daímones e Pitri. Ai Daímones seguono in Grecia gli Hêroês o Hemítheioi (‘Semidei’), indi gli Ánthrôpoi (‘Uomini’); analogamente in India ai Pitri seguono i Deva e poi Manushya, sottintesi nel passo della Manusamhitâ sopra citato, ma ricorrenti in altre analoghe formule sparse nei Purâna. Sull’equivalenza poco evidente, comparativamente parlando, fra Hêroês e Deva, occorre aggiungere che la ‘Terza Stirpe’ umana è connessa tra gli Elleni – vedi G. Acerbi, Le ‘Caste’ secondo Platone. Analisi dei paralleli indoeuropei – Convivium [Gen./Mar. 1993], ed. Sear, Scandiano [R.E.] 1993, Anno IV, N° 12, pp. 21-22, n. 10 – alla ‘Generazione’ divina dei ‘Dodici Dèi’ (la ‘Terza’ pure, tra le ‘Stirpi’ celesti); e che anche nell’Induismo i Deva appartengono talora non alla ‘Terza Età’ ciclica, bensì alla ‘Prima’, com’è provato dalla sinonimia tra il termine Devayuga (ibid.) e quello alternativo di Satyayuga. Nella Ri.S. – x. 72, 2 ricorre, del resto, un’espressione che suona così: Devânam purvye Yuge; cioè, per dirla in termini latini, Deôrum priscâ Aetâte, con riferimento appunto al Kritayuga (‘Età Aurea’). Da tutto ciò è logico ipotizzare che originariamente, ossia nella ‘Seconda Età’ mitica (all’inizio della quale, o poco prima, i testi indiani – vide Sû.S. – i. 2-4 – assegnano l’origine dell’Astrologia e, quindi, del sistema calendariale di computo del tempo), debba essere esistito un Anno Sacro con suddivisioni bimestrali, anziché mensili. I ‘Sette Áditya’ ed i ‘Sette Titani’ (dei quali uno supremo), a quanto è inoltre lecito dedurre, ne potrebbero essere stati i numi tutelari. Per un’omologazione degli Asura ai ‘Sette Soli’, vale a dire alle divinità presiedenti alle ‘Sette Direzioni’ – probabilmente da intendere in relazione alle posizioni estreme (=solstiziali) ed a quelle intermedie (=equinoziali) raggiunte dal Sole annualmente nel suo cammino celeste – vide Ri.S. – ix. 114,3. Questi ‘Sette Soli’ – secondo quel che parrebbe suggerire il passo ora indicato – debbono aver avuto evidentemente un rapporto con i ‘Sette Pianeti’ ed altri settenarî, macrocosmici (le ‘Sette Stelle’ delle due Orse, ovvero di asterismi come Orione e le Pleiadi) o microcosmici (i ‘Sette Centri’ interiori, sicuramente noti anche in Occidente fin dall’antichità – checché se ne dica in proposito – attraverso la dottrina ermetica, nella quale sono visibile le tracce di una lontana eredità shamanica); sì da rappresentare, nel complesso, l’Ebdomade universale. Comprendiamo, pertanto, l’omologia esistente nelle Scritture induiste tra Asura, Daitya, Dânava e Saptapitri (vedi inoltre, per un’ulteriore comparazione, i ‘Sette Figli’ di Brahmâ dei miti cosmogonici). È da notare, però, che i Saptapitri si differenziano dai Pitri veri e proprî, giacché essi sono in certo senso i numi da costoro venerati. D’altronde, codesta doppia serie mitologica – dei ‘Sei Numi’ che diventano ‘Dodici’ – è rintracciabile pure nella cultura iranica (cfr. A. Zaehner, Zoroastro e la fantasia religiosa – Il Saggiatore, Milano 1962, P.II, C.IV, pp. 279-82; ed. or. The Dawn and Twilight of Zoroastrianism – [edit. e l. di ediz. n. c.] 1961). E, persino, in quella amerinda (cfr. R. Girard, La Bibbia maya. Il Popol-Vuh: storia culturale di un popolo – Jaca Book, Milano 1976, P.I, C.III, pp. 52-6 e Sintesi, pp. 358-9; ed. or. Le Popol-Vuh. Histoire culturelle des Maya-Quichés – Payot, Parigi 1972), ove il ‘Dio Sette’ (un dio solare) ed i suoi sei accoliti sono considerati degli ‘Dei Agrarî’, correlati alla Seconda Era ciclica (concepita come una ‘Seconda Creazione’); mentre il ‘Dio Tredici’ (anch’egli un dio solare, avente però una funzione diversa da quella della precedente divinità) ed i suoi sette accoliti coprono il ruolo di ‘Signori delle Piogge’ e sono collegati alla Terza Era o ‘Terza Creazione’. Nella tradizione indù, occorre sottolineare una volta di più come i ‘Dodici Deva’ risultino dalla combinazione di ‘Sei Deva’ con ‘Sei Daitya’; lo stesso concetto viene analogamente espresso in Grecia dal fatto che il gruppo dei ‘Dodici Dei’ è invero formato da ‘Sei Dei’ e ‘Sei Dee’. Poiché i ‘Dodici Áditya’ (Ç.B. – xi. 6,3, 8) sono i ‘Dodici Soli’, in altre parole le figure divine presiedenti alle inclinazioni mensili del Sole durante l’annata, si deve perciò arguire che i ‘Sette Áditya’ dovettero essere le divinità un tempo preposte alle inclinazioni bimestrali del Sole. A questi due tipi di calendario, uno elementarmente basato sui ‘Sette Soli’ ed i ‘Sette Pianeti’ e l’altro determinato dal passaggio dei ‘Dodici Soli’ attraverso i ‘Dodici Segni’ stellari, certamente debbono aver corrisposto anticamente due tipi differenziati di rituale. Il Pâça di per sé ci richiama alla memoria, crediamo, il primo di questi due tipi, ossia quello basato sul simbolismo settenario; benché esso debba aver incorporato in seguito nella propria simbolica degli sviluppi calendariali più recenti, relativi da una parte allo Zodiaco solare e dall’altra allo Zodiaco lunare, dei quali è peraltro traccia nello stesso Rigveda. Circa lo Zodiaco solare, come abbiamo già detto, vi sono prove indirette della sua presenza nella tradizione vedica (raddoppiamento del numero degli Áditya; culto del ‘Toro Celeste’, identificato palesemente a ciascuno dei membri di una vetusta Trimûrti – Prajâpati, Vishnu e Rudra – nonché alle loro varie ipostasi) e testimonianze dirette, come quelle concernenti la ‘Ruota dell’Ordine’ dai ‘Dodici Raggi’, che gira intorno al cielo perennemente (Ri.S. – i. 164, 11); oltre a numerosissimi altri dettagli, sparsi qua e là nelle principali Samhitâ e nei Brâmana. Sottolineamo ancora, in riferimento al passo rigvedico appena indicato, che i “settecentoventi figli a coppie” dimoranti nella ‘Ruota’ non sono – come certi orientalisti hanno interpretato in passato, del tutto erroneamente – una personificazione dei giorni e delle notti di un arcaico ed approssimativo anno civile di dodici mesi; bensì, piuttosto, la trasposizione divina dei 360° zodiacali (raddoppiati) dell’Anno Sacro, nelle vesti di allegorici “Figli del Cielo e della Terra”. Il raddoppiamento della cifra di cui sopra non allude, infatti, solo ai giorni ed alle notti annuali (che nell’anno civile sarebbero, in ogni caso, 730…); ma vi è in essa una più sottile e recondita allusione al fenomeno della precessione degli equinozî, poiché la retrogradazione di un grado entro un determinato Segno zodiacale ricorre al punto vernale ogni 72 anni. Sappiamo bene, d’altronde, quale valore avessero per gli antichi tali accostamenti cosmologici, di tipo analogico, che a noi sembrano invece assolutamente arbitrarî. Per una trattazione, invece, della rilevanza del tema dello Zodiaco lunare nei Veda cfr. L. B. G. Tilak, The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas – Shri J. S. Tilak [)Tilak Br.], Poona 1972, passim; I ed. 1893), di cui personalmente abbiamo curato una traduzione italiana, con prefazione e commento al testo (L. G. B. Tilak, Orione a proprosito dell’antichità dei Veda – Ecig, Genova 1991). Anche il simbolismo stagionale, che in India ha carattere senario piuttosto che quaternario, rientra nell’ottica considerata del calendario solare settenario (sei stagioni, più una settima, equivalente alla prima nell’ambito del Nuovo Anno).
(7) Sarebbe meglio, in tal caso, parlare – come fanno Esiodo (Op. vv. 156-60) e Platone (Crat. – xvi. 398/c), il primo nell’ambito di uno schema cosmologico quinario ed il secondo all’interno di uno schema invece quaternario – di Semidei, anziché di Dei; poiché gli Theoí greci sono in verità un’altra cosa, essendo nettamente distinti dagli Hemítheoi (riguardo ai quali cfr. n. prec.). Questi ultimi, infatti, secondo Platone (ibid., d) e Proclo avrebbero una doppia origine etnica, l’una divina e l’altra mortale. Per capire quuel che si intende con ciò, si deve pensare a quanto è dichiarato nelle tradizioni bibliche apocrife circa la commistione tra gli angelici
“figli di Dio” (Hel o El), probabilmente equivalenti ai Sethiti, e le demoniche “figlie degli Uomini”, da identificare forse alle Cainite. I Sethiti, longilinei e virtuosi, pare fossero vissuti precedentemente da anacoreti in regioni molto settentrionali, situate ai confini del Paradiso, presso un Sacro Monte (cfr. con il mito ellenico della “Terra Iperborea” o con quello indiano dell’Ilâvrita, dvîpa peraltro spesso confuso con l’Uttarâkuru); mentre i Cainiti, meno alti e più peccaminosi, avrebbero vissuto in terre più occidentali rispetto agli altri, dedicandosi a culti orgiastici e via dicendo. Dalla suddetta commistione tra i “figli di Seth” e le “figlie di Caino”, dovuta alla cronica scarsezza di uomini – per maledizione divina – presso i Cainiti, sarebbero nati i Nefilîm (cioè i “Ribelli”, ovvero i “Caduti”), chiamati anche Gibborîm (Eroi, Giganti). La “Genesi” canonica riporta il passo apocrifo molto succintamente (vi. 1-4), equiparando codeste genti agli “uomini potenti dei tempi antichi” ed attribuendo loro la corruzione mondana prima del Diluvio noaico. Le fonti apocrife – intendendo il termine nel significato originario di “esoteriche”, non già nel senso posteriore e corrotto di “false” – asseriscono, tuttavia, che tale corruzione si manifestava soprattutto nella loro sfrenatezza sessuale, tanto che essi non avrebbero più fatto distinzione tra vergini e matrone, uomini ed animali. Vedi in proposito R. Graves & R. Patai, I miti ebraici – Longanesi, Milano 1980, § 18 passim; ed. or. Hebrew Myths. The Book of Genesis Intern. Auth., [luogo di ed. n.c.] 1963-64. Ora, gli stessi Platone e Proclo spiegano come gli Hêrôes – vedi alla n. prec. la loro relazione d’identità con i Semidei – abbiano ricevuto codesto nome per via del fatto di esser nati dall’unione erotica di un dio con una mortale, oppure dall’amplesso di un mortale con una dea. A parte la lieve differenza di contenuto mitico ed etico, la tradizione greca riferisce però, sia pure in maniera ermeneutica (cfr. col metodo indiano del Nirukta), la stessa cosa sostanzialmente rispetto alla tradizione ebraica; ossia la nascita di una “Stirpe” semidivina. In India, per trovare un soggetto soddisfacentemente equivalente, dobbiamo pensare agli eroi epici del Mahâbhârata, anch’essi generati da unioni similari a quelle degli Hêrôes greci. E, per tornare ad Esiodo (ibid., vv. 161-177), occorre dire infine che questi pure identifica gli Hêrôes con gli eroi epici dell’Iliade e dell’Odissea. Una possibile confusione, comparando la tradizione induista con quella ellenica ed ebraica, può risultare comunque dal fatto che nell’una la medesima denominazione di “Dei” concerne tanto la “Terza (o la Quarta) Generazione” divina, quanto la corrispondente “Generazione” umana; mentre, presso le altre due, ricorre nei testi un semplice riferimento alla “Stirpe” umana ad essa equivalente. Ma è chiaro che, almeno per la tradizione greca, si può sempre, estrapolando dal contesto, applicare la medesima definizione di “Semidei” – o di “Dei”, se vogliamo, per analogia con Indiani e Latini – anche alla corrispettiva “Generazione” divina ellenica. Circa la tradizione ebraica, inoltre, una complicazione ulteriore nell’analisi comparativa proviene dallo stretto monoteismo ufficialmente professato dai sacerdoti israeliti; onde non compaiono presso di essa, così come più tardi presso la tradizione islamica, le suddette “Generazioni” divine. Ma che tale situazione religiosa no fosse quella originaria, in entrambi i casi citati, è provato dal fatto che altre culture semitiche (come quella mesopotamica) non abbiano per nulla disdegnato il soggetto; del resto anche nell’Ebraismo e nell’Islamismo vi sono figure demoniche ed angeliche minori, rispetto alla Divinità Suprema, che tengono il luogo degli Dei e dei Demoni delle religioni indoeuropee. L’ambiguità tra Rishi e Deva è in ogni caso presente anche nell’Induismo, dato che il termine Devayuga, secondo quanto abbiamo già rilevato alla n. prec., è spesso considerato un sinonimo di Satyayuga.
(8) Érôs Protógonos, raffigurato in Grecia come tetracefalo (o pentacefalo) e concepito nell’Orfismo come dio aureo, presenta caratteri affini a quelli del Brahmâ Caturmukha (o Pañcamukha) indiano, nonché dello Ianûs latino; anche se quest’ultimo, a dire il vero, non è mai rappresentato come “Cinque Volti”. Rammentiamo, infine, che il nome Hímeros (“Desiderio”), designante un compagno del nume ellenico, indica in realtà un alter-ego di Érôs stesso (cfr. in proposito K. Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia – Garzanti, Milano 1976, Vol. I, P. I, C. IV, p. 67; I ed. Il Saggiatore, Milano 1963; ed. or. Die Mytologie der Griechen – Rhein-V., Zurigo 1955-8); dal punto di vista etimologico codesto nome si ricollega alla rad. √hm/km-, avente valore lessicale originario di “Cielo” (vedi n. 1), e costituisce dunque un parallelo greco del scr. Kâma.
(9) Ricordiamo che tra i Mahâbhûta l’Elemento Fuoco (Agni) indica una mentalità passionale, qual è tipica degli Kshatriya; mentre l’Elemento Acqua (Àp) e l’Elemento Terra (Bhûmi) si riferiscono rispettivamente ad una mentalità fluidica, di tipo Vaiçya, ed ad una psiche sensuale, come quella degli Çûdra. Per quanto il Tantrismo sia una via spirituale operante in special modo sugli Çûdra, o addirittura sui Fuoricasta (Candâla), le corrispondenze descritte debbono essere considerate oggettive ed omologhe alle suddivisioni dell’Anno Sacro (Yaiña). A parziale correzione di quanto sostenuto in precedenza, dobbiamo comunque specificare che la concezione esclusivamente umana e terrena del sesso è propria di tutta l’Età Ferrea (scr. Kalíyuga), non solo quindi una prerogativa del mondo moderno; anche se, effettivamente, è solamente negli ultimi secoli che la situazione al riguardo è irrimediabilmente degenerata. In ambito tradizionale, infatti, la pratica sessuale è sempre stata esclusivamente una base di partenza, la meta essendo necessariamente il ristabilimento dell’equilibrio primordiale. Tuttavia, bisogna ammettere che, già all’inizio dei tempi storici, i quali in India hanno preso l’avvio con la dinastia degli Çaiçunâga (attorno alla metà del VII sec. a. C.), si intravede una certa pesantezza nell’atteggiamento umano di fronte al sesso; poi, man mano che ci si è avvicinati all’epoca moderna, tale gravità è divenuta sempre più palese, proprio come le Scritture avevano anticamente profetizzato (cfr. Vi. P. iv. 24 sgg).
(*) Evidentememnte siffatti Colori sono giunti a noi per una via che è difficile indovinare, ma che passa, è lecito arguire, attraverso l’Ermetismo antico e medievale; tale dottrina ha svolto, difatti, la parte in ambito mediterraneo del Tantrismo in ambito indiano.
(10) Le “Cinque Frecce” (Pañcaçara) floreali di Kâmadeva, essendo come di consueto in rapporto con i Mahâbhûta, corrispondono ai quattro aspetti di Manmatha ai quali accennavasi alla n. 3; più un quinto, che trascende tutti gli altri, al modo come l’Âkâça contiene in nuce i Quattro Elementi. Circa i Pañcaçiras di Brahmâ, si asserisce (Sk. P. – ii. 3,2, 3-4 e iii. 1, 40, 5-16); allorquando il Creatore, essendosi innamorato della propria figlia Çatarûpâ (Mt. P. – iii. 30-41), o comunque si voglia chiamare la personificazione femminile della Creazione, aveva tenuto lo sguardo fisso su di lei che girava attorno e sopra di lui, in maniera tale che la testa del dio si era quintuplicata miracolosamente. Vedi sul soggetto S. Kramrisch, The Presence of Çiva – Princeton Un. P., Princeton 1981, c. IX, §§ 1-2 passim, pp. 250-265; per l’iconografia relativa alla Brahmaçiraschedakamûrti, in cui Çiva tiene in mano il “Cranio” del Pitâmaha, rimandiamo a T.A.G. Rao, Elements of Hindu Iconography – The Maw P. House, Madras 1916, Vol. II, C. IV, § vi, pp. 174-6.
(11) Per il pannello col rosone, ove sono raffigurati la seduzione di Mâra ai danni dell’asceta e le lusinghe alla quali costui è sottoposto da parte delle figlie malefiche del dio, vedi M. Bussagli, Eros indiano – Bolzoni, Roma 1972, fig. 3.
(12) La sua presenza è rintracciabile già nelle Upanishad, con una figura forse meno specializzata, ma quasi del tutto simile a quella assunta in seguito nella tradizione buddhista; cfr. l’Ait. U. – i, 2, ove si descrive l’ Âtmâ che crea i mondi, il Celeste Organo e la potenza della Morte (appunto Mâra, ivi evidentemente in forma impersonale).
(13) Ci segnala il Kerényi (Ker., op. cit., Vol. II, P. II, L.I, C.X, p. 110), menzionando Pindaro (Ol. – xiii.32), che Eschilo fu accusato dai propri contemporanei di aver divulgato i Misteri di Demetra (cfr. con il culto egizio di Iside o quello induista di Durgâ – Kâlî) attraverso la narrazione della storia di Edipo. La vicenda di codesto personaggio simbolico, il classico ‘Figlio della Vedova’, che commette incesto con la ‘Madre’ (dopo aver ucciso malauguratamente il ‘Padre’), celerebbe dunque un recondito significato di carattere iniziatico, del tutto sconosciuto ai profani. Tali sono pure – si badi bene – gli studiosi odierni, che interpretano il mito suddetto in chiave esclusivamente letteraria. Si noti anche che Dêmêtêr ed i suoi allotipi (denominati Kòrê – la ‘Vergine’ – ed Hekátê – dall’aspetto di ‘Vecchia’), non diversamente da Àrtemis od Afrodîtê – dee triformi, al pari della latina Diâna Trivia, le quali erano chiamate alternativamente Leucothéa, Rhoiô e Kêr (Kelainô/Mélanis); ossia, rispettivamente, la ‘Bianca’, la ‘Rossa’, e la ‘Nera’ – coprono nell’insieme presso gli Elleni un ruolo similare a quello che in India è svolto da Gaurî Rohinî e Kâlî; figure che, analogamente, dobbiamo interpretare come alcune delle tante vesti assunte dalle Çakti della Trimûrti, in funzione lunare (o meglio luniterrestre, con un riferimento pure ad Aldebaran, la ‘Settima’ delle Pleiadi). I Tantra attestano, com’è noto, che la Çakti è la forma divina venerata nella ‘Quarta Epoca’; in appoggio a codesto insegnamento, i Purâna (vide infrâ) sostengono che Brahmâ, Çiva e Vishnu siano stati gli aspetti della divinità coltivati nelle Tre Età precedenti, secondo l’ordine citato ed a partire dalla ‘Prima Epoca’. Alla stessa maniera in Grecia, Demetra e le figure ad ella connesse, tutte rappresentazioni della ‘Triplice Dea’, incarnano la ‘Quarta Generazione’ divina (relativa all’Età Ferrea), la quale è preceduta – in ordine discendente – dalle teofanie di Urano, (= Varuna), Crono (=Kâla) e Zeus (= Dyaus); pure in Egitto troviamo una quadruplice sequenza parallela di numi (con funzioni del tutto corrispondenti a quelle sostenute dagli dèi indiani e greci menzionati) in Osiride, Seth, Horus, e Iside. Cfr. Plut., De Is. et Os. – xxi. 421 /d. Parimenti, fra i Latini abbiamo di seguito Giano, Saturno, Pico Marzio e Diana. Cfr. R. del Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, Ecig, Genova 1985, che fa di questi quattro cicli numinosi la base del suo trattato.
(14)Erroneamente è supposto da taluni studiosi che il Picchio e gli altri emblemi teriomorfici del dio Marte, ossia il Lupo ed il Toro, avessero in principio un valore totemistico. Che tali animali abbiano potuto assumere, in seguito, codesto valore è indubbio; ma, certamente, non può essere stato questo il loro significato originario, perché altrimenti l’interpretazione al riguardo sarebbe troppo banale. Si tratta, in verità, di metamorfosi assunte dal nume in relazioni a determinati suoi aspetti simbolici, che sono da intendere comparativamente, analizzando i corrispettivi indiani (Vrisha e Vrika). La parentela filologica dei due vocaboli sanscriti testé menzionati risulta talmente lampante, da corroborare la nostra ipotesi – sottintesa – del significato astrale di codesta simbologia zoomorfica; con rispettivo riferimento dei due suddetti animali al Sole od, alternativamente, a due asterismi (Taurus e Sîrius). Per un’attestazione letteraria del mito del Picchio vedi il passo di Ovidio cit. alla n. seguente.
(15) Di lui è fatta menzione presso Virgilio (Aen. vii. 68-75) ed Ovidio (Met. xiv. 51-70), il quale ultimo lo descrive come un giovane dal purpureo manto; nonché cacciatore di cinghiali, rapito per amore dalla Maga Circe, la Figlia del Sole, oscurante l’aere mediante una densa nube infernale.
(16) Non siamo d’accordo, a tal proposito, sui varî etimi del nome del dio suggeriti comunemente dagli specialisti di Glottologia. Vedi, per una prima sintesi sulle principali ipotesi interpretative, A. Giacalone-Ramat, Studi intorno ai nomi del dio Marte – A.G.I. (Le Monnier), Firenze 1962, vol. 47, pp. 112-42 sgg. L’A., dopo aver esaminato da una parte le tesi del Mannhardt, del Frazer e del Roscher – propendenti per un’interpretazione solare-agraria del nume, parallelamente all’Apollo ellenico – e, dall’altra, quelle contrastanti del Wissowa e del Dumézil – volte, viceversa, a dimostrare la funzione esclusivamente bellica dello stesso – tende invece a sottolineare il carattere composito della divinità in questione, assommando le due tesi ora menzionate. E, alla luce di codesta considerazione, ella interpreta la var. Mâvors del nome del dio come equivalente del scr. Marut, accettando la supposizione del Bradke di un’inversione fonetica del gruppo *vri (o, meglio, *wri) – ritenuto originario, seppure a torto, a nostro parere –al gruppo *ru, gruppi che sarebbero per l’appunto derivati dalla rad. mavrit-. Ma, onestamente, ciò non ci pare molto corretto. È ormai risaputo, infatti, che i termini indoeuropei dovettero avere dapprima un tema biconsonantico e poi triconsonantico, avendo successivamente incorporato nel tema prefissi, infissi e/o suffissi. Nel nostro caso, dunque, l’unico gruppo biconsonantico persistente tanto nel lat. Mârs /Mâvors cosí come nel scr. Mâra/Marut, è quello dato dalla rad. mri; che potremmo considerare dal nostro punto di vista una variante nasalizzata di quella evidenziata alla n. 1, cioè della kri-. Con una differenza, però; vale a dire che la nasalizzazione coinvolge questa volta la prima consonante del gruppo (m- < Kâma - Kâla-), anziché la seconda. Un errore commesso da Giacalone-Ramat è, a nostro modo di vedere, quello di separare parzialmente i termini latini Mâr-s (gen. Mâr-t-is) e Mâ-vo-r-s (gen. Mâ-vo-r-t-is), sí da considerare i loro etimi distinti, ritenendo la prima delle due voci riconducibile all’etr. Mar-is; ma la testimonianza di forme parallele in sanscrito, rispettivamente Mâr-a e Mar-ut, evidenzia la loro diretta connessione e la rende indiscutibile. Anche la v.arc. Mor-t-a (‘Dea del Destino’), diversamente da quanto ella sostiene, si collega in latino a Mor-s (‘Morte’) e, simultaneamente, alla radice indoeuropea già citata. Cfr. col gr. Mór-os (‘Fato, Morte’), var. Moí-ra (‘Fato, Sorte’) ed il scr. Mâr-a (‘Morte’), con restrizione di senso da parte di quest’ultimo tema. Da notare che, oltre all’accezione di ‘Cielo’ e di ‘Terra’, la rad. kri kli- ha pure quello di ‘Tempo, Destino’, oppure di ‘Morte’. Rammentando poi che la medesima radice indica attributivamente il color scuro (nero o blu che sia), ne ricaveremo che è possibile connettere ulteriormente alla rad. Vmri mli-, per via del suo parallelismo di significati con la precedente kri kli-, il lat. niger, f. nigr-a (‘nero, scuro, fosco; maligno, malvagio’); ove abbiamo in più un inf. –g-, scomparso in seguito nell’italiano ner-o (‘nero, scuro, fosco tenebroso Cfr. inoltre il gr. mél-âs, f. mél-ain-a (‘nero, azzurro, scuro, fosco’), ed il scr. nîl-a, f. nîl-â (‘nero, blu, verde, scuro’).
(17) Cfr. parimenti il mesopotamico Ninib, pur nella diversità dell’etimo.
(18) J. Evola, Metafisica del sesso – Mediterranee, Roma 1969, p. 32 (fig. a fr. non num. ), contenente il dettaglio del viso di una scultura del Bernini, la cd. “estasi di S. Teresa”.
(19) Per altri studi importanti sul soggetto dell’eros indiano vedi Buss., op. cit. e G. Tucci, Eros, Thanatos e trascendimento – Ubaldini, Roma?; inoltre A. Schwarz, L’arte dell’amore in India e Nepal. La dimensione alchemica del mito di Çiva, Laterza, Bari 1980 e M. R. Anand, Kâma Kâla. Some Notes on the Philosophical Basis of Hindu Sculpture, Nagel, Ginevra 1958.
(20) Intorno all’argomento cfr. G. Acerbi, Kâlacakra. La Ruota Cosmica, Univ. St. “Ca’ Foscari” Venezia 1985, Vol. I, P.I, C.I sgg (tesi di laurea di fut. pubbl., programmata per il 1997-8).
(21) Di tale mitologema teniamo qui presenti soprattutto le fonti più arcaiche (vedi per le ulteriori versioni W.D. O’Flaherty, Hindu Myths. A Sourcebook translated from the Sanskrit, Penguin B., Harmondsworth 1975, App. C, § 41, p. 326), ossia il breve cenno ad esso del Râm. – i. 23 (rec. di Ben) o 24 (rec. beng.) e l’ampia trattazione del tema da parte del Mt.P. iii. 2-12 e 30-46, iv 7-20 e v. 26-7; inoltre cliv. 208-99 ss e clviii. 23-41. Tali fonti dovrebbero risalire, secondo la medesima autrice (ibîd., Intr., pp. 17-8), al periodo tra il II sec a. C. ed il II d. C. nel primo caso ed al 250-500 d.C. nel secondo. Cfr. pure, tra le varie versioni del motivo mitico in questione presunte meno recenti (IV-VII sec. d.C.), il Vm.P. – vi. 7-85 e 93-107 ss, xxv. 31-73, xxviii. 29-55 e xxxi. 2-46; il Pd.P. – i. 43, 45-50, 56-67, 199 / b– 264, 270 / b– 9, / b ss ed il L.P. -i. 101, 25-46. Vedi in aggiunta il Kumârasambhava (breve poemetto in otto canti, dedicato all’episodio della nascita di Kârttikeya) di Kâlidâsa, drammaturgo vissuto secondo qualcuno (R. Dwivedi, Kâlidâsagranthâvali – Benares Hindu Un., Varanasi 1986, Nota dell’Ed., pp. xxxv-vi) fra il 110 ed il 55 a.C., perciò di molto antecedente a tutta la letteratura puranica; benché questa sembri risalire, in realtà, nelle sue linee essenziali ad antiche tradizioni orali, che vanno ben al di là dell’inizio dell’Era Volgare.
(22) Il testo puranico che tratti più esaurientemente la vicenda della seduzione di Çiva, ad opera di Kâma, è senza dubbio il Kâlikâ Purâna (i. 23-xi. 18, xvi-viii sgg, xix. 52-xx.14, xxi.39-42 e 100-14 xxii sgg xlii. 117-91, xliii-iv sgg e xlvi. 42-92). Il prof. B.N. Shastri, respingendo la vecchia tesi dello Hazra circa l’esistenza di una fonte bengalese antecedente (VII sec. d.C.) a quella assamese, rileva come l’assegnazione di codesto upapurana da parte dei puranologi oscilli sempre fra il IX ed il XIV sec. d. C. (The Kâlikâ Purâna, testo, intro. e trad. a cura di B.N. Shastri-Nag, Delhi 1991, Vol. I, Intr., pp. 51-67). Il primo capitolo del Kâlikâ Purâna, trattando la nascita di Kâmadeva, si rifà ad una particolare interpretazione del mito dell’incesto cosmogonico (in proposito vide Ac., op. cit., III, c. 315-7 sgg e 328-30, nn. 1-4; parte successivamente rielaborata in Id., La leggenda del Cervo, della Cerbiatta e del Cacciatore. Esposizione del tema estrapolando dalle varie fonti, con sommaria esegesi dei termini della Triade – Vie della Tradizione [lug./ set. 1991], Palermo 1992); ossia, secondo quanto ci segnala giustamente la stessa O’Flaherty (D. O’Flaherty, Çiva. The Erotic Ascetic – Oxford V.,- N.York – Toronto – Melbourne 1981, C. IV, § d, p. 117), il desiderio creativo di Brahmâ – altrove letterariamente sottinteso, mediante l’immagine dell’attrazione incestuosa suscitata agli albori della Creazione sul ‘Progenitore degli esseri (Lokapitâmaha) o sulla progenie mentale di quest’ultimo da parte della “Figlia” Samdhyâ (alter-ego di Ushas e Rohinî) – viene in tale scritto personificato da Manmatha, “Agitatore – della Mente” per eccellenza nell’intero cosmo. In siffatto ruolo Madana (altro nome di Kâma) potrebbe essere ritenuto, non meno di Daksha, un ennesimo doppione di Prajâpati, la vittima sacrificale; ma, nello stesso tempo egli assume il ruolo che appartiene altresí a Rudra, il Sacrificatore. Infatti, se da una parte il suddetto nume fa da bersaglio all’iroso Mahâdeva (allorché codesto austero dio respinge l’amore di Kâlî), donde il malcapitato ricava da allora in poi l’epiteto di Ananga (‘Invisibile, Senza-corpo’); dall’altra questi funge invece da ‘Arciere’, al fine di stimolare Çiva a congiungersi con la Çakti (nell’occasione Satî) . Cfr. con il Cupîdus della tradizione romana, il cui nome proviene del resto dal vr. cup-i-o (‘desiderare, bramare’), var. labializzata della rad. ie. Kri (m*)-, da cui il lat. câr-u-s e car-m-en, l’ingl. m char-m, il gr. chár-a e chár-m-a ed il scr. kam. Vide n. 1. [ A titolo di conferma, rispetto a quanto detto, si possono rinvenire in latino alcune serie di voci, con analoghe varianti dissimilative in forma labiale; es.: car-p-o/ cap-i-o, cêl-o/ cup-us (volg.) /cap-ut, cal-ix/ cup-p-a (tarda, da cûp-a) / cap-êd-o/ cap-ul-a/can-thar-us (dal greco), câl-a/cal-am-us/can-n-a/cip-p-us]. Lo scopo immediato per cui Kâmadeva adempie al misterioso compito di favorire l’unione dei divini amanti, in ciò avvalendosi dell’opera propiziatrice di Vasanta, suo inseparabile compagno (di cui il Kâl. P. -iv. 24-39 narra la genesi dalle ‘Cosce’ del ‘Progenitore’, è naturalmente la nascita provvidenziale di Kârttikeya; ma un secondo fine sembra implicito in tale atto, ovvero l’origine dell’Anno Sacro. Codesto Anno Sacro non è altro che lo Yajña, il quale ha avuto inizio con l’intervento sacrificale di Rudra ai danni di Prajâpati, le ‘Sei Teste’ di Skanda alludendo al ciclo annuale (prezodiacale) delle sei stagioni bimestrali. Vide n. 6. Del resto, si dovrà osservare come l’intera vicenda si snodi quasi senza l’intervento importante di alcun personaggio della sfera vishnuita. Vishnu compare ivi solo in tre occasioni. Ossia, dapprima alle nozze di Satî, per salvare l’impudico Brahmâ dalle ire di Çiva, geloso degli sguardi indiscreti dell’altro dio per la bella moglie. Poi, per sezionare il cadavere della stessa Satî (secondo il Kâlikâ, permeandolo all’interno mediante l’aiuto degli altri due membri della Trimûrti; ma, in base ad altri purana, spezzettandolo da solo, col proprio Cakra). Ed, infine, per soccorrere l’ascesi di Samdhyâ, al fine di purificarla dall’atto incestuoso con Brahmâ e trasformarla cosí nella casta Arundhatî. L’episodio del Cakra, comunque, potrebbe alludere alla frantumazione simbolica degli Âditya (trasformazione degli Asura in Deva), della quale abbiamo parlato alla nota 6. Anche Indra, considerato dal Mhbh., Âdip. – 66, 37 il capo dei dodici Âditya e per molti versi comparabile a Vishnu, in codesta storia mitica è solamente una figura di contorno, senza alcuna rilevanza particolare. Se la solitudine cosmica primordiale di Brahmâ rappresenta la Non Dualità del Kritayuga ed il sacrificio di Prajâpati l’avvento della Dualità nel Tretâ, ecco che l’immolazione celeste del cadavere di Satî e la ricaduta del corpo smembrato in terra (la dea essendo da concepirsi, al pari di Sîtâ, come un’emblema della Çruti vedica, secondo quanto attesta – pur in un diverso contesto – il Mhbh., Vanap. cxlviii.14), ad opera del Cakra di Vishnu, dovranno senz’altro riferirsi al Dvâpara; mentre la storia di Candra, Rohinî e le successive ‘Ventisei Figlie’ di Daksha, nelle quali sono adombrate le Potenze presiedenti ai Nakshatra, non può che alludere evidentemente all’inizio del Kaliyuga. Il ‘Seme’ di Brahmâ, nonché quello di Mahâdeva o di altre divinità raffigura, inoltre, la Luce Divina e la trasmissione per via tradizionale di tecniche segrete per la realizzazione interiore durante le Quattro Epoche del Caturyuga, tramite l’ausilio di mutate pratiche simboliche e rituali. A differenza di altri testi puranici, l’intreccio degli episodi mitici che compare nel Kalikâ Purâna ( incesto di Brahmâ, sollecitato da Kâma; matrimonio di Hara con Satî, stimolato dallo stesso dio; distruzione da parte di Vîrabhadra del ‘Sacrificio’ allestito da Daksha, che fugge in cielo sotto forma di ‘Cervo’; pianto straziante di Çankara sul cadavere della sposa e conseguente pazzia dello stesso, ancora una volta propiziata dal Dio d’Amore; smembramento del corpo morto di Satî da parte della Trimûrti; rinascita della figlia di Brahmâ nei panni della fedele e costumata Arundhatî ; sue nozze con il rishi Vaçishtha; preferenza quasi esclusiva di Candra per Rohinî, rivelata al padre dalle sorelle ed osteggiata inutilmente da Daksha; arsione e riduzione in cenere di Manmatha, nell’ennesimo tentativo da parte di questi di eccitare Mahâdeva, onde spingerlo a recedere dalla severa ascesi intrapresa ed a risposarsi con Kâlî; pratiche di penitenza attuate pure da Pârvatî, che intende in questo modo favorire l’ottenimento del proprio matrimonio con Hara; nozze di Çiva e della Çakti; nascita di Skanda ed, infine, annientamento dell’asura Târaka) è, comunque, più armonicamente congeniato nell’insieme che altrove. Solo il tema della foresta di pini (devadaru) e la storia dell’innamoramento nei confronti di Çambhu da parte delle mogli dei Saptarishi ,vale a dire le Sei Krittikâ ed Arundhatî, sono quivi assenti od almeno molto ridimensionati, rispetto ad esempio alla trattazione corrispettiva del Vâmana Purâna. Tutti gli episodi citati sono in qualche modo segnati dalla presenza occulta od invisibile di Manmatha sulla scena, il quale adempie alla funzione di ‘Gran Burattinaio’, benché le sue azioni dichiaratamente ordinate da Brahmâ; sicché, secondo quel ch’è postulato esplicitamente nel Kâl. P.-iv. 39, è lecito asserire che Madana serva “la causa perpetua della Creazione”. Riguardo invece a Vasanta, l’immancabile complice – la cui nascita è descritta con estrema dovizia di particlari nel Kâlikâ (iv sgg) – del Cupido indiano, è chiaro che quegli raffigura in quanto allotropo di Madana un volto distinto di Kâma, ritratto visibilmente in base ad una tipologia vishnuita; codesto ‘Terzo Volto’, pertanto, si contrappone da un lato all’aspetto brahmanico di tale dio in quanto Manasija (‘Nato-dalla-Mente’) e, dall’altro, all’aspetto shivaita di Kandarpa quale Makaradhvaja (‘con il Makara per emblema’). La nascita di Vasanta dalle ‘Cosce’ di Brahmâ (ibîd., verso 24) conferma questa nostra supposizione, giacché è noto che le ‘Cosce’ del Pitâmaha – e talora pure quelle del Purusha o di Vâmadeva – sono correlate al varna dei Vaçya. Anche la schiera di Genï che accompagna il Dio dell’Amore, i Mâra (ib., vi. 3057), deformi al pari degli incubi che essi provocano attraverso il desiderio sessuale (il che li rende di ostacolo ai saggi, dunque evidente controparte maschile delle leggendarie ‘Figlie’ di Mâra, più famose di costoro per via del loro tentativo di seduzione nei confronti di Siddhârtha), sono un’ulteriore riprova dell’interconnessione di Kâma e di Vasanta con la ‘Terza Casta’; ovvero, per esprimerci nei termini suggeriti dal Dumézil (pur essendo la terminologia di tale autore, a nostro avviso, un po’ imprecisa), con la ‘Terza Funzione’, correlata manifestamente alla simbologia della fertilità. Infatti codesti Mâragana, pure loro fuoriuscenti dalle ‘Cosce’ del ‘Progenitore’ (verso 30) in veste ora di Nani ora di Giganti (verso 33), non sono altro che un doppione dei Marutgana, che la B.Â.U. i. 4, 12 ed il Bd.P i. 7, 166 mostrano di considerare per l’appunto deità connesse al mondo dei Vaiçya. Orbene, tutto ciò si collega al fatto che Ananga, secondo la profezia comunicata a Rati dal Creatore, sarebbe rinato come figlio di Krishna, vale a dire una forma avatarica di Vishnu: ritenuto dai testi (cfr. la Bh.G. x. 12, ove Keçava dichiara: Âdityânâm aham Vishnur) non meno di Indra (vide suprâ) il Signore dei Dodici Âditya, cioè dei Deva. Circa la relazione tra i suddetti Dodici Âditya ed i Vaiçya, non vi è neppure il motivo di affrontare la questione, tanto è un fatto risaputo (in ogni caso vedi il passo puranico or ora citato); analogamente al rapporto tra Prajâpati ed i Brâhmana, Rudra e gli Kshatriya, la Çakti e gli Çûdra, essendovi un’indubbia affinità tra ‘Stirpi’ divine (od umane) e Caste, dovuta al criterio in base al quale è modellata ogni ripartizione quaternaria (o quinaria), ossia alla dottrina dei Grandi Elementi. È tale modello elementale, infatti, a determinare l’applicabilità dell’una o dell’altra classe simbolica al Caturyuga (o dai Cinque Mahâyuga). Insomma, quel che a livello cosmologico è costituito dalla funzione riproduttiva di Kâma e dell’alter-ego di questi Vasanta (assimilabili ipsô factô alla categoria divina dei Deva), è rappresentato in ambito societario dalla funzione analogicamente produttiva della caste artigianale; donde si spiega, in definitiva, l’accostamento possibile di Kâmadeva sia con Mâra (nome che è venuto ad indicare, cosí, solo un suo travestimento malefico), sia con Keçava (appellativo di Vishnu o di Krishna), cui Kandarpa (o Vasanta) è talora apertamente identiticato (Bh.G. x. 28 e 35). Vedi, inoltre, il Pd.P. i. 23, 123 / b 130 / a. Sebbene, invero, l’equiparazione con Çiva risulta di certo assai più frequente, ciò che è sottolineato pure dalla O’Flaherty (op.cit., C.V`, §§ c, p.145 e k sgg.). Vide Bd.P., Lal. xv. 158 e xxx. 16, ed ancora lo ÇP. iv. 35, 1131. Noteremo, alfine, come pure presso i Latini sia lecito tracciare una comparazione tra Pîcus (detto Mârtius ed in parte equivalente al Kâma ‘induista’, al di là di alcune differenze iconografiche di natura locale), Mârs (legato, come il precedente alla tematica vernale, il cd. Vêr Sacrum) ed Iuppiter (l’appellativo di Pluvius lo rende associabile alle piogge primaverili). Cfr., in Grecia, lo Zeús Hyétos.
(23) Su tale radice vide n.1.
(24) M.Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche arcaiche dell’estasi Mediterranee, Roma 1974, C.I’ p.22; ed. or.
Le chamanisme et les techniques de l’extase – Payot, Parigi 1951.
(25) Come alla 23.
(26) Ibîd Che i due termini – derivati da una radice unica, col valore originario di ‘andare attorno’, probabilmente in senso celeste e notturno siano etimologicamente collegati, attraverso le voci cr ama (‘ascesi, esercizio; spirazione, sforzo’) Cfr. con l’a.eg. km (‘adempimento’) e çamya (‘assenza di desiderio o passione’), è provato del resto dalla corrispondenza filologica tra il scr. çamyâ (‘verga, bastone; piolo, caviglia; gambo, stelo’), il gr. kámax (‘pertica, palo da vite; asta, lancia’) o kâlamos (‘stelo, canna’) ed il lat. câla (‘bastone, pezzo di legna’ [da ardere]), var. câ-ia (id.) o calamus (‘stelo, canna, fusto’). Noteremo, inoltre, come nelle voci appena citate sembri persistere, simultaneamente, una vaga rimembranza di provenienza forse indoeuropea riguardo quel che nell’Induismo è rappresentato per un verso dalla proverbiale ‘Verga’ di Kâla (Mhbh., Bhîshmap – xlv. 8), il Signore del Tempo e della Morte; e, per un altro, dalla natura fitomorfica o falliforme di Kâmadeva. Questi compare, infatti, nel folclore dell’India meridionale (O’Fl., op.cit., § g, pp.15860) con il nome di Nathurâm, in veste di albero, stelo, bastone o fallo. E, addirittura, pare che lo stesso Nâthuram talvolta, essendo per l’appunto concepito simbolicamente in funzione di Arbor Mundi, sia ivi ritratto con rami dai quali spunterebbero a mo’ di gemme alcune figure femminili, da interpretarsi a nostro giudizio come delle Nâhtrika, ossia delle dee presiedenti alle forme della Manifestazione. Tale iconologia è stata trasmessa anche all’Occidente in tempi medievali, tramite la mediazione del mondo islamico – vedi le raffigurazioni dell’Albero Parlante, il cd. Wakwak delle leggende di Alessandro alias Iskandar, in J. Baltrushaitis, Il Medioevo fantastico Mondadori, Milano 1977, C. IV, § 4 sgg e ff.5562, pp.l3343 (I ed. it. Adelphi; Milano 1973); ed. or. Le Moyen Age fantastique. Antiquités et exotismes dans l’art gothique [edit. n.c.] Parigi 1972. Essa rientra in quella più generale dell’Albero della Vita paradisiaco (di cui fa parte, ad es., anche l’Albero di Jesse) presentando il suddetto ‘Albero’ in certi casi una fruttificazione zoomorfica o mista e ricevendo altre volte invece una caratterizzazione piú peculiarmente androginica; la quale allude ad una doppia nature astrale ed alchemica, il che è come dire psichica e spirituale. L’idea di arsione, pure presente nella seconda serie del lessico menzionato in questa nota, ci rimanda d’altronde all’Elemento Fuoco, di cui significativamente i ‘Bastoni’ (arcaicamente abbinati alla casta guerriera e regale, in qualità di clave o di scettri) sono un emblema pure nei Tarocchi. Cfr. i ‘Semi’ del Tarocco esoterico spagnolo, ove la cosa appare del tutto evidente. Orbene, la prima e la seconda serie di vocaboli citati, l’una corrispondente al scr. çramana e l’altra a çamyâ, sono derivate rispettivamente da due radici aventi palesemente opposti signiticati, seppure convergenti foneticamente; o meglio, entrambe dipendono da un’unica radice con sensi antinomici, anche se complementari. Il primo (circa cui vide n.1) è difatti inerente al concetto di Divenire, mentre il secondo ha una valenza ontologica. Dobbiamo aggiungere che, nell’ambito della prima di codeste due accezioni sono da collocare, a nostro avviso, il scr. kri (‘trascorrere, passare [di tempo]; coltivare, venerare, sacrificare’) – equivalente al lat. colo (id.) e l’omofono car (‘andare, muoversi, camminare’), oltreché la sua var. cal (id.) verbi l’uno e l’altro analoghi rispettivamente, al lat. curro (‘andare di corsa, muoversi o camminare di fretta’) ed a calco (‘camminare, calpestare’); in greco abbiamo, tra le voci affini, kéllô (‘procedere rapidamente’) e kélomai (‘metto in movimento’), connesso a kélor (‘moto’) ed al lat. celer (‘celere’). Sempre nella lingua ellenica rinveniamo, poi, il vr. kámptô (‘ girare attorno, flettere’), filologicamente apparentabile sia al scr. kan (‘andare’) sia al t. lat. cammîno (‘camminare’), verbo quest’ultimo proveniente a sue volta secondo il Devoto dalla lingua gallica. Si noti, infine, che in latino nel tema *col il senso primario di moto e di rotazione, insieme a quello correlato di temporalità, sembra essere venuto meno apparentemente, in favore di ulteriori e più specializzati significati; mentre, nel scr. *kri è perdurata almeno la seconda delle due accezioni considerate. Ma il s.m. col-us (‘conocchia’), riconducibile sotto l’aspetto concettuale al ‘Fuso Adamantino’ delle Parche (le Tre Dee presiedenti al Fato nella mitologia romana), testimonia chiaramente come all’interno dell’idioma latino lo stesso tema *col-, di cui sopra, possedesse in origine tali accezioni appena indicate, donde debbono esser state tratte secondo logica le altre precedentemente menzionate di coltivazione, etc.
(27) Affermiamo ciò con molte riserve, tuttavia, pur sapendo che codesta asserzione concorda perfettamente con quanto dichiara la O’Flaherty, la quale sostiene la tesi dell’identità parziale di Manmatha con Çiva (ibîd., §§ c, p.145 e k, p.171). Cfr., al riguardo, la n.1. A nostro parere infatti, diversamente da quel che pensa l’Autrice citata (ib., p.171), è lecito affermare anche l’opposto; che cioè Kâla – ovvero Çiva – possa essere inteso come aspetto secondario di Kâma concepito a sua volta come ipostasi di Brahmâ, in quanto Manasija – e posto in correlazione con l’Elemento Fuoco (mentre il Dio dell’Amore sarebbe rappresentato, in tal caso, dall’Elemento Aria), equivalendo il Dio del Tempo alla funzione di Manmatha quale Maharadhvaja. Cfr. nn.3, 10 e 22. Tutto, è chiaro, dipende dal fatto che si consideri l’una o l’altra delle due divinità in veste suprema, subordinando ad essa elementalmente l’aspetto ritenuto secondario. Si deve tuttavia sottolineare che, da un punto di vista imparziale (com’è, ad esempio, quello smârta), la figura di Kâma – nome a parte, il cui etimo del resto abbiamo visto coincidere pressappoco con quello del termine che designa il Dio del Tempo – è necessariamente più arcaica ed essenziale di quella di Kâla; in base a quanto mostra la comparazione con la mitologia greca, ove si tramanda esplicitamente che Okéanos – secondo noi un alterego di Erôs e, nel contempo, di Thánatos – costituisca una ‘Seconda Generazione’ divina, seguita alla ‘Prima’ di Urano ed antecedente alla ‘Terza’ di Crono (Plat., Tîm, xiii. 40 / e 41 / a). Proprio a cotal Okéanos – termine proveniente da una rad. ¯¯km (preceduta da una vocale protetica o), che è analoga a quella medesima da cui deriva il nome Kâma (cfr., in forma dentalizzata, il cin. T’ien-ed il tur.mon. Tengri) – è associata mitologicamente quale controparte femminile Têthýs; a cotale coppia di numi Platone attribuisce la prima ierogamia. Dal raffronto fra Oceano ed Eros, e fra costoro ed il Cupido latino od il Kâmadeva indiano, è reso palese il senso di codesta attribuzione mitica, trasmessaci da parte del filosofo ateniese. Circa Kâla, ed il suo parallelismo con il Kronos greco, vedi nn. 1, 13 e 30.
(28) In una bellissima gouache nepalese su carta del XVIII sec. (M. Khanna, Yantra. The Tantric Symbol of Cosmic Unity Thames and Hudson, Londra 1979, C.III, p.64, fig.27) troviamo una suggestiva immagine di Kalâ; avvolta da purpuree fiamme emanate dal nero corpo del nume nell’oscurità dello spazio tutt’attorno; costei è ivi ritratta mentre sorge da Kâmeçvara (personificazione del Desiderio Primigenio, vale a dire del volto hindu di Érôs Protógonos), giacente sotto di lei itifallico e di bianca carnagione. Accanto, in un’icona parallela sulla destra, osserviamo invece lo stesso personaggio maschile impegnato in un tenero abbraccio con la propria Çâkti (Kâmeçvarî); entrambe le figure sono di colore rosso, al pari del cerchio di fuoco che li circonda e li avviluppa l’uno all’altro, quasi fossero due Nâga. La Dea del Desiderio stringe tra le mani il Laccio, con cui ella adesca universalmente ogni creatura, riconducendola all’origine della Manifestazione tramite la magia del sesso. La coppia cosí descritta troneggia su Sâdaçiva (forma pentacefala di Mahâdeva, definita talora più prosaicamente Çiva Pañcanana, in rapporto ai Cinque Elementi), disteso per convenzione sotto di lei, onde rammentare il Principio Eterno da cui proviene la Diade cosmogonica.
(29) O se preferiamo, di Mahâkâla con Mahâkâlî.
(30) Si confronti nel medesimo tempo il personaggio equivalente di Kálôs (Calo), mitico inventore del ‘Compasso’ secondo la mitologia ellenica. Egualmente Keleós (Celéo), personaggio associato alla nascita dei Misteri Eleusini, è probabilmente da connettere allo stesso etimo; poiché vi è un rapporto tra la scoperta dell’orticoltura, attribuita leggendariamente dagli autori greci a Crono, e gli albori della cultura umana, primieramente di carattere iniziatico. Un ultimo accostamento, sotto l’aspetto filologico, è possibile tracciarlo con il nome del Dio della Morte (Kâr), veste maschile di Kêr, la Kâlî egea.
(31) Un doppio aspetto aviforme, in tal caso di Parrocchetto (Çuka) o Colombo (Kapota) ed Avvoltoio (Garuda), è proprio anche di Agni, il Dio del Fuoco; come dimostrato dai testi puranici, specificatamente dallo Ç.P , Dh.S.. xi. 2835, dal B.P. cxxviii. 346, dallo Sk.P. i. 2, 29, 81210 passi tutti e tre riportati l’uno di seguito all’altro in O’Fl., op.cit., C.III, § C. 1, pp. 957). Il suddetto aspetto corrisponde nella cultura grecoromana alla duplice natura ornitomorfica di Pîcus gr. Pîkos, che appare difatti ora nella veste titanoprometeica di Pico Feronio alias Foronéo (Signore del Fuoco), figura calendariamente associabile al freddo Inverno; ora col volto eroicodivino di Pico Marzio (Signore delle Piogge), figura invece attinente alla fresca Primavera. Più precisamente i due Uccelli, cosí come le due faciês di Pico, crediamo indichino, nell’ordine citato, il Sole del Solstizio Invernale e quello dell’Equinozio Primaverile. Intatti all’inizio del Kaliyuga il primo ricorreva in Acquario, Segno talvolta avente per emblema l’Aquila, o l’Avvoltoio (cfr. il simbolismo del Tetramorfo vicino orientale, di poi trasmesso al Cristianesimo ed applicato quale contrassegno degli Evangelisti), anziché il Pavone (cfr. il vâhana di Skanda, in alternativa al Gallo); mentre, il secondo trovavasi in Toro, Segno che viceversa ha spesso per equivalente non solamente nella trazione hindu l’asterismo lunare delle Pleiadi (lett. ‘Colombe’). Donde si può inferire che il Colombo ed il Pappagallo presentino, nelle fonti menzionate, una connotazione solare in relazione col punto vernale in Toro; o, se preferiamo, nelle Krittikâ. Tanto più che la presenza delle stesse, in veste personificata, ricorre effettivamente nei passi sopra citati, concernenti il mito cosmogonico della nascita dell’esacefalo Kârttikeya, ovvero il cd. ‘Figlio delle Pleiadi’. Due millenni più tardi il Solstizio d’Inverno passava in Capricorno e l’Equinozio di Primavera in Ariete, ciò spiegando l’alternanza dei simboli, rispettivamente saturnio e marziale, del Coccodrillo e del Pappagallo quali veicoli di Kâma. Iconograficamente è possibile rinvenire una rappresentazione di Agni, la ‘Bocca degli Dei’, sotto forma di Pappagallo in un dipinto kangra del XVIII sec. (ibîd., a fr. di p.241, fig.15), ove scorgiamo per l’appunto la testa piumata del dio in un quadro appeso ad una parete; all’interno di una stanza osserviamo un letto nuziale, in cui Çiva e Parvatî, abbracciati, sono dediti a sollazzi amorosi. Di fuori gli dèi, radunati davanti alla dimora della coppia dei divini sposi, hanno osato interrompere i loro rapporti sessuali, con l’intento segreto di favorire cosí la nascita di Skanda; mentre Vîrabhadra, accovacciato, fa la guardia al sacro talamo. Un po’ irrealisticamente rispetto ai dati della scena, ritratta in maniera stilizzata ed immersa in un’atmostera medioevalizzante, il Dio del Fuoco in versione di Uccello Solare, attende in una sorta di atrio di raccogliere nel becco l’Aureo Seme di Mâhadeva.
(32) Di parere analogo sembra essere il Liebert (G. I. Liebert, Iconographic Dictionary of the Indian Religion. HinduismBuddhismJainism E.J. Brill, Leida 1976, s.v. MAKARA, pp.l65-6, coll. ba).
(33) Che anche il vessillo di Kâma abbia funzione di veicolo, è dimostrato indirettamente dal fatto che il Coccodrillo compare nell’arte grecoromana (e poi in quella ‘cristiana’ a livello funerario onde sottolineare il trionfo dell’Amore sulla Morte ) come veicolo di Eros o degli Amorini.
(34) Nella stagione primaverile, in quanto momento della fioritura, è sottesa la potenza fecondatrice di Kâma che una volta arso dall’Occhio Frontale del Trinetra, è divenuto incorporeo (vide n.22) e può pertanto occultarsi nei fiori dei boschi; nonché nella vulva delle femmine, ed in tutto ciò che di bello in genere è capace di eccitare la vista e stimolare i sensi.
(35) Siffatto vâhana è nell’iconografia un attributo, oltreché di Varuna e consorte (sia questa Vâruni o Gaurî), pure di Gangâ e Gangeya Subrahmanya (una delle sei forme di una veste particolare dravidica del figlio della dea fluviale); parimenti lo è di Pushpadanta, uno degli otto Diggaja (Elefanti dei Quartieri Cosmici) presenti nei templi ad indicare le direzioni, e dell’omologo jaina Suvidhi (IX Tîrthankara). Cfr. col Delfino, veicolo in Grecia delle forme equipollenti di Poseidone, Afrodite e Tetide (sposa di Peleo). L’equivalente di G.S.., vale a dire Achilleús, non ha però alcun veicolo ittico; al posto di quest’ultimo incontriamo, comunque, un Achelóos, pressoché omonimo, dai tratti semizoomorfici (corpo serpentiforme e coda di pesce). Il Makara, siccome ‘Mostro del Mare’, sostituisce nella cultura hindu un precedente ed assai arcaico simbolo ittico da scegliere forse tra Dugongo, Pescesega, Pescespada e Narvàlo. Esso ha sostanzialmente tre componenti figurative: Proboscide Elefantina, Denti e Corpo di Coccodrillo (o di Squalo), Coda di Pesce. Ricordiamo ancora che talvolta il Dio del Desiderio è associato al Matsya, anziché al Mâkara; sia leggendariamente (secondo il Bh P. x. 55, 125 Kâma rinato col nome di Pradyumna, sposo di Mâyâvatî nonché figlio di Krishna e Rukminî, ancora lattante viene gettato in mare dal potente re Çambara il quale vuole in tal modo sfuggire ad una nefasta maledizione che lo concerneva, connessa alla nascita del suddetto fanciullo ed è ingoiato da un Pesce; ma alfine alcuni pescatori pescano il Pesce e lo portano cerimonialmente alla reggia, ove la magica creatura viene squartata ed il fanciullo torna alla luce), sia attraverso un vâhana (vide G. Acerbi, La storia avatarica del ‘Pesce aureo’ V.d.T., programmato in 3 fascc. ancora da uscire, Palermo 1997, P.I, § 1, n.23), ed anche sotto forma di emblema Mìnaketana, equivalente a1 Makaradhvaja sormontante il vessillo fuoriuscente dalla faretra del Dio d’Amore (cfr. P. Thomas, Kama Kalpa or the Hindu ritual of Love D.B. Taraporevala, Bombay 1960, a fr. dip.32, fig. 1). Ricordiamo, in ultimo, che nel Buddhismo tibetano compare una dâkinî verde chiamata Makaravaktrâ, lett. dalla ‘Testa di Makara’.
(36) I1 Makaramukha (cfr., ad es., S. Kramrisch, Hindu Temple Motilal B., Delhi 1976, Vol. II, tav. LXXVIII, con comm. a p.406), non meno del Kâlamukha, è difatti un simbolo corrispondente alla ‘Gola degli Inferi’ del Medioevo cristiano. Esso, talora, presenta una connotazione del tutto opposta; vale a dire dalla ‘Bocca del Mostro”, concepito quale ‘Essenza delle Acque’, si sviluppa una prabhâvalî, in altre parole una decorazione ornamentale che glorifica un dato soggetto (vide ibid., tav. XLVII e comm. a p. 393). La seconda delle due tavole citate ritrae la parte centrale della facciata orientale di uno çikhara del tempio di Nîlakantheçvara ad Udayapur (Gwalior, XI sec.), in arenaria rossa; Kîrttimukha (tema analogo al Kâlamukha) sovrasta l’intera scena, il cui motivo ornamentale pare diramarsi dalle fauci di due Makara diametralmente opposti e complementari, ma origina visibilmente dal Kîrttimukha stesso. Il contrasto apparente fra i Makara antinomici è ripetuto araldicamente a fianco di tale ‘Bocca di Leone’. Entrambe le immagini hanno indirettamente a che fare, comunque, con ciò che nel Veda passa sotto il nome di ‘Testa del Makha’ o ‘Bocca del Sacrificio’. Trattasi di un motivo letterario alludente insomma allo Yajña, con le due metà annuali che lo contraddistinguono in rapporto al cammino solare, ora ascendente ora discendente.
(37) Circa la distribuzione ciclica del predominio delle divinità della Trimurtî hindu all’interno dei primi tre Yuga – il Quarto essendo, come è noto attraverso la tradizione tantrica, esclusivo appannaggio della Devî (o Çakti, che dir si voglia) oltreché di una forma di Çiva a costei sottomessa – e, comparativamente, di quella delle corrispettive deità indoeuropee nelle Età corrispondenti, vide G. Acerbi, Il Sumeru, la Montagna Polare, nella cosmografia hindu – C.S.L.R., Algiza (N. 8), Chiavari 1997, § b, passim; inoltre la n. 22.
(38) Gli ‘Dei Pluviali’ hanno in proprio una fisionomia stellare, a differenza dei ‘Numi Agrari’, che posseggono per contro un carattere chiaramente planetario. Secondo quanto testimonia la B.Â.U. i. 3, 6, i secondi (cioè i Deva) si sarebbero formati dai primi (ossia gli Asura) per duplicazione, lett. per autoframmentazione e sparpagliamento in tutte le direzioni. Probabilmente la questione trova un parallelo occidentale in ambito latino nella leggenda dell’avvistamento da parte di Rhômos e Rhémos (cfr. l’antica grafia del nome dei Gemelli romani con il scr. Râma), sull’Aventino, dei famosi ‘Avvoltoi’ leggenda successivamente ripresa e rielaborata cristianamente dall’Ermetismo di epoca tardoantica e medievale. In ambito ellenico, invece, è rintracciabile un’eco dello stesso tema nell’irriducibile contrasto, sfociato nella celebre Titanomachia, tra il Regno degli Uranidi e quello dei Cronidi; o, se preferiamo, nella differenza tra Dei e Titani. Rileviamo ancora che i Gemelli romani in coppia (non separatamente!), sia che si riporti la loro genitura paterna alla fatidica ûnio del Lupus teofania di Marte con la vestale Rhêa Sylvia oppure li si faccia venire alla luce miracolosamente in un focolare dall’apparizione del Phallus igneo del medesimo dio (cfr. con la veste primaverile ed aviforme del nume indiano Agni, quale Pappagallo propiziatore della nascita di un’aurea progenie, i.e. Suvarna e Suvarnâ), sia che ricolleghi tutelarmente la loro paternità al Picchio augurale che gli autori latini e greci (in particolare Ovidio, Plutarco, etc.) denominavano Pîcus Mârtius, sono in ogni caso miticamente figli di una deità avente necessariamente un profilo pluviale e seminale. Infatti era credenza antica assai diffusa, tanto in Occidente quanto in Oriente, che le piogge simboleggiassero le influenze astrali (zodiacali), alle quali era veicolato il seme dei morti. Tenendo a mente tale assunto, si spiega allora perché mai un dio della morte – o della guerra, la cosa non cambia – come il Marte latino (vide suprâ la nostra supposta connessione filologica del lat. Mârs Mâr-t-is con la voce môrs môrtis) costituisca nel contempo un dio pluviale (vedi rapporto di non alterità con l’italico Pîcus Mârtius) e presenti per di più un carattere mascolino (si analizzi il rapporto parallelo, che oseremmo definire complementare, del lat. Mâ-s, mâris = ‘maschio’ con l’etimo appena menzionato). Per concludere, va notato che il Picchio di Marte ed i 12 Avvoltoi di Romolo debbono essere posti in correlazione con l’Aquila (o il Cigno) di Iuppiter e Zeús, nel contesto della mitologia grecoromana; e, corrispettivamente, nel contesto di quella indiana, col Pappagallo di Kâma (od Agni) ed il Colombo (o l’Avvoltoio) di Indra (o Vishnu). Si tracci un confronto, al di fuori dell’ambito indoeuropeo, pure col Falco dell’egizio Horus. Ciò in definitiva significa che gli ‘Dei Pluviali’, veicolati universalmente dal punto di vista colturale a simboli generalmente ornitomorfici, appartengono ciclicamente alla leggendaria Terza Età; poiché – si è già riferito in precedenza – gli Uccelli rappresentano un emblema dei Deva, ossia delle deità la prima comparsa delle quali è accreditata, secondo la cronologia tradizionale offerta dai testi vedicopuranici, appunto a codesta Epoca. Del pari, possiamo affermare, i Gemelli surriferiti nell’Induismo assumono la veste indigena del Mithunarâçi – fanno riferimento miticamente alla Quarta Età; secondo quanto dimostra ampiamente certa iconografia dei ‘Figli della Lupa’, associati in maniera assolutamente manifesta ai Gemini celesti (A.b. Cook, Zeus. A Study in Ancient Religion Biblo and Tannen, N.York 1965 [I ed. Univ.P., Cambridge 1925], vol.II, P.I.. C.II, § p.3.a[vi zeta] p. 443, figg. 34951), ovvero l’asterismo presiedente all’inizio dell’Età del Ferro. Presi in coppia, essi risultano quindi un doppione funzionale del Signore degli Animali (cfr. il FaunoSilvano / Faustolo latino col Paçupati / Mrigaciras hindu, non importa se intesi l’uno e l’altro nei panni di Cacciatori od accolti nelle vesti di Pastori), astralmente in relazione ad Orione (costellazione situata zodiacalmente nei pressi di quella dei Gemelli); nonché della paredra di costui, svolgendo insomma analoga funzione ciclica relativamente al Kaliyuga (Ac. art. cit.).
(39) Premesso che le ultime tre rappresentazioni appartengono al Buddhismo Mahayanico, per cogliere un esempio di ciascuno dei 19 soggetti da noi scelti arbitrariamente e classificati secondo l’ordine tematico prospettato, cfr. sequenzialmente 1) G. Jouveau-Dubreuil, Iconography of Southern India-Bharat-Bharati-Benares 1978, C. II, p. 101, fig. 31; 2) Lieb., op. cit., s.v. KÂMA (DEVA), p. 121, col. b; 3) O’ Fl., op. cit., p. 242, fig. 13; 4) S.M.Gupta, Legends Around Shiva- Somaiya P., Bombay-N.Delhi 1979, fig. 16; 5) Ibîd. come al punto 3, fig. 14; 6) Khan., op. cit. (fig. a sin.); 7) Ibîd (fig. a des.); 8) P.K. Agrawala, Mithuna. The Male-Female Symbol in Indian Art and Thought-Munshiram M., N. Delhi 1983, fig. 201; 9) Buss., op. cit. fig. 30; 10) Thom., op. cit., a seg. dip. 32, fig. 2; 11) C. Sivaramamurti, India-Mondadori-Shogakukan (Serie: STORIA DELLA SCULTURA NEL MONDO), Milano 1979, p. 164 (fig. n. num.); 12) H.K. Sastri, South-Indian Images of Gods and Goddesses – Bhartiya P. H., Delhi 1974, C.III, § 10, p. 63, fig. 41; 13) Ibîd. Come all’8, fig. 220; 14) P. Donaldson, Hindu Temple Art of Orissa – E.J. Brill, Leida-N:York-Copenaghen-Colonia 1987, Vol. III, fig. 3994; 15) Ibîd come al 4, fig. 15; 16) a) L. Chandra, Buddhist Iconography-Aditya P., N. Delhi 1987, Vol. II, p. 414, fig. 1137; 16 b) A. Getty, The gods of Northern Buddhism– Munshiram M., N. Delhi 1978 (I e II ed. O.U.P., Oxford 1914 e 1928 ), C.X, p. 113; 17) Ibîd. Come al 2, s.v. KÂLACHAKRA, p. 116, col. b; 18) Ib., s.v. TÂROBHAVA-KURUKULLÂp. 296, col. b. Degli ultimi due soggetti non conosciamo però, personalmente, alcuna riproduzione iconografica. A meno che si tratti di una figura con l’Arco quella calpestata da Kâlachakra (tetracefalo), sotto il piede destro, in P. Rawson, The Art of Tantra – Thames and Hudson, Londra 1973 (ed. riv. 1978), p. 183, fig. 148; ma, purtroppo, l’immagine non è ben chiara. Riguardo a T. -K., il rimando figurativo del Liebert è a B. Bhattacharyya, The Indian Buddhist Iconography ed. n. c., Calcutta 1958 (II ed.), tav. 121; tuttavia, da parte nostra, possediamo solo la I ed. del testo (in una rist. del 1985, a cura della Cosmo P., che purtroppo non si è presa la briga di pubblicare il bagaglio di aggiunte apportate nella II ed.). Rimandiamo perciò il lettore, con le necessarie scuse, ad una verifica eventuale dell’immagine del soggetto in questione nell’edizione citata.
(40) Analizzando altri esempî, in base a quanto indicato alla n. prec., si veda per il punto a Agraw., op. cit., figg. 28 e 29.
(41) Per i punti b-d, cfr. op. cit., figg. 35, 26 e 24.
(42) Per i punti e-o cfr. rispettivamente, D. Desai, The Erotic Sculpture of India. A Socio-cultural Study- Munshiram M., N. Delhi 1985 (II ed.), fig. 145, oltre ad Agraw., op. cit., fig. 226 e a Des., ibîd., figg. 101; ibîd., figg. 107, 36, 127; ib., fig. 124; fig. 115; 126 e 125; 138; 122; Buss., op. cit. tav. 36; ibîd., figg. 40, 45, oltre ad Agraw., ibîd., figg 217, 218, 216 e a Des., ib., figg. 131 e 129. Tale modello iconografico è senz’altro apparentato al coito rituale effigiato su certi sigilli della Civiltà della Valle dell’Indo, ove osserviamo un Toro coprire da retro una sorta di Dea Triradiata. Si veda H. Mode, India – Primato, Roma 1960 (ed. or. Das Frühe Indien- G. Kilpper, Stoccarda?), tav. 66 suprâ.
(43) Cfr. Des., op. cit., figg. 108, 103 (a sin.), 103 (a des.), 134; oltre a Buss., op. cit., tavv. 42,47 e a Des., op. cit., 90, 107 e 35.
(44) Buss., op. cit., tav. 33.