«Ultima sigaretta!», è questo il “mantra” ripetuto incessantemente (e invano!) dal protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo, pseudonimo dell’ebreo triestino Aron Hector Schmitz; autore di uno dei romanzi più significativi della letteratura italiana del Novecento, in cui l’angoscia esistenziale del nevrastenico Zeno Cosini, aggravata dalla terapia psicoanalitica a cui si sottopone, diventa l’emblema della dominante pazzia dell’uomo contemporaneo, passivamente accettata in quanto connaturata e inseparabile dal suo modo d’essere: schiavo di una complessità inestricabile, e in balia di un marasma di pulsioni incontrollate.
Una difficoltà ad imporsi una disciplina con cui si trova a dover fare i conti anche colui (non meno moderno, in questo) che intende percorrere il luminoso e arduo sentiero della ricostruzione interiore; non sempre riuscendo a tener la barra dritta, ad osservare i buoni propositi, ad attenersi agli impegni presi con se stesso e a rispettare le regole di un nobile e puro comportamento, di uno stile di vita differenziato. Un compito che, per essere adempiuto con successo, richiede la neutralizzazione del proprio Ego: scimmia ubriaca che salta di ramo in ramo, agitandosi meccanicamente al pari di un burattino eterodiretto. È, infatti, esperienza comune quella di ritrovarsi a combattere un nemico interno, in quella che l’Islam definisce Grande Guerra Santa, pronto a demolire e vanificare ogni conquista ed ogni acquisizione, costate impegno e sacrificio nel tentativo di reintegrare la propria natura nella sua originaria nobiltà. Rilassare il corpo, moderare la mente e controllare gli impulsi dell’anima è impresa immane: come se dentro di noi ci fosse qualcuno che ci tira nella direzione contraria e opera incessantemente per la nostra rovina.
A tal proposito, va ricordato che nei miti tradizionali ricorre spesso la presenza di coppie di fratelli (spesso gemelli divini), diversi fra di loro e talvolta persino nemici, impegnati in imprese dal forte significato simbolico; basti pensare a Romolo e Remo e alla fondazione di Roma, oppure alla coppia divina dei Dioscuri (sia i Tebani che quelli Spartani, noti come Castore e Polluce nella forma latina), proseguendo con Prometeo ed Epimeteo; fino a giungere, andando oltre la tradizione classica, alla coppia biblica di Caino e Abele; dagli ulteriori molteplici significati tradizionali. In queste figure è rappresentata la duplicità di un essere scisso e spezzato: un’unica persona, ma divisa e combattuta fra le sue divergenze interne e i suoi contrastanti aspetti caratteriali, animici e spirituali.
E già nella stessa costituzione corporea dell’uomo è possibile osservare – tenendoci solo a quelli esterni e tralasciando gli interni – coppie di organi che certificano tale dualità: due occhi, due orecchie, due narici, due labbra, due braccia, due mani, due gambe, due piedi; la cui funzione attiva e il cui contributo positivo si esercitano solo nella collaborazione reciproca, aiutandosi l’un l’altro per il pieno svolgimento della propria funzione. Come, per esempio, le palme delle mani congiunte nell’atto di preghiera. E proprio a questo rimanda la richiesta di una proporzionata simmetria del corpo e di una qualificazione anche fisica, in vista di un percorso iniziatico e realizzativo, col conseguente rigetto e l’inevitabile esclusione di coloro che risultano “difettosi” e “segnati da Dio”.
La Sapienza tradizionale ci insegna che nel corso della Sua manifestazione il Principio (Dio che “produce il mondo”), generando lo stato umano, da Uno si fa due; e, in virtù della Sua attrazione verso la Perfezione, esercitata su ognuno degli esseri manifestati, mette costoro nella condizione di voler rientrare nell’Unità iniziale e ritornare alla propria Origine; aderendo a quella completezza magistralmente rappresentata dal simbolo dello Yin-Yang, o dei due volti di Giano, che in realtà sono uno solo. Rivelando così il vero significato del termine yoga (Unione), e la Via e l’Azione da questo rappresentata, in quanto unire, congiungere, unificare, associare, legare; dove l’eguaglianza dei due stati annulla ogni distanza e differenza, gli elementi complementari essendo in perfetto equilibrio: attivo-passivo, maschile-femminile, luminoso-oscuro, positivo-negativo. Per accedere allo Spirito, arrivare a Dio che trascende psichico e mentale, va seguito il percorso dell’interiorità (salendo i “gradini” che ci forniscono le nostre componenti spirituale, psichica e corporea), la via del cuore e non dei sensi; neutralizzando e disinnescando le sollecitazioni divisive e caotiche dell’esterno, del fuori, della molteplicità delle cose.
Infatti, come ci ricorda René Guénon (Silenzio e solitudine): «L’essere che vuole mettersi in comunicazione con il Principio deve prima di tutto fare l’unità in se stesso, per quanto possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e nel medesimo tempo deve anche isolarsi da ogni molteplicità esterna a lui (…) La solitudine, in quanto si oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; ed è noto quale importanza sia effettivamente data alla concentrazione da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile di ogni realizzazione».
Mentre Cornelio Agrippa (Filosofia occulta) ci segnala, dal suo particolare punto di vista magico, che «Gli elementi sono in lui secondo le reali proprietà della loro natura; in lui v’ha una sorta di corpo etereo, veicolo dell’anima, che, in proporzione, rappresenta il cielo; in lui esistono la vita vegetativa delle piante, i sensi degli animali, lo spirito celeste, la ragione angelica e la mente divina, nonché il mirabile connubio di tutte queste cose, indirizzato verso un’unica finalità e verso la possessione divina. Perciò le Sacre Scritture chiamano l’uomo la creatura per eccellenza, né l’uomo contiene solo in sé tutte le parti del mondo, ma anche Dio stesso. Per cui Xisto, il pitagorico, dice che lo spirito dell’uomo è il tabernacolo di Dio, pensiero espresso più chiaramente da San Paolo: Voi siete il tempio di Dio e confermato dalla Scrittura in più passi».
Allora i due “fratelli” mitologici, simbolo ed emblema di questa dualità e molteplicità che deve essere sanata – sempre secondo Agrippa – ricevono, nel loro aspetto positivo, i doni e le virtù celesti: «mercè Saturno un’alta contemplazione, una profonda intelligenza, una gravità di giudizio, una ferma speculazione, la stabilità e la fissità delle risoluzioni; mercè Giove una prudenza ferma, la temperanza, la benignità, la pietà, la modestia, la giustizia, la fede, la grazia, la religione, l’equità, la clemenza, la regalità; mercè Marte una intrepida franchezza, una fermezza e una forza indomabile, l’ardore del coraggio, la capacità di agire e d’eseguire, una veemenza costante di spirito; mercè il Sole la nobiltà dell’anima, la perspicuità della immagine, il genio della scienza e della decisione, la maturità, il consiglio, lo zelo, la luce della giustizia, la ragione e il discernimento del giusto e dell’ingiusto, lo sceveramento della luce dalle tenebre dell’ignoranza, l’orgoglio di trovare la verità e la carità, che fra le virtù è regina; mercè Venere l’amore fervente, la lieta speranza, i moti del desiderio, l’ordine, la concupiscenza, la bellezza, la soavità, il desiderio dell’accrescimento e la propagazione di se stessi; mercè Mercurio la fede penetrante e la credulità, il raziocinio sicuro, il vigore d’interpretare e di affermare, la nobiltà dell’eloquio, la sottigliezza dell’ingegno, la ricchezza del ragionamento, la prontezza dei sensi; mercè la Luna la concordia pacifica, la fecondità, la forza di produrre e d’aumentare, di crescere e di decrescere, una temperanza moderata e una fede che, rivolta sulle cose aperte ed occulte, offre a tutti una guida ed un impulso verso le cose terrestri per la cultura della vita e per l’incremento da assegnare a sé e agli altri».
Mentre invece, quando a prevalere e a prendere il sopravvento è il fratello negativo, «Saturno semina l’inquietudine, la noi, la melanconia, i deliri, la tristezza, la testardaggine, la disperazione, la menzogna, le larve lemurali, i terrori della tomba, gli spaventi delle carneficine e gli assalti dei demoni; Giove lo spirito d’avarizia, le cattive occasioni per arricchire e la tirannia; Marte la collera furibonda, l’arroganza profana, la temeraria audacia, la testardaggine crudele; il Sole l’orgoglio imperioso e l’ambizione insaziabile; Venere gli eccessi concupiscenti, gli amori lascivi, le vergognose orgie; Mercurio le frodi, gl’inganni, le menzogne, la prontezza al peccare; la Luna l’instabilità in ogni cosa e tutto ciò che è contrario alla natura dell’uomo. In tal modo l’uomo che non corrisponde più con le potenze celesti, riceve il male invece del bene e, come dice Proclo, cade sotto il dominio dei demoni maligni, che lo trascinano verso il peccato e verso il dovuto castigo».
È dagli scritti del “Gruppo di Ur” (Abraxa, Conoscenza delle acque) che è stata tratta la frase del nostro titolo, quando è detto: «Pòtati dalle liane della voluttà, dell’ebrezza e della passione; riduciti ad una semplicità che vuole (…) Libero ed equilibrato, forte, calmo e puro, avendo ucciso il desiderio, di’: VOGLIO» (diventando, allora, luce nelle tenebre, per noi e per coloro che ci circondano); e se qualcuno ha definito una “vita semplice” quella di René Guénon (con le dolorose intemperie che ha dovuto affrontare e le laceranti molestie che ha dovuto sopportare), vuol dire veramente che la semplicità è una qualità indispensabile per evitare le contrarietà e gli impedimenti che ci attiriamo addosso col nostro sconsiderato comportamento e la nostra caotica condotta di vita.
Non con le letture e i ragionamenti, ma attraverso l’esperienza diretta e concreta, con l’impegno fattivo, sperimentando e mettendosi alla prova nel quotidiano esercizio e nell’acquisizione ritmata del sapere, è possibile modificare la coscienza, isolando gli impedimenti psichici e conoscendo l’effetto reale e positivo che determinati gesti pensieri e azioni operano su di noi, sottilmente. L’astinenza – come ci insegna ancora Agrippa – è una difesa contro i vizi e i demoni maligni, tramuta l’animo in un tempio immacolato abitato da Dio, a cui viene congiunta la mente, omettendo il superfluo e non oltrepassando la misura per vivere. «Nel bere e nel mangiare noi dobbiamo dunque serbare la purezza dell’astinenza, a similitudine dei filosofi pitagorici che, con la sobrietà della mensa, riuscivano a condurre una vita tutta di temperanza (…), fa che l’anima nostra, il più sovente nel sonno ma talora anche nella veglia, sia sempre disposta a ricevere le influenze superiori. Bisogna inoltre astenersi da ciò che può corrompere lo spirito; dalle bramosie e dall’invidia, che Ermete giudica le ancelle dell’ingiustizia e che guidano la mano e il pensiero verso le cattive azioni; dall’ozio e dalla lussuria, che soffocano l’anima sotto il torpore e la voluttà e le tolgono la comprensione del cielo. Dobbiamo ancora astenerci da tutta quella moltitudine e diversità di sensazioni, d’affetti, d’immaginazioni, d’opinioni e di passioni che feriscono lo spirito e pervertiscono il giudizio, come è visibile chiaramente negli innamorati, negli invidiosi e negli ambiziosi. Così potremo raggiungere l’Uno supremo, da cui dipende l’unione di tutte le cose, per mezzo dello stesso uno, come la fioritura della nostra essenza, che acquistiamo infine quando, fuggendo la moltitudine, sorgiamo nella nostra unità stessa, diventiamo uno e agiamo in conseguenza».