La pratica dell’estasi filosofica
Quando, evocando il percorso conosciuto da ogni tradizione verso la Liberazione e il superamento dei limiti propri allo stato umano nella sua dipendenza dalle determinazioni del Destino, si fa cenno alle qualificazioni da sempre richieste affinché l’uomo possa degnamente accostarsi a quelle Vie, c’è il rischio che la ristrettezza mentale da una parte e la fantasia sfrenata dall’altra, proprie dei nostri tempi, prendano il sopravvento e condizionino negativamente la nostra capacità cognitiva. A causa del vero e proprio “inquinamento” immaginativo subito dall’uomo moderno, nutrito da pseudo simboli e falsi miti deviati e deformanti, è facile confondere le prerogative dell’Eroe dello spirito con i superpoteri dei supereroi cinematografici e fumettistici. Se, tuttavia, una delle definizioni assegnate a quelle Vie è stata quella di Arte Regia, non dovrebbe essere difficile desumere il tipo di dignità attesa e necessaria, per dedicarsi a quell’arte.
Julius Evola, curando nel 1932 la nuova edizione dell’opera di Cesare Della Riviera: Il Mondo Magico degli Eroi, uscito per la prima volta in due edizioni ravvicinate, nel 1603 e nel 1605, ricordava che: «L’Editore ha dedicato la prima edizione a Don Vincenzo Gonzaga, Duca di Mantova e la seconda edizione a Carlo Emanuele Duca di Savoia – come a Principi, i quali dunque sembravano interessarsi ancora a materie che molti oggi (e purtroppo non a torto) considerano retaggio esclusivo di vecchie signore teosofiste, di spiritisti e fakiri, di occultisti più o meno efebici, barbuti e detraqués, di umanitaristi vegetariani, e consimile genia che, fra tutte, vale a relegare definitivamente nell’impenetrabile ogni eco vero, puro e virile della tradizione: mentre gli altri, oggi, si danno alle “cose serie”, che sarebbero lo sport, l’intriguccio politico, la preoccupazione sociale e “morale”, la “cultura”, il guadagnar denaro, l’amore, la letteratura, e via dicendo». Dove vediamo tratteggiate, in poche parole chiare, quelle che potremmo definire delle autentiche “squalificazioni”, invalidanti in vista di un autentico percorso di ricostruzione interiore e di purificazione personale.
Purtroppo, ma inevitabilmente, la suggestione democratica che da oltre due secoli flagella le menti e le coscienze, rende quasi impossibile ristabilire le giuste distanze, separando e distinguendo, nell’informe poltiglia umana contemporanea, le nature nobili dalle nature ignobili. Ma il percorso realizzativo di cui qui si parla non ha mai potuto e mai potrà prescindere dall’effettiva presenza della dignità regale, e dalla piena e completa virilità: fisica psichica e spirituale. Ed è proprio a questo percorso che rimanda il testo attribuito a Tommaso Campanella qui di seguito proposto, dove vengono suggestivamente rievocati insegnamenti e tecniche, propri dell’Arte Regia e comuni a tutte le tradizioni ortodosse.
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Bisogna eleggere un luogo nel quale non si senta strepito di alcuna maniera, all’oscuro o al barlume di un piccolo lume così dietro che non percuota negli occhi, o con gli occhi serrati. In un tempo quieto et quando l’uomo si senta spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’anima. In quanto al corpo non senta né freddo né caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica di catarro e da fumi del cibo et da qualsiasi umore; il corpo non sia gravato di cibo né abbia appetito né di mangiare, né di bere, né di purgarsi, né di qualsivoglia cosa; stia in un luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla mano sinistra o in altra maniera più comoda… L’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato né da mestizia o dolore o allegrezza o timore o speranza, non pensieri amorosi o cure famigliari o di cose proprie o d’altri; non di memoria di cose passate o di oggetti presenti; ma essendosi accomodato il corpo come sopra, deve mettersi là, et scacciare dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa, et quando viene uno subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anche lui scacciarlo infino a che non ne venendo più, non si pensi a niente del tutto, et che si resti del tutto insensato interiormente ed esteriormente, e diventi immobile come se fosse una pianta o una pietra naturale: et così l’anima non essendo occupata in alcuna azione né vegetale né animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli istrumenti intellettuali, purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose più per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: fatta angelo vede istintivamente la essenzia delle cose nella lor semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare: perciocché avanti che si metta all’opera, bisogna stabilire quello che si vuole o speculare o investigare et intendere, et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, e allora gli parrà di avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non gli si nasconde verità nessuna. E allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non vi è piacere in questo mondo che a quello si possa paragonare: né anche il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo. In tale maniera che l’anima pensando di avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tale estasi si spiccherebbe del tutto dal corpo.
Perciocché quelli sottilissimi spiriti nei quali ella dimora se ne salgono al capo, e però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, ove sono gli strumenti intellettuali; e a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morrebbe. Et però sono più atti a questa estasi quelli che hanno il cranio aperto per la cui fessura possono esalare alquanto gli spiriti: altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta, et gli organi per così gran concorso si rendono inabili.
Questa credo che sia l’estasi platonica, della quale fa menzione Porfirio, che da questa Plotino sette volte fu rapito, et egli una volta; essendoché di rado si trovan tante circostanze in un uomo: con tutto ciò in due o tre anni potrebbe succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora si intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimenti voi ve le scordereste, e rileggendole poi non l’intendereste.
Tommaso Campanella