Il segno della tecnocrazia
Comunità organica ed egocentrismo collettivo
La perdita della memoria è quindi il fattore che determina un mutamento interiore e spinge l’uomo ad allontanarsi dal punto di vista Tradizionale, allettato dalle lusinghe del mondo moderno e dalla sua mentalità utilitaristica e antitradizionale. Riconoscere che le due visioni del mondo sono diametralmente opposte è il primo passo per sgombrare il campo da equivoci, circa la presunta superiorità dell’uomo moderno.
Nelle comunità organiche, permeate da una visione del mondo tradizionale, la vita era regolata da leggi alle quali tutti i membri dello stesso gruppo dovevano obbedienza. Non è mai sufficiente sottolineare come qualsiasi comunità tradizionale poteva mantenersi solo in conformità a un ordine gerarchico (1), sentito più come naturale esigenza che come forzata obbedienza. L’autorità discendeva dagli anziani, uomini dotati di una comprensione metafisica più profonda, i quali attribuivano compiti adatti alle personali inclinazioni incoraggiando ciascuno a vivere secondo la propria natura (2).
Ciò ai moderni suona come un’ingerenza indebita nel libero arbitrio; ma nel mondo tradizionale gli interessi comunitari sono sempre stati prioritari rispetto alle pretese del singolo. L’individualismo e l’egoismo, protagonisti della vita moderna, erano relegati nel campo delle perturbazioni dell’ordine.
L’appartenenza ad un clan era fondata sull’osservanza dei suoi riti e sullo stesso linguaggio, che permetteva lo sviluppo di un tessuto di usanze comuni. I suoi membri dunque, erano uomini liberi che vivevano e partecipavano, ciascuno in una diversa misura, ad un progetto comune. Per tali uomini accanto al condizionamento imposto dalle esigenze – ci riferiamo a necessità primarie, contrapposte ai continui pruriti che l’uomo moderno chiama “bisogni” – si sviluppava una visione del mondo permeata dal sacro; l’esercizio di arti e mestieri, oltre a differenziarli secondo le rispettive corporazioni di appartenenza, rinnovava quotidianamente i simboli e miti della propria etnia.
Esattamente il contrario di ciò che avviene nella moderna collettività; in essa si tende a realizzare un livellamento interiore; inoltre, per la moderna integrazione sociale, è imprescindibile accettare il linguaggio e le regole imposte dal sistema dominante, al di fuori delle quali esiste solo il ribelle, l’emarginato, l’anarchico senza bandiera, il terrorista.
Nei “tolleranti” regimi democratici si può confutare qualsiasi argomento, purché non si metta in discussione la validità della democrazia stessa, la cui radice proviene dal magma del mondo moderno. Sembra un concetto marginale, mentre è il nocciolo della questione.
Senza una revisione globale del “pensiero moderno” ci si muove sempre nel recinto che ci è stato costruito intorno, come un cane che si illude di essere libero, finché non prova a varcare i confini dello steccato.
Attraverso la menzogna dell’uguaglianza, viene perseguita una massificazione sociale e culturale, secondo l’asserto che «…tutti possono divenir tutto alla condizione di un certo addestramento e di una certa pedagogia,…» (3). Così il giovane alle soglie della pubertà, che si affaccia alla nostra “società democratica”, deve iniziare la sua ricerca d’identità e la sistemazione sociale, senza alcuna guida e in competizione con tutti. Ne consegue che, anziché esercitare un’arte o mestiere che sia la manifestazione della propria interiorità, si adatta ad un lavoro con il quale non sente alcun legame profondo (4), ma che è disposto ad accettare in cambio di un compenso economico. L’uomo si inserisce nella collettività nel momento in cui percepisce il primo stipendio, ma deve accettare la propria spersonalizzazione e l’assorbimento (5) in un apparato produttivo anonimo.
Tra i particolari mutamenti interiori che hanno spianato la strada alla telematica, un ruolo primario spetta all’individualismo. Nel nome di un culto dell’Io, si «rifiuta di ammettere ogni superiore autorità all’individuo, come pure ogni facoltà conoscitiva superiore alla ragione individuale» (6). L’individualismo dal 1789, in avanti, ha minato le basi della gerarchia (7)nel nome di una “insopprimibile” esigenza di libertà, ed ha assestato un attacco mortale ai principi tradizionali; motivo per cui si è affermata, di contro all’autorità legittima, un’oligarchia usurpatrice.
I fini dello stato moderno sono totalmente indifferenti, quando non ostili, alle “esigenze” della nazione. Ma questa considerazione non suscita alcuno scandalo, in quanto si è ormai radicata nell’opinione comune l’idea che il mondo è sempre stato campo di uno sfruttamento di forti sui più deboli e che, anche nei secoli precedenti, i regnanti abbiano sempre calpestato le necessità del popolo. Si tratta, in verità, di un preconcetto costruito dalla storiografia contemporanea, in gran parte filomassonica, preoccupata di mostrarci i sistemi del passato attraverso le lenti deformate del materialismo corrente, sì da neutralizzare la possibilità di trovare riferimenti alternativi al sistema attuale.
Di fatto, la nobiltà di un tempo era vicina alle esigenze dei cittadini più di quanto non si creda (8). Il disprezzo verso le classi contadini non è mai stato la norma per la vecchia aristocrazia terriera, che non disdegnava le consuetudini popolari, dove si riaffermavano i vincoli di una reciproca dipendenza (9).
Oggi la casta dominante, non ha bisogno del contatto con i cittadini, anche in ragione del fatto che nulla la accomuna alla gente; non legami di sangue, né vincoli sociali o religiosi. Essa esige un rapporto di natura esclusivamente economica. Per tale causa il cittadino la teme e la percepisce estranea al suo stile di vita, ma non le riconosce dignità.
Infine, la nobiltà tradizionale godeva, è vero, di grandi privilegi rispetto alla classe contadina, ma aveva anche l’onere di difenderla e di sacrificarsi nel nome di una comune sopravvivenza. La moderna oligarchia, invece, non si impone per naturale dignità, ma, riparata da governi fantocci, detta le sue regole ed esige una ferra obbedienza; scatena guerre, che altri combattono in sua vece e crisi che possono portare intere nazioni alla bancarotta, ma non scalfiscono minimamente né il suo potere economico, né gli immensi privilegi di cui gode.
(4 – continua)
Note
(1) «La ripartizione degli individui in caste, o gruppi equivalenti, secondo la loro natura e il diverso rango delle attività rispetto alla spiritualità pura, si ritrova con tratti costanti in ogni più alta civiltà tradizionale e costituisce l’essenza della legislazione primordiale e dell’ordine secondo giustizia.» (J. Evola – Rivolta contro il mondo moderno – pag. 120, La dottrina delle caste – Ed. Mediterranee Vª ediz. Roma 1978)
(2) «Riconoscendo la propria natura, l’uomo tradizionale riconosceva anche il proprio “luogo”, la propria funzione e i giusti rapporti di superiorità o inferiorità:…» (Julius Evola – Ibid., pag. 121)
(3) Julius Evola – (Ibid., pag 426.)
(4) «Nel lavoro industriale l’operaio non mette niente di se stesso, e d’altronde si avrebbe buona cura di impedirglielo qualora ne avesse la minima velleità; ma ciò non è neanche possibile, poiché tutta la sua attività consiste nel far funzionare una macchina; egli, del resto, è reso perfettamente privo di iniziativa dalla “formazione”, o meglio deformazione professionale ricevuta, la quale è come l’antitesi dell’antico apprendistato, e che ha per unico scopo quello di insegnargli ad eseguire certi movimenti “meccanicamente”… senza assolutamente che debba capirne la ragione…» René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. 8, pag. 63 “Mestieri antichi e industria moderna, Adelphi, Milano1982.
(5) «…Servitore della macchina, l’uomo tende a divenire macchina egli stesso, e il suo lavoro non ha più niente di umano,…» R. Guénon, Ibid.
(6) René Guénon – La Crisi del mondo moderno – pag. 90 – Ed. Mediterranee.
(7) Dal greco Hieràrkhês, “capo delle funzioni sacre
(8) «In una stampa del Cinquecento, a suo tempo molto diffusa, è raffigurato l’albero della società di cui i contadini rappresentano le radici, ma, risalendo di ramo in ramo, dalle classi inferiori a quelle più alte, anche la cima.» (Massimo Fini – La Ragione aveva torto, – Camunia – Brescia 1985)
(9) «Il signore feudale vive quindi in mezzo ai suoi contadini, ne condivide i problemi, partecipa alle stesse feste, alle stesse funzioni religiose, agli stessi giuochi, ha le stesse abitudini pubbliche e private,… e nelle scuole rurali i bambini dei signori e i bambini dei contadini….. siedono fianco a fianco».(M. Fini – Ibid.,)
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