Ci è capitato, tempo fa, di sentire un politico — presidente di regione — dichiarare in tono di rimprovero che “la gente non ha paura di morire!”; attribuendo a questa constatazione un giudizio negativo: come se l’aver paura di morire fosse una condizione ideale ed auspicabile. Se possiamo comprendere le ragioni bassamente utilitaristiche di una simile affermazione, utile a consolidare il potere attraverso lo spargimento del terrore e dell’insicurezza fisica fra i cittadini amministrati, non possiamo comunque giustificarla dal punto di vista etico e morale, per non voler qui evocare argomentazioni di tipo spirituale, che non rientrano affatto nell’ottica, nella sensibilità e nella pochezza del personaggio in questione e dei suoi “complici”.
Il fatto è che se si supera la paura della morte si diventa imbattibili e inattaccabili, anche dalla peggiore tirannia. Perché i ricatti del potere non hanno presa su un cuore impavido, anzi ne rafforzano la tenuta e la stabilità, innalzandolo al di sopra delle piccole miserie quotidiane, e aprendogli prospettive veramente degne di un Uomo. Ogni potere legittimo e rettamente fondato ha sempre cercato il sostegno e la collaborazione di persone coraggiose, mentre gli impostori e gli usurpatori si circondano e possono fidarsi solo di servi paurosi e in ogni momento ricattabili. Già basta questo per esprimere un giudizio inappellabile sulla società attuale e sulla legittimità dei suoi governanti. Società in cui l’idea stessa della morte è stata rimossa, negandogli il ruolo di inseparabile “compagna di viaggio” per ogni essere vivente. Nella società attuale, invece, essendogli lasciato solo il ruolo di spauracchio da sventolare, alla bisogna, a mo’ di minaccia…
E dire che basterebbe veramente poco per sentirne la presenza ed entrarci in confidenza, facendone tutti quanti noi quotidiana pratica nella “misteriosa esperienza” che giornalmente viviamo al momento di addormentarci: sprofondando nel sonno e inoltrandoci nel mondo dei sogni, per passare da uno stato di coscienza ad un altro. Se, infatti, allo stato di veglia, comune a tutti gli uomini e nel quale si esercita l’attività degli organi e delle facoltà grossolane umane,corrisponde il corpo e la nostra manifestazione esteriore; al sogno, nel quale hanno campo libero le modalità extracorporee dell’individualità,corrisponde l’anima e il mondo delle manifestazioni sottili; mentre il sonno profondo, senza sogni, che introduce agli stati sopra-individuali dell’essere, sottraendosi alla prigionia del corpo e ritirandosi lo stesso senso interiore per diventare Uno, coincide con lo Spirito e con il ricongiungimento al Principio e a Dio. E cos’altro è questo se non un fare giornalmente esperienza diretta di quel transitus rappresentato proprio dalla morte, essendo metafisicamente la morte un cambiamento di stato, alla pari e a completamento della nascita individuale?
Il fatto stesso che un sonno veramente profondo, per quanto non necessariamente lungo, determini al risveglio un senso di riposo e di accumulo di energie necessarie ad affrontare la nuova giornata, è indice del potere rigenerativo che comporta l’essere stati ospiti “nella Casa del Padre”, in cui ci si è veramente svincolati da ogni affanno e preoccupazione fisica e mentale, sottraendosi per un breve periodo alle condizioni di spazio e tempo; che, di fatto, nello stato di sogno cessano di valere. Mentre talvolta il dormiveglia continuo e irrisolto degli stati d’insonnia possono veramente determinare una spossatezza superiore a quella di prima di coricarsi.
Secondo la legge di analogia e di corrispondenza, noi possiamo considerare la giornata tipo di ogni essere umano come una rappresentazione sintetica della sua intera esistenza, al pari del ritmo annuale delle stagioni: il risveglio corrispondendo alla nascita, le diverse fasi del giorno allo sviluppo della sua vita terrena, e, infine, il sonno alla morte e l’addormentarsi al morire. Determinando il “modo” in cui si è vissuta ogni singola giornata l’esito finale del “sonno definitivo”. Durante il sonno non è possibile alcun progresso interiore o l’acquisizione di alcuna esperienza, essendo questi di esclusiva pertinenza dello stato di veglia, il vero campo di battaglia dove ognuno ha la possibilità di giocarsi le proprie opportunità realizzative; mentre nel sogno, al massimo, sarà possibile accedere ad intuizioni e preveggenze altrimenti precluse dal dominio del corpo e della psiche. E forse sarebbe da rimandare a simili considerazioni il modo di dire — apparentemente moralistico — che “chi dorme non piglia pesci”!
Non per nulla, tutte le tradizioni hanno sempre dedicato una particolare attenzione all’atto di addormentarsi, raccomandando particolari accorgimenti e determinate prescrizioni (un breve esercizio fisico, il regolare la respirazione, le abluzioni rituali, le letture, le preghiere e le meditazioni appropriate, oppure l’esame di coscienza e la revisione degli atti compiuti durante la giornata), al fine di accedere allo stato di sogno con una presenza e consapevolezza che renda quanto più possibile attivi in quella anticipazione del percorso post mortem che tutti dovremo prima o poi affrontare. Essendo l’atteggiamento abbandonato, passivo, stanco, spossato e tamasico che si ha di fronte all’avvicinarsi del sonno altrettanto deleterio di fronte all’avvicinarsi della morte. Come ci insegna Porfirio: «Liberare l’anima da ogni passione malvagia, frenare i trasporti, bandire l’invidia, l’odio e la collera al fine di possedere la sapienza quando si esce dal corpo»; mantenendo la medesima presenza a se stessi sia nel sonno che nella morte.
La separazione definitiva degli elementi costitutivi dell’uomo (fisico, psichico e spirituale), i quali si separano solo provvisoriamente durante l’esperienza quotidiana dell’addormentarsi, corrisponde alla morte corporale. La sola che conoscono i nostri contemporanei e che tanto li spaventa. Ignorando costoro che il terrore istintivo della morte assume un senso spirituale esclusivamente in forza di un pensiero che trascenda l’immediatezza naturale di quell’angoscia e sappia concepire la morte in funzione della Vita. Ma ciò non significa che ad ognuno di essi spetti il medesimo destino. Tutt’altro! Infatti tutte le tradizioni hanno sempre parlato di “due vie dell’oltretomba”. Esistendo una eccezionale morte trionfale (destinata agli eroi), e una più generale dissoluzione nell’ombra (propria dell’uomo comune), «ove è freddo e stridor di denti».
Nel Bardo Todol (il “Libro tibetano dei morti”, vero e proprio manuale d’istruzione per l’essere che compie il viaggio definitivo), vengono a tal proposito indicate alcune azioni decisive per l’ulteriore destino del defunto, qualora però questi abbia già raggiunto in vita un certo grado di “conoscenza”, durante il quotidiano stato di veglia dell’esistenza personale. Qualificazioni legate alla capacità di concentrare e fissare la mente, l’immaginazione, l’intrepidezza, la capacità di padroneggiare l’angoscia, il terrore, il desiderio o l’avversione, di “gelare” ogni reazione istintiva dal profondo. La concentrazione nel Principio mantiene l’unità di coscienza attraverso i vari cambiamenti di stato. Rimozione dell’illusione di ogni dualità. Esperienza dell’Essere allo stato puro, abbagliante, travolgente, radiosamente terrifico, al quale bisogna avere la capacità di identificarsi per raggiungere la Grande Liberazione; altrimenti, a causa dell’ignoranza, tale possibilità va perduta. Si presentano allora tutta una serie di possibilità secondarie, meno pure e informali, come figure divine (ognuna ispirata dalla religione d’appartenenza), fantasmagorie di forme e paesaggi, dèmoni vari, oggetti del desiderio e via… discendendo. A tale caduta e perdita di possibilità c’è, comunque, sempre l’eventualità di reagire — avendone le capacità — frenando la mente, non cedendo alle emozioni e ricordandosi il proprio reale destino.
L’essere desti è, dunque, la condizione da ricercare assiduamente e senza sosta, onde rendere effettivo il RISVEGLIO cui alludono numerose tradizioni come sinonimo dell’immortalità; tramite la concentrazione nella semplicità di un atto che diventi fiamma che arde, al di là di ogni tenebra interiore e oscuramento intellettuale, significativamente rappresentati dalla stanchezza e dall’abbandono al sonno, ai quali riesce a sfuggire e sottrarsi solo il Guerriero dello Spirito, col suo coraggio e l’offerta sacrificale di se stesso.Restando, come ci ricorda Abdul-Hâdi, ogni momento «in guardia contro coloro che ci vogliono invitare al turbamento, giacché si segue la “Via interiore” per arrivare alla pace e non all’agitazione».