È noto lo stretto rapporto analogico che unisce l’organismo umano e l’organismo sociale, dove la relazione proporzionale (sorta di mappa riassuntiva di un territorio più vasto) mostra delle affinità molto strette fra i due elementi in questione: i fenomeni e i processi fisiologici che interessano le singole persone trovandosi riprodotti, in una scala più ampia, nelle società da queste costituite. Per quanto non sia comunque possibile assimilare automaticamente l’essere vivente alla collettività, dato che il primo ha insito in sé il principio di unità, mentre la seconda è caratterizzata essenzialmente dalla molteplicità; superabile solo nel momento in cui al suo vertice operi — al pari dell’essere umano centrato nell’assoluto — una legittima autorità spirituale: la sola in grado di trasformare un agglomerato informe di individui in una comunità di destino.
Nel suo famoso apologo sullo stomaco e le membra che devono lavorare insieme per garantire la salute di tutto il corpo, usato da Menenio Agrippa per convincere la plebe romana ad interrompere la secessione sull’Aventino (da sempre luogo deputato, significativamente, ad accogliere le peggiori istanze dissolutive ed antitradizionali!), quest’analogia è mostrata in modo palese.
Se la bellezza del corpo umano, assicurata dalle giuste proporzioni delle membra e di ogni sua parte visibile, coincide con l’efficienza e la padronanza delle proprie facoltà spirituali, la singola persona si trova nelle condizioni ideali per realizzare pienamente la propria natura. Allo stesso modo, una società incentrata sui valori spirituali, l’armonia fra le sue diverse componenti, l’igiene fisica e ambientale delle cose e dei luoghi, la giustizia nei rapporti fra sudditi e potere, l’osservanza volontaria da parte di ognuno delle leggi che trascendono i singoli tornaconti personali, in vista dell’interesse comune e della prosperità generale, crea le condizioni per il raggiungimento del massimo benessere per l’intera collettività.
Del resto — sia negli individui che nelle società — il ritirarsi dello Spirito coincide col venir meno della loro stessa ragion d’essere e, di conseguenza, con la morte. La quale morte comporta degli evidenti segni fisiologici nell’organismo umano (rigidità cadaverica e decomposizione delle varie parti del corpo); mentre nelle società allo stato terminale e in via di estinzione, come la nostra attuale, accade qualcosa di simile, per quanto queste continuino a mostrare (nella loro scomposta agitazione) una apparente ma fittizia vitalità.
In entrambi si assiste, comunque, al comune proliferare di parassiti e microrganismi che svolgono una funzione distruttiva, la maggior parte dei quali provenienti dall’interno dello stesso organismo attaccato. E, proprio nel momento in cui ogni segno di vita scompare, c’è qualcuno o qualcosa che da quello scempio trae nutrimento e vigoria. Se nell’organismo umano questo si limita, in fondo, ad un comprensibile processo naturale, che nelle diverse civiltà si è sempre cercato di contenere e neutralizzare attraverso l’inumazione, la mummificazione o la cremazione; nella società i parassiti che pasteggiano allegramente sulle sue spoglie sono meno giustificabili e legittimati. Trattandosi di quanti hanno rotto ogni vincolo di fratellanza ed ogni rapporto di solidarietà, per affermare interessi egoistici o, ben retribuiti, asservimenti esterni: dagli alti vertici politici, governativi ed imprenditoriali, fino all’ultimo “pidocchio” o “larva” operanti nel mondo dell’informazione, della giustizia, o anche solo della pubblica amministrazione.
E se la bellezza sacra della vita, sotto ogni forma e in ogni sua manifestazione, suscita ammirazione e apprezzamento in coloro che sono ancora dotati di sani sentimenti e di retti principi; i prodotti della morte, non possono che suscitare ripugnanza ed inconciliabile contrapposizione nell’uomo della Tradizione. Unico rimedio possibile essendo, nel caso della putrefazione sociale, se si escludono l’inumazione e la mummificazione, solo un salutare e definitivo “fuoco distruggitore”.