Nella cultura contadina di alcune regioni d’Italia il termine sanare è direttamente associato alla castrazione: “sanare i porci”; operazione utile a favorire il più possibile l’ingrasso della bestia, rendendone più pregiata e tenera la carne, togliendogli al contempo qualunque esigenza e velleità di accoppiamento sessuale, rendendoli così docili e mansueti. C’è, in effetti, una tragica ironia nell’associare un termine che dovrebbe avere a che fare con la salute (“rendere sani”), con una pratica mutilante, ma tale azione acquista un suo significato utilitaristico, conveniente e funzionale nel momento in cui si riduce la vittima di tale procedimento a carne da macello.
Come si sa, nella favola filosofica La fattoria degli animali di George Orwell — racconto che fonda e proietta nell’immediato futuro i presupposti sociologici di quello che sarà l’incubo poi narrato in 1984 — i protagonisti principali del racconto sono proprio i maiali, che qui però assumono il ruolo di carnefici e finiscono per instaurare la loro dittatura sugli altri animali della fattoria. Questa rappresentazione allegorica dell’allora imperante dittatura comunista nell’Unione Sovietica, risulta particolarmente convincente e incisiva nel momento in cui mostrava la passiva acquiescenza e remissività da parte delle stesse vittime verso i loro nuovi aguzzini e sfruttatori. E questo viene magistralmente rappresentato da Orwell tramite il ruolo delle pecore che, una volta che riescono a imparare a memoria il motto dettato dai loro nuovi governanti, «si affezionarono molto a questo slogan e spesso, accucciate nel campo, cominciavano a belare tutte in coro: “Quattro gambe buono, due gambe cattivo! Quattro gambe buono, due gambe cattivo!”», andando avanti per ore e ore, instancabili.
Di fatto, questa entusiastica collaborazione delle vittime con i loro carnefici — ai quali vengono attribuiti sinceri interessi per il benessere dei loro sudditi — rappresentano una costante di tutti i regimi tirannici e dittatoriali: di ieri, ma soprattutto di oggi. Salvo rendersi conto troppo tardi che le cose non stanno proprio come gli vengono raccontate dalla propaganda di regime. Come succede proprio agli animali della fattoria orwelliana, nel finale del racconto, quando: «Non c’era più alcun dubbio su ciò che era successo alla faccia dei maiali. Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro».