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Fedeli cani da guardia

In condizioni estreme e nel corso di crisi drammatiche (quale può essere una guerra o un disastro naturale), succede spesso che si verifichi un inevitabile svelamento delle autentiche nature umane, in considerazione del crollo del paravento che nasconde il vero volto delle persone. È, più o meno, quello che avviene quando si cade inaspettatamente o si prende uno scivolone, con l’esplosione di reazioni immediate – nei gesti, nelle espressioni verbali e in tutte le componenti psichiche e corporee del malcapitato –, dettate dall’istinto e, quindi, incontrollabili. A qualcosa del genere stiamo assistendo in questi tempi tristi di presunta pandemia, a cominciare da una categoria particolarmente utile e funzionale alla diffusione del verbo ufficiale del potere politico e scientifico che sta disponendo a suo piacimento delle nostre vite: i giornalisti accreditati.   

Nelle periodiche comunicazioni “dispositive” del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dove ogni volta vengono accordate ai sudditi speranzosi striminzite concessioni, accompagnate da robuste e minacciose intimidazioni – giusto per confermare il sempre vincente metodo del bastone e della carota –, quello che salta all’occhio in modo evidente è la finzione della sceneggiata finale, quando Conte mostra di rispondere alle finte domande (chiaramente concordate) con i giornalisti invitati a fargli da “spalla”. Queste penose esibizioni confermano, al contempo, l’assoluta codardia e incapacità dell’intervistato (cauto trapezista che volteggia su una robusta rete di protezione), e l’indecoroso servilismo degli intervistatori, attentissimi nell’escludere a priori domande scomode e nel leccare la mano di chi, in un modo o nell’altro, contribuisce a garantirgli contorno e companatico.

Ma, in ogni caso, questa vocazione servile e accondiscendente affligge tutta quanta la categoria giornalistica (dalle reti televisive nazionali alla carta stampata, senza eccezioni), cui è affidata la narrazione “certificata” dell’emergenza coronavirus. Che quella del giornalista fosse una figura di cui è, nella maggior parte dei casi, meglio diffidare e prendere le distanze, era noto a chiunque disponesse di una dose minima di buon senso. Qualcuno di loro per sincera convinzione, ma tutti quanti per calcolata e remunerata convenienza sono da sempre portati ad attaccare il loro cavallo al carro del padrone, che non è (quasi) mai estraneo al sistema di potere che gestisce gli avvenimenti politici e sociali, a livello mondiale. Quindi, c’è poco da farsi il sangue amaro e maledirne l’operato: da costoro non ci si può attendere nulla di diverso di quello che fanno.

Anche perché, come già a suo tempo insegnava Aristotele, vi sono uomini che si distinguono dai loro simili per l’attitudine ossessiva e assillante al tornaconto personale, per cui le loro attenzioni non possono oltrepassare le attività materiali, avendo essi l’«animo servile»; questi sono naturalmente subordinati, e ad essi è profittevole uno stato di soggezione. Insomma, come confessava un altro, anch’esso indegno e non all’altezza del ruolo ricoperto: «chi il coraggio (e, potremmo aggiungere, la libertà interiore) non ce l’ha, non se lo può dare!». Essendo la schiavitù una condizione insita e innata in coloro che sono prigionieri delle loro passioni, ci saranno sempre un numero prevalente di individui riconducibili a tale stato, a prescindere dalle norme legislative che ne prevedano o meno l’istituzione e la pratica.


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