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Quante storie!

La campagna lanciata dal quotidiano Repubblica titolata “La storia è un bene comune”, per protestare contro la riduzione delle ore dedicate allo studio della storia nei programmi scolastici e l’eliminazione della traccia di storia dall’esame di maturità, ha raccolto l’adesione dei soliti noti pensatori sinistri, ma non solo. La gran parte di costoro, essendo in flagrante conflitto d’interesse, non sono per niente credibili quando si stracciano le vesti per difendere la funzione educativa dello studio della storia, attribuendo alla materia con la quale essi sbarcano il lunario le caratteristiche di una scienza positiva. È invece abbondantemente dimostrato che la storia, essendo scritta dai vincitori di turno, è la descrizione meno fedele possibile della realtà, prevalendo in essa le tendenze e le modalità della visione del mondo propria di coloro che la scrivono. E l’iniziativa mostra già tutta la sua doppiezza e parzialità nelle parole iniziali del documento programmatico, quando si afferma che: «La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione».

Certo, si trattasse ancora di quella che Cicerone nel suo “De Oratore” chiamava: «Historia testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (“La storia è testimonio dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità”), si potrebbe anche essere d’accordo con la campagna di Repubblica. Ma considerando l’assoluta parzialità da essa assunta già a partire dai primi moti rivoluzionari e socialisti europei dell’800, in cui la storiografia sapientemente manipolata ha fatto da sfondo all’azione distruttiva delle forze della sovversione alla luce di premesse esclusivamente economiche e materialistiche, presentando come un progresso politico e sociale quello che ha invece rappresentato una fuga precipitosa e crescente verso la deriva antiumana e catastrofica finale, (dove la qualificazione di medioevale, per esempio, è diventato un insulto) la sua soppressione totale dall’insegnamento scolastico non potrebbe che essere salutare e rigeneratrice per la libertà di pensiero nei giovani.

Il “bene comune” di cui cianciano costoro è quello che si cerca di imporre attraverso legislazioni sempre più restrittive e discriminatorie, mandando a quel paese l’auspicato (a parole) dialogo e il rifiuto del conformismo, per imporre, oggi come ieri, i loro “venticinque aprili”: nell’Iraq di Saddam, nella Libia di Gheddafi, nella (per ora fallito!) Siria di Assad, e nelle prossime (Dio non voglia!) Venezuela e Iran. Tutti avvenimenti che la loro storiografia ci presenterà ancora una volta a modo loro, senza margine di discussione e senza possibili alternative d’interpretazione.


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