Cronache del Satya Yuga
Molti, con disgusto (o compiacimento) elencano i mali dell’epoca presente, i suoi fatti e le sue situazioni aberranti e credono così di prenderne le distanze, di esserne in qualche modo giudici o censori. Realizzando una sorta di “cronaca del Kali Yuga” ci si illude di essere estranei al male, di circoscriverlo, immuni, di vincerlo, come se un borbottio moralistico fosse veramente in grado di fare qualcosa…
Non vogliamo di certo fare noi stessi del moralismo, affermando che “siamo tutti coinvolti” o ancora peggio “siamo tutti responsabili”. Piuttosto intendiamo evidenziare dell’altro, a un livello differente, più sovrastorico, che però ha un riflesso di carattere propriamente pratico e militante.
Fatalmente si vive in un determinato contesto e esserne avulsi è in ogni modo velleitario nonché impossibile. Ma in che misura chi difende la Tradizione sarebbe in grado di prendere le distanze dall’epoca attuale, di distaccarsene completamente e realmente?
In che misura se ne è rimasti ancora affezionati? Fino a che punto si è mantenuto il radicamento in essa?
Spieghiamoci meglio. Ci si immagini un momento di dover stilare delle cronache del Satya Yuga, l’età dell’oro, l’era della pace e dell’ordine primordiale: ci si troverebbe di fronte a una serie di non-eventi, un nulla narrativo, un foglio bianco. Quanti potrebbero apprezzare una cosa del genere? Quanti non sentirebbero un’insopportabile senso di vuoto, di noia? Eppure non stiamo parlando di un’epoca morta, ma anzi di somma vita, anche se per noi oggi inconcepibile.
Però quanto rimpianto ci sarebbe per l’epoca attuale, per un mondo “interessante”, in cui “succede qualcosa” (del resto per molti l’inferno è molto più vivace del paradiso). Tendenza naturale, anche se molto indicativa di come ancora permangano scorie personali difficili da eliminare, riguardanti l’attaccamento non solo al mondo ma anche all’azione e ai frutti della medesima. Attaccamento che è prima di tutto identificazione, immedesimazione, cioè personificazione, legame egoico, perdita sognante nella corrente samsarica, nella maya.
Ma, se è vero che “chi sacrifica a un dio diverrà il nutrimento di questo dio”, è in primo luogo fondamentale portare all’estinzione simili attitudini, con il distacco sia da ciò per cui si lotta sia dall’avversario contro cui si lotta. Maturando una giusta indifferenza si sarà già raggiunta una sorta di disidentificazione, di liberazione dai vincoli del presente così come da tutte le sue implicazioni. Quando l’“io” diminuisce la sua importanza sarà inevitabilmente il Sé a ritestimoniare nuovamente la sua presenza. Nella Bhagavad-Gita Krishna e Arjuna sono sopra lo stesso carro, che rappresenta il “veicolo” dell’essere inteso nel suo stato di manifestazione; e mentre Arjuna combatte, Krishna conduce il carro senza combattere, cioè senza essere lui stesso impegnato nell’azione. Il campo dell’azione non coinvolge quindi l’essere principale, permanente e immutabile, ma riguarda solo l’“anima” vivente individuale (1).
L’inazione può quindi conciliarsi con l’azione, se supportata da principi e ben consapevole del suo effettivo significato. Come si sarà compreso, non vogliamo di certo invitare al pacifismo, al relativismo o alla famigerata tolleranza. Si perseveri quindi nella lotta, tenendo però ben presente che non solo vittoria e sconfitta sono frutti contingenti, ma che distacco e impersonalità sono indispensabili affinché ciò su cui non possiamo nulla, nessun potere abbia su di noi.
([1]) Cfr. R. Guénon, Atma-Gita, in Études sur l’Hindouisme, Paris, Éditions Traditionnelles, 1989.