Stato di povertà
Questo testo di George Orwell (autore del sempre più attuale “1984”), è tratto dal romanzo “Senza un soldo a Parigi e a Londra”, dove egli descrive il suo soggiorno parigino, tappa obbligata per chiunque all’epoca coltivasse velleità letterarie, dalla primavera del 1928 alla fine del 1929, quando ebbero luogo le vicende qui narrate. Le condizioni di miseria qui descritte sembrava dovessero far parte del passato; ma, avendo nel frattempo la globalizzazione selvaggia, spacciata per opportunità e garanzia di benessere generalizzato, creato le premesse per un ulteriore e definitivo impoverimento dell’intera popolazione mondiale, enormemente aggravata dall’emergenza pandemica in corso, potrà risultare utile e istruttiva la descrizione della precedente povertà; la quale, se non altro, poteva ancora contare su una pur minima rete comunitaria, dove i rapporti umani conservavano un fondamento etico, morale e religioso oggi definitivamente cancellati dall’egoismo individualistico che affligge e avvelena i rapporti interpersonali.
Abitai in rue du Coq d’Or per circa un anno e mezzo. Un giorno d’estate scoprii che mi restavano solo quattrocentocinquanta franchi oltre ai trentasei franchi alla settimana che guadagnavo dando lezioni d’inglese. Fino a quel momento non avevo pensato al futuro, ma ora mi resi conto che dovevo fare immediatamente qualcosa. Decisi di cominciare a cercare un lavoro, e per mia grande fortuna, come poi risultò, presi la precauzione di pagare in anticipo l’affitto di un mese: duecento franchi. Con gli altri duecentocinquanta e le lezioni d’inglese potevo vivere un mese, e in un mese probabilmente un lavoro lo avrei trovato. La mia idea era quella di fare la guida turistica, o magari l’interprete, ma mi fu impedito dalla cattiva sorte.
Un giorno capitò all’albergo un giovanotto italiano che diceva di essere tipografo. Era un individuo piuttosto ambiguo, perché portava le basette, che sono il contrassegno o dell’apache o dell’intellettuale, e nessuno sapeva con sicurezza in quale categoria collocarlo.
A Madame F. non andò a genio la sua faccia e gli fece pagare una settimana di affitto anticipata. L’italiano pagò e rimase all’albergo sei notti. Durante questo periodo riuscì a fare i duplicati di alcune chiavi e l’ultima notte svaligiò una dozzina di stanze, fra cui la mia. Per fortuna non poté prendere quel po’ di denaro che avevo in tasca, così non restai completamente al verde: mi rimasero quarantasette franchi esatti, vale a dire sette scellini e dieci penny.
Questo incidente pose termine ai miei progetti di cercar lavoro. Ora mi trovavo a dover vivere con circa sei franchi al giorno, e fin dal principio mi riuscì troppo difficile dedicare ad altro anche una sola parte dei miei pensieri. Fu allora che feci conoscenza con la miseria, perché sei franchi al giorno, se non sono proprio la miseria nera, le vanno molto vicino. Sei franchi corrispondono a uno scellino, e a Parigi con uno scellino al giorno si può vivere, se ci si sa fare, ma è tutt’altro che semplice.
Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’abiezione della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie.
Scoprite per esempio la segretezza che si accompagna alla miseria. Tutt’a un tratto, di colpo, vi trovate con un’entrata di sei franchi al giorno. Naturalmente non avete il coraggio di dichiararlo, dovete far finta di vivere come al solito. Fin dall’inizio vi trovate ingarbugliati in una rete di menzogne, e anche con quelle ve la cavate male. Smettete di portare gli abiti in tintoria: la padrona del negozio vi sorprende per strada e vuole sapere perché; voi borbottate qualcosa, e lei, convinta che li mandiate altrove, vi diventa nemica per la vita. Il tabaccaio insiste per sapere come mai fumate meno. Ricevete lettere alle quali vorreste rispondere e non potete, perché i francobolli sono troppo cari. E poi ci sono i pasti, che rappresentano la difficoltà maggiore. Ogni giorno all’ora dei pasti voi uscite, come se andaste al ristorante, e bighellonate per un’ora ai giardini del Luxembourg, guardando i piccioni. Dopodiché il pasto ve lo portate a casa nascosto in tasca. Consiste in pane e margarina o pane e vino, e anche la qualità dei vostri pasti è all’insegna delle bugie: dovete comprare pane di segala invece di quello casareccio, sebbene costi di più, perché lo fanno in forme rotonde che stanno in tasca, e questo vi fa sprecare un franco al giorno. A volte, per salvare le apparenze, siete costretti a spendere sessanta centesimi per qualche bevanda, e di nuovo il vitto ne risente. La biancheria diventa lurida, e voi siete a corto di sapone e di lamette da barba. I vostri capelli hanno bisogno di essere tagliati e cercate di tagliarveli da soli, con risultati così spaventosi che dal barbiere ci dovete andare lo stesso, spendendo l’equivalente del vitto di una giornata. Tutto il giorno dite bugie, e bugie costose.
Scoprite l’estrema precarietà dei vostri sei franchi giornalieri: accadono ignobili disastri che vi depredano del vostro cibo. Avete speso gli ultimi ottanta centesimi per mezzo litro di latte e siete lì che lo fate bollire sul fornello a spirito. Mentre bolle, una cimice vi corre giù per il braccio; con l’unghia le date un colpetto e, plap, lei cade dritta nel latte. Non vi rimane che buttare via il latte e saltare il pasto.
Anche dal panettiere per comprare mezzo chilo di pane e state aspettando che la ragazza ne tagli mezzo chilo per un altro cliente. Non è pratica e ne taglia un po’ di più. «Pardon, monsieur» dice, «non importa, vero, se sono due soldi in più?» Mezzo chilo di pane costa un franco e voi avete esattamente un franco. Al pensiero che anche a voi potrebbe chiedere di pagare due soldi in più e che dovreste confessare di non averli, presi dal panico vi date alla fuga. Passano ore prima che vi venga il coraggio di rientrare in una panetteria.
Andate dal fruttivendolo per spendere un franco in un chilo di patate. Ma fra le monete che costituiscono il vostro franco ce n’è una belga e il fruttivendolo la rifiuta. Sgattaiolate via dal negozio e non potete più rimetterci piede.
Distrattamente siete andato a finire in un quartiere rispettabile e vedete avanzare verso di voi un amico facoltoso. Per sfuggirlo v’infilate nel primo caffè. Una volta dentro siete costretti a prendere qualcosa, così spendete i vostri ultimi cinquanta centesimi per un bicchiere di caffè con una mosca morta dentro. Questi drammi si potrebbero moltiplicare per cento: fanno parte della condizione del povero.
Scoprite che cosa vuol dire avere fame. Con pane e margarina nello stomaco uscite e guardate le vetrine. Enormi, dispendiose cataste di cibi v’insultano da ogni parte: porchette intere, ceste di pagnottelle calde, grandi blocchi gialli di burro, collane di salsicce, montagne di patate, forme di groviera grandi come macine. Davanti a tutta quella roba siete assaliti da una sorta di patetica autocommiserazione. Vi proponete di arraffare un panino, scappare e ingollarlo prima che vi prendano; e se vi trattenete è solo per fifa.
Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria; non avete niente da fare, e siccome siete denutrito non riuscite a interessarvi a niente. Per intere mezze giornate ve ne state a letto, con l’impressione di essere il jeune squelette (1) della poesia di Baudelaire. Nient’altro che il cibo potrebbe scuotervi. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio.
Questa è la vita che si conduce con sei franchi al giorno, e si potrebbe continuare per un pezzo a descriverla, ma è sempre la stessa. A Parigi, migliaia di persone fanno una vita simile, artisti e studenti permanentemente in lotta, prostitute in declino, disoccupati di ogni genere. È, per così dire, la periferia della miseria.
Andai avanti così per circa tre settimane. I quarantasette franchi sfumarono presto e io dovevo arrangiarmi con i soli trentasei settimanali delle lezioni d’inglese. Non avendo molta esperienza, gestivo malamente il mio denaro, e certe volte stavo un’intera giornata senza mangiare. Quando succedeva, andavo a vendere qualche indumento, portandolo fuori dall’albergo nascosto in un pacchetto. Andavo da un rigattiere di rue de la Montagne Sainte Geneviève. Era un ebreo con i capelli rossi, antipaticissimo, che alla vista di un cliente andava su tutte le furie. A giudicare dal suo comportamento, si sarebbe detto che entrando nel suo negozio lo si offendesse. «Merde!» urlava, «ancora qui lei? Che cosa crede di trovare? La mensa dei poveri?» E pagava tremendamente poco. Per un cappello che mi era costato venticinque scellini e che non avevo messo quasi mai mi diede cinque franchi; per un buon paio di scarpe cinque franchi; per le camicie, un franco l’una. Preferiva sempre il baratto all’acquisto, e aveva un modo tutto suo di ficcare in mano ai clienti qualche oggetto inutile, pretendendo che l’avessero chiesto loro. Una volta lo vidi portar via a una vecchia un ottimo cappotto, metterle in mano due palle bianche da biliardo e poi spingerla in fretta fuori dal negozio prima che lei potesse protestare. Sarebbe stato un piacere rompergli il muso, all’ebreo, a poterselo permettere.
Furono tre squallide settimane di disagio ed evidentemente il peggio doveva ancora venire, perché di lì a poco sarebbe scaduto l’affitto. E tuttavia le cose furono di gran lunga meno tragiche di quanto mi aspettassi. Infatti, quando si è prossimi alla completa miseria, si fa una scoperta di fronte alla quale altre hanno meno importanza. Si scoprono la noia, e le meschine complicazioni e i primi morsi della fame, ma si scopre anche la grande capacità di redenzione della miseria: il fatto che essa annulla il futuro. Entro certi limiti è proprio vero che meno denaro si ha, meno ci si preoccupa. Quando si hanno cento franchi, si è soggetti ai più vili timori. Quando se ne hanno solo tre si è del tutto indifferenti, perché tre franchi vi nutriranno fino a domani, e col pensiero non riuscite ad andare oltre. Siete preda della noia, ma non della paura. Pensate vagamente: «Fra un paio di giorni morirò di fame; terribile, non è vero?». E poi la vostra mente se ne va altrove. Una dieta a pane e margarina, entro certi limiti, è di per se stessa un calmante.
E c’è un’altra sensazione che dà grande conforto nella miseria: una sensazione che tutti quelli che sono stati poveri in canna hanno provato, credo. È la sensazione di sollievo, quasi di piacere, che dà il sapersi, infine, veramente allo stremo. Tante volte si è parlato di andare in rovina; ed ora eccola qui la rovina, ci si è arrivati e si è in grado di sopportarla. E questo elimina un sacco di angosce.
George Orwell
1) Orwell si riferisce ai seguenti versi della poesia Spleen di Charles Baudelaire: «Il suo letto gigliato si trasforma in sepolcro, / e le dame d’intorno, per le quali ogni principe è bello, / non san più che impudica toilette trovare / per cavare un sorriso a quel giovane scheletro».