In ricordo di Augustin Cochin
Esattamente un secolo fa l’8 luglio 1916, moriva sul fronte della Somme, per le ferite riportate in battaglia Augustin Cochin, uno dei più importanti ma meno conosciuti storici della Rivoluzione francese.
Nato nel 1876 da una facoltosa famiglia dell’alta borghesia parigina, si forma come storico alla École des Chartes, per poi dedicarsi allo studio del periodo rivoluzionario. La sua ricerca fu sempre indipendente, in contrasto con le interpretazioni comuni e ufficiali che, ormai cristallizzatesi in forme fisse, avevano formato quell’immagine mitologica che in parte ancora oggi permane.
Pur utilizzando gli strumenti messi a disposizione dalla nuova disciplina della sociologia, Cochin segue la strada già tracciata da Hippolyte Taine un quarto di secolo prima, il quale, dati alla mano, aveva iniziato a presentare un quadro decisamente meno celebrativo degli eventi di quel periodo. Cochin intraprende la sua indagine occupandosi di fatti minuti, locali (come la campagna elettorale del 1789 in Borgogna), più piccoli ma estremamente significativi, utili come elementi per la definizione di un quadro d’insieme più concreto e preciso. E quello che riesce a scoprire è una intesa misteriosa, un legame che unisce uomini e luoghi lontani, apparentemente senza rapporti.
Un potere che sembra non esistere, ma che in realtà si può intravedere dalle tracce che lascia, dalle azioni che determina, dagli uomini che muove.
È il complotto? No, è la meccanica.
Non è una congiura consapevole e unanime quella che si scopre, ma un sistema ingegnoso, una prassi di utilizzo dei vari elementi umani che opera sui soggetti e li sfrutta, con o senza il loro consenso, tramite un’influenza discreta che suggerisce, indica, senza mai rivelarsi.
Sono singolarità quelle che agiscono, ma singolarità coordinate, unite da invisibili legami, fili che sembrano reggere il tutto; li muovono le società di pensiero, poco importa se segrete o meno, ogni società essendo segreta nella misura in cui vuole agire su un’opinione profana senza farsi notare o dissimulando i suoi obiettivi. La macchina arruola, ingloba, agisce muovendo i fili, riuscendo a convincere le cerchie esterne anche senza mostrare la propria esistenza o i propri veri scopi. Tutti gli eventi di quel periodo sono contraddistinti da medesime caratteristiche: non vi è mai nulla di spontaneo, ma sempre un moto determinato, preciso, omogeneo.
Cochin analizza i documenti del periodo: “nello stesso istante, in province separate da costumi, interessi, regimi, dialetti, per non parlare delle dogane e delle strade cattive, si notano le stesse iniziative. Nel novembre 1788 tutta la Francia chiede il raddoppio della rappresentanza del Terzo agli Stati generali. In gennaio chiede il voto individuale. In marzo tutta la Francia invia agli Stati doglianze così simili che parrebbero redatte sullo stesso canovaccio, dallo stesso pamphlettista filosofo. Persino i contadini, nei loro cahiers, parlano il linguaggio della filosofia per restare all’unisono.” (1)
Unità di idee che si accompagna a un’unità di atti. Tutto avviene come se un partito organizzatissimo avesse coordinato tutto al meglio; ma di partiti non ve n’erano. Uno dei segreti del potere che scoprirà Cochin sarà proprio quello dell’influenza sulle masse: la meccanica rivoluzionaria non impone l’adesione a una dottrina o a un programma – cosa che contraddirebbe il principio di libertà che illusoriamente vuole promuovere – ma propone di volta in volta delle parole d’ordine, cui implicitamente è necessario conformarsi se si vuole rimanere dalla “parte giusta”. Questa conformità, o regolarità, assume forme sempre differenti, lo vediamo bene anche oggi, pur rimanendo sempre inflessibile riguardo la nuova corrente da seguire. E naturalmente chi non si conforma viene automaticamente escluso, criminalizzato, accomunato alla parte da combattere.
Il lavorio preparatorio per giungere alla Rivoluzione, che per Cochin è stato come minimo trentennale, viene contraddistinto dall’esclusione, dall’eliminazione di tutti coloro i quali, prima di tutto a livello intellettuale, avrebbero potuto costituire un ostacolo: “prima del Terrore sanguinoso del 1793 ci fu, dal 1765 al 1780, nella repubblica delle lettere, un Terrore incruento, di cui l’Enciclopedia fu il Comitato di salute pubblica e d’Alembert il Robespierre. La prima falcia le reputazioni come il secondo le teste; la sua ghigliottina è la diffamazione, l’infamia, come si diceva allora: il termine lanciato da Voltaire si usa nel 1775, nelle società di provincia, con precisione giuridica.” (2)
Possono essere gli intellettuali più scarsi a essere favoriti (lo ammette lo stesso d’Alembert), premiati senza altro merito all’infuori dell’avere contribuito a diffondere le nuove idee, mentre la sorte avversa attende chi non si conforma alla parola d’ordine del momento (sorte che toccò, centocinquant’anni dopo, anche allo stesso Cochin le cui opere, “scomunicate” dagli storici ufficiali dell’epoca, piombarono nel più totale oblio). La cittadella del potere, la “repubblica delle lettere”, il “piccolo popolo” delle società segrete può così creare una realtà propria, che non coincide con quella del mondo esterno, ma che riesce però a imporsi tramite un accurato lavoro di diffusione, che porterà poi all’accettazione dei nuovi concetti, spacciati poi per patrimonio comune, ormai approvato da tutti, o almeno ritenuto tale. Un grande gioco di prestigio che non si basa sulla semplice illusione, ma riesce a diventare sempre più reale, fino a soppiantare la realtà effettiva, sostituendosi a essa. Con ciò che si chiama libertà si disgrega la materia votante, isolando gli individui per renderli inoffensivi, con ciò che si chiama uguaglianza li si rende indifferenti e omogenei, per poi imporre quel mutuo consenso che viene chiamato libertà; si ottiene infine “un magma docile e plasmabile” che non offre più alcuna resistenza a chi detiene le vere leve del potere (3). Sfuggente e inafferrabile, la forza impersonale della meccanica sfida i secoli, e ancora si impone, modellando la realtà a proprio piacimento, riuscendo a farsi servire senza mai essere compresa, come una “tirannia di fatto al servizio della libertà di principio”.
Un regime che, per usare una metafora dello stesso Cochin: “sembra uno di quei bruchi che nutrono della loro sostanza una larva estranea, la quale rispetta i centri nervosi e il minimo indispensabile perché la sua vittima viva e si nutra, o piuttosto la nutra; poi, una volta completata la crescita, dalla larva in bozzolo esce un calabrone”(4). Regime che, oggi ormai uscito dal bozzolo anche se molti stentano ancora a riconoscerlo, si impone come sovrano impersonale che governa alla rovescia, tramite l’incoscienza e l’inerzia, con un dispotismo della libertà che esclude qualsiasi tipo di autorità che non faccia riferimento esclusivamente a se stesso.
Renzo Giorgetti
(1) A.Cochin, Lo spirito del giacobinismo, Bompiani, Milano, 1989, p.56.
(2) A.Cochin, Lo spirito del giacobinismo, idem, p.43.
(3) A.Cochin, Meccanica della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1971, p.271.
(4) A.Cochin, Riflessione (1908-1909) in Meccanica della rivoluzione, idem, p.345.