Joseph Beuys
Dell’artista tedesco Joseph Beuys si è tornati a parlare molto in questi giorni in occasione del centenario della sua nascita (avvenuta a Krefeld in Renania-Vestfalia, il 12 maggio 1921), che verrà celebrato con numerose mostre in giro per il mondo, compresa l’Italia a Bolognano — in Abruzzo — a cui Beuys fu particolarmente legato. Il grande sciamano dell’arte novecentesca (com’è stato definito), fu uno strenuo difensore della natura, e il suo sincero impegno ecologista lo portò ad essere uno dei fondatori dei Grünen (i Verdi tedeschi); non ancora scaduti — come quelli odierni, a cui molto probabilmente verrà prossimamente consegnata l’eredità della Merkel nella guida del Governo tedesco — nella narrazione “terroristica” dei cambiamenti climatici, tanto cari al capitalismo terminale.
C’è infatti stato anche un ecologismo “buono”, non necessariamente legato alla cultura fricchettona dalla forte componente new age, né, tanto meno, alla natura astratta e irreale strumentalizzata da certi politici di sinistra— a corto di idee — a fini elettoralistici. Un ecologismo “di destra” che ha combattuto tecnologia e consumismo dal punto di vista dei valori eterni dello Spirito, e che in Italia rimanda a certe figure provenienti da Ordine Nuovo, come per esempio il nostro Rutilio Sermoniti e il suo incessante impegno a favore del mondo rurale, fino alla costituzione del GRE; l’interesse per l’opera di Konrad Lorenz, intervistato a suo tempo sulle pagine del giornale rautiano Linea, e le campagne contro il nucleare. Senza dimenticare la nostra iniziativa ambientalista costituita dall’associazione DEA all’interno di Heliodromos, che proprio contro la visione di una natura imbalsamata ha condotto una lunga e dura campagna di controinformazione sull’Ente Parco dell’Etna. Quindi, se è sacrosanto rigettare l’odierna “transizione ecologica” di stampo mondialista, non bisogna comunque correre il rischio di “gettare via il bambino con l’acqua sporca”!
Tornando a Beuys, egli ha rappresentato una delle personalità più importanti del panorama artistico del dopoguerra, reso celebre dalle sue posizioni visionarie, dissacranti, eccentriche e rivoluzionarie. Avendo da tempo abbandonato i modi di espressione tradizionali e dedicandosi alla cosiddetta arte totale, dove lo stesso corpo diventa scultura vivente, si impegnò in performance ed installazioni molto più prossime al teatro piuttosto che alla vera e propria pittura o scultura, in funzione di una vera e propria salvezza e guarigione rituale, col recupero di un rapporto armonico fra uomo e natura.
Detta così, sembrerebbe di trovarsi di fronte all’ennesima espressione di quell’arte moderna senz’anima (poiché senza spirito), vittima consenziente della “perdita del centro” smascherata e diagnosticata, a suo tempo, dallo storico dell’arte Hans Sedlmayr. Ma in Beuys emerge prepotentemente un rapporto intenso e profondo con la natura che asseconda una vocazione ed una missione dell’artista, dove la prossimità della “cultura” con la “coltura” (il coltivare la terra) finisce per fondersi in un tutt’uno nella sua attività creatrice. Nel 1982, per esempio, l’artista presenta un’installazione di 7000 blocchi di basalto scolpiti che, con la vendita dei singoli blocchi, avrebbe finanziato la messa a dimora di 7000 querce nella città di Kassel.
La svolta sciamanica della sua esistenza su cui si fonda la sua poetica, alla ricerca continua di un legame spirituale con la natura dal cui contato si ricevono solo influenze positive, ne determinò e motivò la già ricordata scelta ecologista, lucida e consapevole perché basata sull’esperienza diretta e non sulle elaborazioni astratte. Egli auspicava una società dove ogni uomo fosse libero e creativo, attraverso la riconquista della perduta armonia con la natura e il mondo spirituale: fino alla realizzazione di un’opera d’arte collettiva e una forma di scultura sociale.
Però, come avvenuto per tanti altri artisti e scrittori, i suoi estimatori sono stati costretti a ricorrere a numerosi distinguo fra l’uomo e l’opera, per costringerne la figura all’interno dei rigidi canoni democratici che lo rendessero accettabile, nonostante tutto. E questo “tutto” non è certo cosa da poco, visto che il nostro in gioventù aderì entusiasticamente alla Hitlerjugend e nel 1941 si arruolò come volontario nella Luftwaffe, l’aviazione tedesca. Il 16 marzo 1944, durante un’azione di guerra dove egli era mitragliere di coda precipita col suo aereo in Crimea, e mentre il pilota fu disintegrato al momento dell’impatto, egli sparò contro il tettuccio per farlo aprire, venendo proiettato a distanza nella neve. Gravemente ferito alla testa e alla mascella, rimase a lungo sprofondato nella neve. Un gruppo di Tartari di Crimea disseppellì il suo corpo e ne curò le numerose ferite con grasso animale e antiche tecniche sciamaniche, utilizzando strati di feltro per rigenerarne il calore corporeo e mantenerlo in vita, parlandogli in continuazione per tutto il tempo della sua convalescenza.
Il ricordo confuso di quei lunghi giorni venne così rievocato da lui stesso: «Non fosse stato per i Tartari oggi non sarei in vita. Erano nomadi di Crimea in quella che era la terra di nessuno tra il fronte russo e quello tedesco e che non favoriva né l’una né l’altra parte.[…] Furono loro a trovarmi nella neve dopo l’impatto quando le pattuglie di ricerca tedesche si erano ritirate. Ero completamente privo di sensi e mi ripresi solo dopo 12 giorni e dopo quel periodo fui ricoverato in un ospedale da campo tedesco. […] Ricordo delle voci pronunciare la parola ‘voda’ (acqua), ricordo il feltro delle loro tende e l’odore pungente di formaggio, grasso e latte. Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerarne il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo». E dello stesso materiale (il feltro) sarà fatto il cappello che indosserà per il resto della sua vita, trasformandolo in vero e proprio marchio iconico.
Un evento, quello dell’incidente aereo — considerato da Beuys soprannaturale — che è all’origine dell’inversione del suo destino e della sua scelta artistica successiva. Infatti, dopo un iniziale periodo di depressione post bellica, che lo accomuna a tanti altri intellettuale e artisti rimasti orfani del “padre” ideologico (da Giuseppe Berto a Ezra Pound e Georges Remi, l’Hergé amico di Leon Degrelle creatore di “Tin Tin”, per finire con Drieu La Rochelle e la sua tragica scelta estrema), Beuys intraprende la via artistica, percorrendola coerentemente e mantenendosi sempre fedele alla sua scelta di libertà.
Una delle sue performance più note è “I like America and America likes me” che ebbe luogo nel maggio del 1974 a New York. Contrario alla guerra in Vietnam, l’artista, atterrato a New York, per evitare di toccare il suolo americano, si fece trasportare in ambulanza fino alla galleria dove si sarebbe tenuto l’evento, avvolto in una coperta di feltro. Rinchiuso per tre giorni in una sala appositamente recintata insieme ad un coyote, riuscì pian piano a conquistarsi la fiducia e la confidenza dell’animale, che cominciò a girargli intorno, ad annusarlo, a giocarci, a dormirgli accanto, oltre ad urinare (saggiamente!) sulle copie del Wall Street Journal che giornalmente Beuys si faceva consegnare. La figura simbolica del coyote per i Pellerossa raccontava una ferita aperta che bisognava guarire. Per cui la riconciliazione con l’animale totemico attraverso lo sciamanesimo artistico voleva rappresentare la ripresa di un dialogo e il risarcimento delle antiche ingiustizie. Interrogato sul perché non avesse voluto toccare il suolo americano Beuys rispose lapidario: «Volevo isolarmi, proteggermi, non vedere degli Stati Uniti null’altro che il coyote».
In questi stessi anni fonda, insieme ad un ex ufficiale delle SS, l’”Organizzazione per la democrazia diretta e il referendum”, e nel 1976 si candida come capolista di un piccolo partito di estrema destra, la “Comunità d’Azione dei Tedeschi indipendenti”: criticando duramente il parlamentarismo ed assumendo posizioni che oggi verrebbero definite negazioniste e complottiste: che lo avrebbero sicuramente visto schierato contro l’attuale farsa pandemica. Ed il suo riferimento ideale all’antroposofia steineriana (ahimè: non c’è rosa senza spine!), lo avrebbe sicuramente visto schierato contro l’attuale regime vaccinocratico.