La sindrome di Zorro
Il personaggio di Zorro ha da sempre romanticamente rappresentato un’ideale figura di riferimento nell’immaginario di grandi e piccini, che almeno una volta nella loro infanzia (ma qualcuno anche da grande) ne ha vestito il costume e la maschera, oltre a sognarne le gesta. Creato dallo scrittore di romanzi popolari Johnston McCulley, egli fece la sua prima apparizione cento anni fa ne La maledizione di Capistrano del 1919, ispirato agli eroi di Dumas (I tre moschettieri e Il Conte di Montecristo), a cui si potrebbe associare anche il Coriolano della Floresta dello scrittore siciliano Luigi Natoli, e combatte nella California ancora sotto il dominio spagnolo a difesa della povera gente e degli umili tiranneggiati dai potenti del tempo, nascondendosi dietro le sembianze del nobile don Diego de la Vega, tanto inetto incapace e vigliacco, quanto astuto abile e coraggioso è invece il suo alter ego mascherato.
McCulley era notoriamente un massone, ed è più che probabile che una componente politica anticlericale ispirata al protestantesimo nordamericano abbia avuto una parte non secondaria nel caratterizzare le figure dei cattivi, contro cui si batte Zorro, con le sembianze dei rappresentanti della Spagna cattolica. Ma non essendo nostra intenzione inoltrarci nel ginepraio cresciuto “in rete” a proposito dell’etichetta massonica da appiccicare o meno a don Diego de la Vega, diremo tuttavia che alcune componenti del carattere dell’eroe mascherato sono in grado di stimolare utili riflessioni. A partire dalla sua doppia identità, propria anche del criminale patologico e dello psicopatico della porta accanto («sembrava una persona normale e niente lasciava prevedere comportamenti simili…!»): essendo la personalità divisa proprio il sintomo di una delle più diffuse malattie della nostra civiltà, inevitabile nel momento in cui viene a mancare la stessa idea di Unità spirituale, di concentrazione nell’Essere, di eliminazione di ogni alterità e di purificazione semplificatrice.
Certo, il mondo della tradizione conobbe figure di eroi la cui identità può essere occultata per fini superiori, ma nel caso del nostro si potrà al massimo parlare di una parodia di atteggiamenti simili; anche in considerazione del fatto che proprio Zorro è servito da modello per tutta una successiva serie di supereroi americani (dove il fumetto e il cinema sono andati a costituire un surrogato del folklore, dato che dove non c’è un passato e una tradizione non può nemmeno aversi un qualche tipo di “sopravvivenza”), in cui la costante è rappresentata da un essere comune e normale, un individuo timido e spaventato, che si trasforma indossando una maschera (che rimanda direttamente al Carnevale e quindi alla parodia del folklore ricordata prima) per andare a compiere delle imprese assolutamente materiali e dettate da pulsioni dell’io e del sentimento, andando a sconfiggere il cattivo di turno: ovviamente sempre stupido e crudele.
Se l’eroe tradizionale era un semidio che aveva superato la dimensione umana, potendo quindi rappresentare un esempio e un modello per quanti sapessero seguirne l’impervio percorso di ascesi interiore, figure come quelle di Zorro Superman o l’Uomo Ragno, nella loro versione “borghese”, sono delle perfette nullità addirittura al di sotto del livello ordinario di esistenza della gente comune (il cui valore può essere al massimo fondato sulla ricchezza materiale com’è nel caso del miliardario Batman), che solo in preda a raptus “giustizialisti” sono in grado di ingigantire a dismisura le loro facoltà individuali. Emblematico, a tal proposito, il personaggio interpretato da Dustin Hoffman nel film Cane di paglia, il quale sbaraglia una banda di bruti che gli insidiano la moglie, ricorrendo a risorse subconsce insospettabili da lui per primo. In questi personaggi il cittadino medio del mondo moderno si identifica in quanto gli permettono di evadere da una realtà noiosa e banale, dandogli l’illusione che anche lui, al momento opportuno, sarebbe in grado di ricorrere ad abilità e superpoteri eccezionali; a differenza, per esempio, dei personaggi del teatro classico, capaci di proporre reali percorsi catartici, che non hanno che da essere seguiti.
Il Zorro probabilmente più famoso è stato quello della serie televisiva prodotta dalla Disney e interpretato dall’attore Guy Williams, il cui vero nome era Armando Catalano, siciliano figlio di un mercante di legnami di Messina emigrato in America, che venne scelto personalmente da Walt Disney per interpretare il ruolo dell’eroe mascherato a fianco del fedele servo muto Bernardo e dell’obeso sergente Garcia. Come in altri simili casi, l’identificazione dell’attore col personaggio interpretato prese il sopravvento su Catalano, condizionandone il resto della vita, fino al trasferimento in Argentina, su invito di Isabelita Peron, dove trascorse il resto della sua esistenza disegnando dappertutto la “zeta” che lo aveva reso famoso.
Ed è proprio questa coazione incontrollata a siglare le proprie imprese con la “Z” (oltre all’uso della camicia nera!), che ci permette di individuare una qualche relazione fra la “Volpe” spadaccina e il cosiddetto “ambiente di destra”. Perché, in effetti, quella di mettere la propria firma in ogni cosa che si faccia è oggi una delle malattie più diffuse: non solo nell’uomo moderno, per il quale non potrebbe essere diversamente, e a cui ora i cosiddetti social hanno fornito strumenti prima inimmaginabili, essendo egli ridotto al puro e semplice cieco personalismo, ma, il che stona, soprattutto fra coloro che a parole si dicono nemici di tale mondo moderno e che pretenderebbero di rappresentarne un’alternativa. Dovrebbe infatti essere, per costoro, un pilastro imprescindibile e definitivamente acquisito quello dell’azione impersonale, poiché solo l’affrancamento dalla condizione individuale potrà condurre a quell’unità di intenti indispensabile alla costituzione del Fronte della Tradizione, unica risposta efficace all’anomalia del mondo moderno.
Gli effetti deleteri di questi personalismi (nel passato come nel presente) sono facilmente riscontrabili in campo culturale, politico e “militare” (la rivendicazione terroristica di atti efferati rientra pienamente in questa categoria autoreferenziale). Essendo da sempre caratteristica dell’ambiente di cui stiamo parlando la ricerca romantica del “bel gesto”, a rischio di compromettere l’esito stesso dell’impresa da portare a compimento, spesso ci si preoccupa più dell’eco prodotto dalla stessa piuttosto che dai risultati veramente ottenuti. Per carità di patria non faremo nomi, ma chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità sarà in grado di stilare la propria personale lista di “figuri” che hanno vampirizzato un intero ambiente, vanificando energie preziose. Casi psichiatrici da curare (questi sì!) con sedute psicanalitiche, per i quali il sacramento della confessione cristiana, dove ci si affida ad una Realtà superiore, appare un percorso troppo elevato spiritualmente. Sicuramente la rincorsa del successo elettorale per alcuni, imprigionati nel recinto democratico dove “farsi conoscere” e “mettersi in mostra” è fondamentale, ha fornito un alibi alle vanità personali. Ma la ricerca del consenso del plebeo (della massa, del numero, che mai può diventare potenza) e l’annullamento delle distanze rappresentano la tomba degli ideali aristocratici, fondati sullo Spirito e sulla qualità.
Snaturarsi per piacere, mescolarsi per confortarsi vicendevolmente è la negazione assoluta dell’essere se stessi, fondamento indispensabile alla costituzione di una realtà operativa in grado di affrontare efficacemente le immani sfide che lo stato attuale del mondo impone. Evola, con la lucidità che gli era propria, sottolineava che «Dove i sangui si incrociano, le vocazioni si confondono, riesce sempre più difficile veder chiaro nel proprio essere, cresce sempre più la labilità interiore, segno della mancanza di vere radici. Gli incroci propiziano il sorgere e il potenziarsi della coscienza dell’uomo come “individuo”, favoriscono anche tutto ciò che è attività “libera”, “creativa”, in senso anarchico, “abilità” furbesca, “intelligenza” in senso razionalistico o sterilmente critico: tutto ciò, a spese della qualità di carattere, di un affievolimento del sentimento della dignità, dell’onore, della verità, della drittura, della lealtà. Si determina così una situazione anche spiritualmente obliqua e caotica, che però a molti nostri contemporanei sembra normale; per cui, ad essi i casi di individui pieni di contraddizioni, privi del significato del vivere, tali, che essi non sanno più quel che vogliono, fuor che le cose materiali, in contrasto con la propria tradizione, la propria nascita e la loro naturale destinazione, tali casi non appaiono più come anomalie o apparizioni teratologiche, bensì come l’ordine naturale delle cose, che confuterebbe e dimostrerebbe artificiale, assurdo ed oppressivo ogni limite di tradizione, di razza, di nascita» (1).
Nel Dhammapada (74) è detto: «Desiderare che si sappia che “Io sono l’autore” è il pensiero di un uomo ancora in infanzia»; e Coomaraswamy afferma, a proposito delle opere d’arte, che: «mentre nella maggior parte dell’arte moderna non si può non notare un esibizionismo in cui l’artista più che esprimere una verità valorizza se stesso con l’esplicito avallo del moderno individualismo, l’artista medioevale si distingue piuttosto per il suo anonimato e per “l’umiltà del comportamento”, poiché non conta chi si esprime ma ciò che viene espresso» (2). Per cui ne consegue che esibizionismo e individualismo sono fenomeni propri dell’uomo moderno, e quindi dei tempi ultimi, dove ogni azione necessita di un qualche “compenso”, non necessariamente materiale. La riduzione ai soli elementi umani, avendo reciso ogni riferimento superiore, è proprio ciò che costituisce lo spirito antitradizionale che sta alla base di tutte le tendenze moderne figlie del distacco dalla tradizione.
E questo vale soprattutto per quanti avrebbero la pretesa di rifarsi a determinati valori, fra i quali spicca in modo particolare il concetto di Gerarchia, che dovrebbe escludere a priori ogni personalismo visto che, come nota Guénon, l’individualismo rappresenta il «rifiuto di ammettere ogni autorità superiore all’individuo come pure ogni facoltà conoscitiva superiore alla ragione individuale». E il fatto che la “dispersione nel molteplice”, tipica della vita moderna, riguardi e coinvolga direttamente anche i “camerati” prima ricordati, in cui la frammentazione continua e la divisione incessante prevalgono su ogni possibile tentativo di intesa, mostra chiaramente quanto questi siano afflitti dalla “sindrome di Zorro”.
1 J. Evola, Fedeltà alla propria natura, La Vita italiana, marzo 1943.
2 A.K. Coomaraswamy, Come interpretare un’opera d’arte, pp. 118-119, Rusconi, Milano 1977.