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LA CONCEZIONE SACRALE DELLA TERRA IN ASIA IN PARTICOLARE IN INDIA E IRAN
Pio Filippani Ronconi
testo di una conferenza tenuta nell’aprile del 1990 a Valenzano (Bari), presso l’Istituto agronomico mediterraneo
Premessa
L’idea del “sacro”, quindi il concetto della sacralità della Terra, è, in primo luogo, una questione di natura conoscitiva, perchè implica la facoltà di recepirlo quindi è un problema di natura pratica e morale. Esso si riassume nel quesito: quale è il rapporto che l’uomo, come essere ragionevole, dotato di anima e di un corpo fisico, ha con l’“ente-Terra”, di là dalla scontata relazione fra soggetto e oggetto di percezione sensibile? Qui diciamo “ente-Terra” a ragion veduta, in quanto trascendente la sua manifestazione quale estensione materiale destinata a produrre ciò che l’uomo necessita per sopravvivere su di essa: ciò che sarebbe una tautologia.
Si tratta, piuttosto, di considerare la Terra e il suo ambito vitale come dimensione esteriore dell’anima umana, il suo limite fisico, essendo la sua dimensione interiore costituita dalla facoltà di intellezione, in cui opera l’identità primordiale di “Io e Mondo”, senza la quale quest’ultimo sarebbe inconoscibile, i poteri dello strumento mentale, quelli delle percezioni sensibili e quello del sentire animico.
In breve: per Terra, Mondo, Natura intendiamo l’esterno all’uomo contrapposto alla sua interiorità – interiorità che, peraltro, è capace di afferrarlo e di assimilarselo. L’elemento del “sacro” che qui postuliamo, scaturisce proprio dalla relazione interiore fra uomo e mondo, fra “io” e Universo. È una relazione arcana, pre-esistenziale, la quale, più che il reciproco adattamento fra i due termini, implica la loro Unità primordiale.
Altrimenti, fra questa Terra che, messa di fronte all’uomo, è l’oggetto delle sue percezioni e delle sue facoltà di azione, e l’interiorità dell’uomo non ci potrebbe essere relazione alcuna. Dice infatti il famoso pensatore persiano Sadru’d-dîn Shîrâzî detto Mollâ Sadra (m. 1640) nel suo Kitâb al-Hikmat al-’Arshîya (“Il Libro della Saggezza del Trono”, Tehrân 1315 H. alle pp. 148-151) che “il mondo materiale afferrato dai sensi è, praticamente, soltanto un oggetto percepito per accidente (non “per sostanza”!): difatti esso è soltanto una forma esteriore che imita esemplificando la vera forma dell’oggetto che è presente nell’anima, la quale è essenzialmente l’oggetto della percezione”. Come dire che, l’uomo, nel percepire la Terra o, se si vuole, la Natura, sperimenta una realtà di cui egli stesso è latore, cioè la dimensione oggettiva del suo proprio essere. La sede di tale incontro è quella zona dell’anima che denominiamo “immaginativa”, laddove il pensare provvede di forma l’inerte dato sensibile.
La sacertà di questo rapporto fra uomo e Terra è dovuta, quindi, al fatto che si tratta di un evento dell’anima, attraverso il quale essa sperimenta la Natura come sua dimensione esteriore.
Nella meditazione filosofica di una serie di pensatori islamici, generalmente persiani, che vanno da al-Fârâbî (m. 1131) ad Avicenna (m. 1037) a Sohrawardî (m. 1191), che costituiscono un filone gnostico-ellenizzante, era stata elaborata la concezione secondo la quale fra il mondo delle idee platoniche (Malakût) e quello della fattualità materiale spazio-temporale Mulk ve ne fosse uno intermedio, detto in arabo ‘Âlam al-mithâl, che H. Corbin traduce “Mondo imaginale”, mediatore, quindi, fra il mondo intellegibile e quello sensibile, che è il campo di azione dell’Angelo archetipo dell’Umanità, laddove il pensare cessa di essere rappresentazione riflessa di una realtà percepita “al passato” (muta’akhkhar) per diventare contemplazione “unitiva” (ittisâlî), realizzazione vivente del significato dell’oggetto contemplato. Questa è la zona del “sacro”: “sacro” perchè l’anima comincia a riconoscere la sua propria dimensione cosmica.
Ora, quello cui io accenno come riflessione filosofica è stato per millenni il viatico naturale di innumerevoli culture anteriori allo sviluppo razionale-scientifico del pensiero, fondato questo su una esperienza del mondo riflessa nell’ambito mentale. Orbene, questa nuova moderna esperienza del pensiero scisso dalla sua radice cosmica, se pure ha permesso lo sviluppo delle scienze obiettive, ha peraltro segnato l’oscuramento di quell’intuizione della realtà divina della Natura universa, che nell’uomo antico o, comunemente, pre-moderno, affiorava come senso del sacro e lo accompagnava in tutti gli atti della vita. Nulla impedisce che questo senso del sacro riemerga nella consapevolezza della vita quotidiana a convalidare i momenti cardinali della vita sociale, del lavoro, della milizia e della religione – che è ormai l’ultimo rifugio per l’esperienza del senso trascendente dell’umana esistenza. Nelle note seguenti accennerò alle concezioni sacrali della Terra nelle antiche culture dell’Asia, che tuttora si continuano in alcune aree non contaminate spiritualmente da ideologie materialiste.
* * *
1 – Per l’uomo antico che, con sembianze odierne, si perpetua in Asia, la terra non è l’automatica datrice di cibo e alloggio secondo il variabile ritmo delle stagioni, bensì un Ente vero e proprio, una Madre soccorrevole che restituisce, in alimento e vita, ciò che l’uomo in essa prodiga di amore e lavoro. E il lavoro dei campi, il dissodamento delle terre deserte o vergini e la bonifica delle aree malsane è per lui un’opera religiosa, anzi, mistica: attraverso essa egli può recuperare la propria dimensione cosmica, quella che lo mette in rapporto con le ragioni ultime della propria esistenza. L’uomo ritorna ad essere sintesi del cosmo e le sue attività riflesso di funzioni universali.
Abbiamo l’esempio del Cinese classico e, tutt’ora, del Coreano e del Giapponese, per i quali la realtà è essenzialmente il Grande Uno, T’ai-yi, comprendente la Natura e l’Uomo mediatore fra Cielo e Terra. Essa si manifesta nella successione degli eventi naturali, attraverso i quali si contempla l’alterno tramare degli archetipi spirituali (hsiang) che costituiscono l’invariabile (ch’ang) Legge della Realtà, il Tao. La civiltà cinese antica, pur così pratica e concreta, ha creato un’importantissima estetica, che assume la natura quale forma immediata dello spirito (il ch’i) e talvolta s’identifica ad esso, come è il caso di Lu Chiuyüan e Wang Shoujen. Naturalmente questa concezione trae le sue origini da un’antichissima esperienza, risalente alla fase pre-logica del pensiero, quando lo jato mentale non s’interponeva ancora alla contemplazione cognoscitiva della realtà, all’intuizione del senso delle cose. Gli eventi del mondo, per l’uomo estremo asiatico, risuonano ancora in lui a guisa di pensieri, di là dalla logica discorsiva: perciò l’adeguamento ad essi e la devota lettura nel gran Libro della Natura è sorgente di saggezza e alimento di forza nella vita. Per restare nell’ámbito estremo-orientale, le figure dei civilizzatori primordiali, come i cinesi Fu Hsi, Shen Nung, Hwang-Ti e Wên, specialmente il secondo, e il coreano Hwang Ung, sono essenzialmente di agricoltori, che governarono l’alterna fecondità della terra, strappando nel contempo l’uomo all’inquieta ferinità dei primordi, assegnandogli una sede stabile e un’organizzazione sociale concepita quale riflesso dell’ordinamento cosmico. Non per nulla nella Cina classica era l’Imperatore che dava inizio all’anno agricolo arando la terra, la cui fruttuosità era testimonio del suo buon governo e arra di felicità per le sue genti. Eredità che è passata fino al Giappone moderno.
2 – Analoghi presupposti di ordine metafisico, però, presiedono alla concezione sacrale della Terra da parte degli antichi Irani e degli Indiani di tutti i tempi, fino ad oggi. Per i Mazdei iranici, la Terra e la sua trasformazione mediante la fatica umana costituivano il supporto per la redenzione del genere umano: la sua dimensione fisica (astvant, “ossosa”), anziché segno della caduta dell’uomo dal mondo spirituale entro il mondo spazio-temporale, rappresentava lo strumento concreto per la lotta umana contro lo Spirito Negatore, Anra Mainyu o Ahrîman, il quale si esprime nella Menzogna, la malattia e la morte. Per gli antichi Persiani, quindi, la Terra era il campo sul quale l’uomo si batte per affermarvi lo Spirito Santo, Spenta Mainyu, rendendolo abitacolo per la Buona Mente, Vohu Manah: l’attività ordinatrice dell’Uomo sulla Terra, detta frashô.kereti, “rinnovamento” o “ricreazione”, ha lo scopo di far ritrovare entro il mondo materiale (gêtê) l’archetipo celeste (mênôk) che presiede ad ogni cosa.
Lo spirito della Terra redenta dall’uomo è considerato come una divinità femminile, Spentâ Aremaiti, “il Santo Ben-connesso Pensiero”, figlia di Vohu Manah e angelo della Devozione. Questa che è la Terra purificata dall’azione dell’uomo, era ravvisata come un vero e proprio specchio in cui si riflette l’Essenza spirituale, l’“io” superiore dell’uomo, detto la daênâ, termine che in origine significava “intuizione profonda”, ma che con il passar del tempo, con il suono di dên o dîn, rivestì il senso di “religione”. In altri termini, l’uomo contempla nella Terra la incandescenza che il proprio “io” vi proietta mediante l’azione.
A questa realtà soggettiva corrisponde, sempre secondo gli antichi Persiani, l’avvento di una condizione spirituale simboleggiata dalla raggiante aureola, detta xvarenanh (più recentemente xorrah o farr) la quale ravvolge il capo dei sovrani legittimi e degli eroi. Questo potere luminoso esprime l’energia (ojas) vincolante il destino di ogni essere umano. Questo nimbo, ereditato in seguito dall’iconografia buddhista, cristiana e dell’Islam sciita riveste due significati: la forza che permette ad ogni uomo di compiere il dovere proprio al suo stato (xwesh-kârîh, e il simbolo visibile della sua fedeltà alla Rettitudine Asha o Arta, la legge essenziale che nell’Universo tutto sorregge, dal filo d’erba alla sublime danza delle stelle. Il primo sovrano dell’Umanità, Yimô.xshaêta, è pertanto concepito come il primo agricoltore-allevatore, inventore di tutte le arti. In questa prospettiva metafisica, la Terra è, quindi, il simbolo vivente della connessione fra il pensiero e l’azione dell’uomo: tale è l’etimologia di Are-maiti, l’Angelo della Terra.
L’uomo può sviluppare correttamente la sua facoltà individuale di pensiero, proprio perchè si trova a vivere sulla Terra: altrimenti, nei Cieli, si limiterebbe a riflettere le cosmiche volizioni di Dio e delle gerarchie, non conoscendo peraltro né libertà, né possibilità di amore individuale. Per tale ragione, nella professione di fede zoroastriana, il fedele mazdeo pronuncia il verso: “spentâm Aremaitim vañhuhim varâne…”, “io scelgo per me l’eccellente Spenta Aremaiti”.
3 – Una simile concezione relativa alla Terra-donna “fatta di pensiero ben-connesso” (ara-mati) la si ritrova anche nell’India vedica, assieme a quella che identifica nella dea Sarasvatî “la Fluente, cioè l’Acqua Corrente, il potere della Parola, Vâk, sposa dello Spirito Universale, il Bráhman. Dice, infatti, il Rg-veda (5,43) “… â no mahîm Arâmatîm sajosâh gnâm devîm namâsâ ritúhavyâm / mádhor mádayâ brhatîm rtajñâm agne pathibhir devayânair…”, “… apportaci, consenziente, la Grande (mahî vuol anche dire “Terra”) Aramati, Donna divina alla quale si sacrifica con devozione, per l’estasi del miele, la sublime Conoscitrice dello Rtá (cioè il Vero, la Realtà), per le vie che conducono agli dèi!”. La Terra, quindi, anche per gli antichi Ario-indiani è una donna (gnâ) fatta di pensiero, alla quale abbiamo accesso tramite l’“ebbrezza del miele”, termine che nella Chândogya upanisad viene interpretato come l’esperienza purificata delle percezioni sensibili. In altri termini, quella che i greci denominavano pótnia Khthôn, “Signora Terra”, è per gli Indiani vedici contemporaneamente il “potere visibile” (brhatî) del dio-parola Brahmâ e il tessuto del medesimo potere, mediante il quale ce la rappresentiamo al di fuori di noi. Il potere della Parola (vâk-sakti) è, pertanto, la veggenza consapevole con la quale l’occhio dell’uomo assieme a tutte le sue altre facoltà di percezione e di azione penetrano entro l’essenza delle cose, entro la Terra, ricevendo in cambio alimento fisico e saggezza spirituale. La Terra, inoltre, come elemento fisico della realtà, rappresenta il punto terminale, il limite estremo, della discesa del suono-Verbo dalla sfera eterea a quella sensibile della creazione, ove si riflette come suono audibile.
Lo Aitareya âranyaka (III, 2, 5) associa i tre gruppi di fonemi – consonanti, spiranti e vocali – alle tre parti del cosmo: le consonanti alla terra, di cui sono la “forma” a priori, cioè l’esperienza della dimensione materiale, le spiranti allo “spazio intermedio”, cioè all’atmosfera che interiormente riflette come esperienza immaginativa l’Universo, e le vocali al cielo cioè – soggettivamente – alla conoscenza intuitiva degli archetipi della realtà (kalâh): essi corrispondono altresì agli elementi primordiali, rispettivamente, fuoco, vento, sole: “prthivyâ rûpam sparsâ, antarîksasyâsmano, divâh svarâh agnerrûpam sparsâ, vayor usmanâh, âdityasya svarâh”.
In quanto “forma” di tutte le cose visibili, la Terra è la Bellezza (srî, termine foneticamente corrispondente al latino Ceres, la dea che sovraintende ai campi ed alla loro fecondità).
Il poeta e pensatore bengalese Thakur (Tagore) soleva dire che il segno della decadenza dell’India dei suoi tempi era dato dal fatto che i villaggi avessero perso la pristina srî, l’impalpabile amenità, detta anche Laksmî, “providentia”, “felicitas”, nel senso latino dei termini. Si consideri che l’India in pratica è un continente di qualcosa come settecentomila villaggi che ne costituiscono la realtà base, molto di più di quanto non siano le megalopoli del genere di Calcutta o Bombay.
4 – A questa realtà, costituita essenzialmente di comunità agricole governate dall’antichissimo Consiglio dei Cinque (pañcâyat) testimoniatoci addirittura da Arriano da Nicomedia nella sua vita di Alessandro, dobbiamo riferirci se vogliamo intendere il rapporto sacrale che l’India di tutti i tempi mantiene con lo ente-Terra e l’alone mistico che circonda l’agricoltura, attività che, prima di essere di ordine economico-alimentare è di natura religiosa. A questo rapporto di natura, diremmo, magico-sacrale basato su ciò che gli Indiani denominano anubhava, cioè esperienza diretta dell’elemento sovrasensibile, l’orientamento di pensiero positivista, pesante eredità del materialismo ottocentesco non attribuisce alcun valore pratico.
4A – Fino a poco tempo fa questo tipo di pensiero “positivista” non attribuiva, ad esempio, alcun valore pratico alla sesta scuola delle Fang shih [“scienze arcane” – cinesi, quella che si occupa delle cosiddette “forme” (hsing)], intesa a disporre le attività e le abitazioni degli uomini in armonia con quelle energie cosmiche denotate come fung shui, “vento-e-acqua” che corrispondono alle forze vitali del microcosmo umano. Ciò finché una ventina di anni fa un medico cino-americano non scoprì l’incidenza progressiva di casi di cancro nelle abitazioni male orientate, o edificate su terreni percorsi da nefasti flussi energetici, dipendenti da particolari giacimenti minerali, corsi di acque profonde eccetera. Lo Hung Fan, la “Grande Norma”, opera remotissima risalente addirittura ai primordi della dinastia Shang (1766-1122 a. Cr.) tratta delle cosiddette Nove Categorie, che sono altrettanti “accordi armonici” sui quali operano i Cinque Poteri (wu teh) forme a priori della realtà sensibile cioè il potere intrinseco della Natura di determinarsi diversamente come acqua, fuoco, legno, metallo e terra.
A questi poteri corrispondono altrettante forme di comportamento dell’uomo, che permettono di adeguarsi ad essi e di condizionarli, ricreando la Grande Unità fra Universo e Uomo, che questi interiormente possedeva nei primordi della civiltà.
5 – La Terra, quindi, è considerata nelle civiltà antiche orientali, in particolare nell’India classica, come un essere vivente di natura femminile, ma ciò non per astrazione poetica ma per diretta visione, la cui efficienza provvidenziale viene risvegliata dal rito e dall’opera nei campi. L’uomo, difatti, tesse la sua vicenda esistenziale dispiegata nel tempo e nello spazio; spazio che è lo scenario terrestre della sua vita. La Terra si offre alle percezioni sensibili dell’uomo come uno schermo, sul quale l’uomo riflette la propria essenza operando.
Essa, pertanto, costituisce l’occasione (samaya) per attuare funzioni di ordine spirituale, che permettano all’uomo di ricollegarsi all’inesauribile Dea, sorgente di vita che si tramanda di generazione in generazione. Le numerose feste e riti che in India, come nella Roma antica, vengono celebrati hanno lo scopo pratico di evocare estaticamente entro una determinata comunità sociale, la potenza divina che presiede ai ritmi della fecondità stagionale. Questa potenza soprannaturale è identificata, nelle feste di Gañgaur magistralmente descritte dal Todd nel 1832 (negli Annals and Antiquities of Rajast’han) e più recentemente analizzata dal nostro Scialpi (in La Festa di Gangaur a Udaipur, in “Perennitas”, Roma 1980), alla “bionda” «Gaurî dea delle messi, ipostasi di Parvatî o Durgâ, la sposa, ora amorevole, ora terrificante, di Shiva, figura complessa di divinità, che assomma i caratteri di Demiurgo, Fattore del Tutto, di lógos, di Risanatore e di Distruttore, Signore degli Arcani, celato nel cuore di tutti gli esseri.
Il popolo che partecipa al Gañgaur, che dura tredici giorni come il contemporaneo Nowrûz persiano (inizio dell’anno all’equinozio di primavera), vive intensamente un dramma cosmico, evocando dentro di sé quelle medesime forze che si risvegliano nella Terra, trascorso il periodo arido del sonno invernale. Essa inizia immediatamente dopo la Holî, quella specie di Saturnali che celebrano l’iniziale rottura dell’Uovo Cosmico, come gli Spurcalia romani, cioè a dire la dissoluzione (laya) nel Chaos, per cui il seme deposto nella Terra, prima muore, indi rinasce come pianta.
Difatti, le donne dei villaggi del Râjasthân, raccolgono le ceneri rimaste dei falò della Holî, per seminarvi un poco di grano e orzo, che una volta cresciuto verrà portato in gioconda processione dalle fanciulle “invocanti Gaurî, Isvara (cioè Shiva) e Ganapati (o Ganêsa) il dio dalla testa di elefante, figlio della coppia divina, che rimuove gli ostacoli e la cui protezione si richiede all’inizio di ogni impresa» (Scialpi, 473).
6 – Anche senza voler fare un’analisi di Antropologia culturale si può osservare come in India – che per molti versi è una estrema propaggine del mondo antico – si perpetuino a livello popolare riti, liturgie e tradizioni, un vero mesocosmo simbolico, attraverso i quali l’uomo tende a sperimentare la propria consonanza con le invisibili potenze che esteriormente si attuano nei processi naturali e nei ritmi agrari da cui dipende la sua stessa sopravvivenza. Mentre l’Occidente moderno cura la terra, talvolta con risultati meravigliosi, applicando metodi fondati sulla sperimentazione scientifica, più che su una sapienza intuitiva, in quella parte del mondo antico che si perpetua in India e nell’Oriente estremo l’attenzione è piuttosto rivolta all’uomo, anzi alla donna, che è il soggetto dell’Agricultura. In questi riti stagionali, la donna, differenziata nelle condizioni di bambina, fanciulla, sposa e madre, viene identificata ad Anna-pûrna, “la Ripiena di Cibo”, che per tanti versi ricorda l’Anna Perenna dei Romani. La donna è, quindi, la vera attrice di quei riti complicati e minuziosi, attraverso i quali i diversi gruppi sociali (le jati corporative, castali o tribali) attuano una vera e propria presa di coscienza della dimensione-terra, prthivî (“la estesa”) o bhûmî (“la diveniente”), che viene non tanto percepita “fuori”, quanto concepita “dentro” ogni singolo individuo! Alla resurrezione vernale della Terra-madre, omnipresente datrice di vita, corrisponde interiormente la rivelazione dell’“anima-sapienza”, vidyâ-devî, madre e sposa del dio che ognuno reca in sé ignorato, che è Shiva, l’“io” cosmico. Si tratta probabilmente dei medesimi riti eleusini, che l’Occidente classico conobbe attraverso le figure misteriche di Demetra, Persephone e Trittolemo. Difatti, nei riti râjasthâni citati ad esempio, è compito delle donne quello di congiungere magicamente il ciclo invernale (detto con il termine arabo-musulmano rabî’), cui sono propri il cece (canâ), l’orzo (jau) e il grano (gehûm), con quello primaverile estivo (kharîf) cui è proprio il miglio (bâjrâ) ed il sorgo (javâr). Le fanciulle rivestite degli abiti più belli, verdi e rossi come i campi in fiore, sottraggono le piantine dai giardini in maliziosa tenzone con i loro custodi, che poi faranno crescere all’ombra domestica, non diversamente da come si costuma nella vicina Persia in attesa del Nowrûz, o come fanno le donne nella Spagna che io conobbi da fanciullo in attesa della Pasqua. Il terzo giorno (tîj Ganagaurî) quando il potere della sposa fa rinascere il dio, allora si celebra la semina rituale nei campi, sempre ad opera delle donne, ed ha luogo il sacro lavacro della coppia divina, in cui la figura iconica della Dea sovrasta per grandezza ed ornamento quella piccina del Dio, sempre fanciullo e sempre rinascente.
7 – In sostanza il mito e le cerimonie che connotano questo antichissimo rito di passaggio, tendono a ristabilire in un momento significativo del ciclo annuale, l’omogeneità fra l’anima umana e la “Terra-vivente” concepita come dimensione esteriore dell’anima, sicché l’uomo viva partecipando ad un fatto cosmico, che in pratica si traduce nel ricevere alimento inesauribile dalla Madre Terra, la “Sempre ricca”, vasumatî.
Questa ammirevole disposizione interiore tramandata fino a noi da un’antichissima civiltà, che più o meno è lo specchio di tutta l’Asia ulteriore, non contraddice certo all’esigenza moderna della crescente tecnicizzazione ed automazione industriale dell’agricoltura che esige la sopravvivenza fisica della specie, bensì la completa, facendo sperimentare all’uomo in maniera vivente, di là dall’astratta razionalità, il suo intimo spirituale rapporto con l’essere della Terra.