Teoria e pratica del sacrificio
Quando si sente ripetere (spesso a sproposito!) la frase «non c’è più religione», l’istinto immediato è quello di considerarla un’affermazione banale, una sorta di brontolio di vecchi stizzosi incapaci di tenersi al passo coi tempi, quando in realtà bisognerebbe fermarsi a riflettere sul fatto che questo, come tantissimi altri detti popolari scaduti a luoghi comuni, contiene comunque residue tracce dell’Antica Saggezza (la tradizione universale e unanime), che ci comunicano indizi fondamentali, se solo si riesce a interpretarli, per poter comprendere l’origine e le cause dello stato avanzato di decadimento cui è soggetta l’umanità attuale. Del resto, ciò che costituisce veramente una religione ce lo ha chiaramente mostrato René Guénon quando ne ha isolato i tre elementi essenziali nel dogma, nella morale e nel culto, spiegando che «il primo elemento costituisce la parte intellettuale della religione, il secondo ne rappresenta la parte sociale, ed il terzo, l’elemento rituale, partecipa sia della natura dell’una che dell’altra». Quando uno di questi elementi viene a mancare, e noi sappiamo a cosa si siano ridotte oggi le religioni — a partire da quella sotto la cui “giurisdizione” ricadono i destini spirituali dell’Occidente, oramai limitata al solo elemento morale, e per giunta a una morale adattata ai tempi e misurata col termometro ecologista —, si può, a ragione, appunto affermare che «non c’è più religione».
Essendo la pratica non altro che il supporto esteriore e la dimostrazione della teoria, fare quello che deve essere fatto costituisce l’impegno irrinunciabile per ognuno al fine di garantire la continuità di ogni tradizione, come si sottolinea chiaramente nella Bhagavad-Gîtâ quando ci viene ricordato che «Colui che fa ciò che dev’essere fatto senza curarsi del frutto dei suoi atti, è un vero povero (sannyâsî), un uomo “aggiogato” (yogî); non colui che non accende il fuoco sacro e non compie i riti». Mentre, d’altra parte, Coomaraswamy ci ricorda che per lo Zohar «L’impulso del sacrificio mantiene i mondi», ed è grazie all’impulso del fumo in basso che «la lampada (cioè il Sole) è infiammata in alto». E ciò basti a evidenziare l’enorme responsabilità che le autorità religiose si assumono nel momento in cui vengono meno al loro compito di tenere “aperti” e “funzionanti” i canali di comunicazione fra Cielo e Terra.
Del resto, l’elemento rituale che consiste fondamentalmente nel sacrificio (cioè nell’offerta solenne di vittime e doni fatta alla divinità), nella normale visione religiosa è il punto culminante, l’azione sacra per eccellenza e l’atto più importante e significativo che l’uomo possa compiere, in quanto sottolinea e conferma il riconoscimento della divinità, con la quale si entra in comunicazione donandogli e dedicandogli beni di grande valore sottratti al loro uso normale e utile per l’uomo. Non per nulla se ne trova traccia in tutte quante le tradizioni, nel duplice aspetto di sacrificio cruento e sacrificio incruento, dove nel primo caso risalta il ruolo attribuito al sangue quale veicolo della vita e sede dell’anima. Se poi si considera che la sacralità dell’atto sacrificale investe sia il luogo, sia l’offerente e il ministro, sia la vittima sacrificata e gli oggetti e gli strumenti utilizzati, appare chiaro che, di riflesso, i “sacrifici umani” occasionati nel mondo moderno dalle sue concrezioni tecnologiche e psichiche (si pensi solo alle vittime degli incidenti stradali, prevalentemente giovani, e ai suicidi in continuo aumento), rivestono di un’aura sconsacrata e sinistra i luoghi, le vittime, gli oggetti e gli strumenti coinvolti, alimentando energie malefiche che vanno ad infettare l’intera società.
Il sacrificio, nella sua accezione positiva, è infatti l’offerta volontaria e spontanea alla divinità di qualcosa che ha diretta attinenza con la vita, come possono essere i frutti della terra, nel momento in cui si riconosce l’Essere supremo come il vero proprietario di tali beni; mentre quello cruento assume anche un significato espiatorio delle colpe morali, atto a sanare un vulnus e uno squilibrio portato all’ordine sacro. Nel formulare un voto, l’uomo si impegna d’avanti alla divinità di compiere o non compiere una determinata azione, offrendo così a Dio la propria libera volontà. Come sottolinea Coomaraswamy: «Il Sacrificio [cioè colui o ciò che viene sacrificato] è sempre una vittima consenziente che impone a se stessa la “passione” e allo stesso tempo è la vittima innocente di una passione che le viene imposta ingiustamente; sono due modi diversi di considerare un solo e medesimo “avvenimento”». Ed è sempre Coomaraswamy a ricordarci che, per quanto riguarda l’astinenza sacrificale, «Il digiuno si può considerare non come un esercizio morale, ma come un rito metafisico […]. Secondo Ibn ‘Arabi, “La fame procura la conoscenza di Satana”. Il concetto di “cibo” comporta evidentemente numerose applicazioni, che coprono tutti gli oggetti del desiderio, poiché la loro acquisizione determina il comportamento specifico dell’individuo. L’identificazione di Vritra [l’essere malefico e mostruoso che nei Veda viene sconfitto e ucciso dall’eroe ario Indra] con il ventre — la somiglianza tra gli intestini e il serpente è palese – corrisponde alla concezione diffusa nell’Antichità, che fa delle “viscere” la sede delle emozioni, cioè del desiderio, distinte dal “cuore”, in seno al quale si effettuano le operazioni intellettive».
L’efficacia dell’atto simbolico essendo costituita dalla reale partecipazione, addirittura fisica, dell’uomo alla natura e all’essenza divina, indica che il coraggio tipico dell’Eroe dello Spirito derivi proprio dalla conoscenza effettiva e dalla consapevolezza di ciò che egli sta compiendo e dalla percezione delle reali forze in campo; mentre la paura e il panico dell’uomo ordinario nasce fondamentalmente dalla sua ignoranza: si ha paura, se non terrore, di ciò che non si conosce.
Riguardo al sacrificio cruento, va detto che esso è alla base di tutta una serie di miti e leggende dove vengono narrate le gesta della lotta col Drago che, ripresentandosi con somiglianze e analogie sorprendenti da un capo all’altro della Terra e da un’epoca all’altra dell’Umanità, rappresentano una delle prove più evidenti e verificabili dell’unità e dell’origine comune di tutte le tradizioni, oltre a rivelarci in maniera inequivocabile il significato ultimo del sacrificio stesso. Al tema, Antonio Medrano ha dedicato una delle sue opere più documentate e convincenti (La lucha con el dragón – La tirania del ego y la gesta heroica interior) dove, recuperando minuziosamente le narrazioni sparse per tutti i continenti e facendone una disanima insuperabile, ci ha fornito un’interpretazione preziosa del simbolismo in essa contenuto.
Come ricordato, le imprese che riguardano la lotta col Drago si somigliano tutte quante, essendo possibile estrapolarne degli elementi caratteristici e delle costanti utili a ricostruire il quadro d’insieme e a evidenziarne il significato simbolico. Di solito la vicenda si svolge in un luogo o in una regione afflitta e tormentata dalla presenza di un Drago ferocissimo e invincibile, che periodicamente richiede il sacrificio di vite umane, prevalentemente giovani fanciulle, per placarne l’ira e la fame insaziabile. Egli si impadronisce del paese, gettandolo nel terrore e nella miseria, tagliando le acque e rendendolo arido e sterile. Cattura e imprigiona le più belle donne, rendendole schiave della sua ferocia e della sua lussuria. Avvelena l’ambiente e gli abitanti che soggiacciono al suo dominio. Lo stato di fatto e il periodico tributo di sangue vengono interrotti dal sopraggiungere di un Eroe che affronta e uccide il Drago, liberando il luogo dalla tremenda tirannia e (quasi sempre) convolando a nozze con la vittima salvata, di solito una principessa figlia del re locale, che gli porta in premio l’incoronazione regale. Quindi, l’Eroe vincitore del Drago diviene re e sovrano del regno prima oppresso da questo. Una variante non meno frequente di quella della vergine da salvare, consiste nella conquista di un tesoro dall’inestimabile valore custodito gelosamente dal Drago, la cui uccisione solamente può rendere accessibile all’Eroe impegnato nell’impresa, apportandogli non la semplice ricchezza materiale ma dei “doni” spirituali che ne mutano il destino e la stessa natura interiore.
Di solito la “bestia immonda” ha la sua residenza in un luogo buio, umido e maleodorante, seminato dei resti in putrefazione delle sue vittime innocenti. Normalmente si tratta di una grotta, e spesso una grotta collocata al di sotto del livello di acque melmose e torbide che possono essere marine o quelle di un lago o pantano. Se il duello si svolgesse nel suo territorio prediletto, sarebbe praticamente impossibile riuscire a sconfiggerlo, essendo il Drago fortificato dal suo ambiente naturale, dove detta le regole ed è incontrastato signore. Per questo il primo compito che l’Eroe solare deve assolvere è quello di costringerlo ad abbandonare la sua tana e attrarlo fuori, per combattere in campo aperto. Talvolta il Drago è raffigurato con più teste, a indicare la sua dipendenza dalla molteplicità e la conseguente negazione dell’Unità. Egli sputa fuoco dalle sue fauci, un fuoco infero che è alimentato dal desiderio e dalle passioni di cui è schiavo, mentre lancia al contempo ruggiti e ululati, del tutto coerenti col suo costante umore iracondo e furioso. Inoltre egli è infido e mentitore, sempre pronto a tendere trappole e trabocchetti in cui far cadere il suo nemico, pur di condurre a buon fine le sue trame. Solitario e autoreferenziale, quindi dannoso e inutile per la società, fosse anche quella dei draghi, un’altra caratteristica non secondaria che lo contraddistingue è la sua invincibile pigrizia (per consumare il suo periodico pasto di sangue, egli esce dal suo letargo con ritmo annuale o a lunghe distanze di tempo), l’accidiosa malinconia e la pesante lentezza nei movimenti, non solo quelli fisici, le cui alucce da pipistrello non riescono ad assicurare alcuna agilità e leggerezza.
Di segno completamente opposto sono gli elementi che contraddistinguono e caratterizzano l’uccisore del Drago, nel quale risaltano in primo luogo la natura luminosa e solare e le virtù guerriere, evidenziate dalle sue armi distintive, tra le quali figura, oltre alla lancia, alla spada e al tridente, l’ascia bipenne, che poteva essere anche una mazza o un martello. Essendo l’Ascia uno dei simboli maggiormente rappresentativi e ricorrenti in tutte le tradizioni derivanti dall’unica Tradizione universale, le più antiche essendo state ricavate da ferro meteoritico, cioè da una sostanza caduta dal cielo, il cui uso fu fondamentalmente rituale e sacrale, proprio per questa sua origine celeste, essa simboleggia in particolare la folgore, specialmente nella sua rappresentazione Bipenne, che richiama l’aspetto duale della manifestazione, allo stesso modo del Pa-kua estremorientale: come la folgore essa frange e spezza, che sia impugnata dal guerriero e dall’eroe solare o dal sacerdote che compie il sacrificio. Il dio nordico Thor, il cui martello assolve alla medesima funzione dell’ascia, trasmetteva la sua potenza e la sua forza guerriera a coloro che ne avessero impugnato la stessa sua arma, l’Ascia, in quanto simbolo della presenza della stessa divinità. La relazione fra l’Ascia e la Folgore si ritrova, oltre che nell’India di Râma e nel Mâhâbhârata, nel ciclo mediterraneo di Zeus che con la forza della folgore abbatte i Titani e i Giganti che tentano di impadronirsi delle sedi olimpiche. Avendo relazione con la regalità, l’Ascia giunge alla stessa tradizione romana tramite gli Etruschi, andando a costituire la parte essenziale del fascio littorio, simbolo eminentemente sacro del potere e del diritto, in cui si riassume la sacralità del vincolo sociale rinsaldato dalle dodici verghe di betulla strette intorno all’asse cosmico costituito dall’impugnatura della bipenne. Con l’avvento del cristianesimo il simbolo venne conservato e trasmesso per esempio alla figura di Sant’Olaf, che come Thor ha una barba aurea e impugna l’Ascia, fino a giungere al simbolo del Tau di San Francesco.
L’aspetto solare dell’uccisore del drago è ulteriormente manifestato dalla serenità del suo volto e dalla compostezza dei suoi movimenti, anche durante l’infuriare della lotta più dura e cruenta, che ne fanno un’alternativa esemplare alla natura oscura e tamasica del suo avversario. Spesso, poi, egli presenta e mostra esplicitamente una insegna o un simbolo che ne indica l’appartenenza alle forze del Bene, a sottolinearne la leale scelta di campo e l’orgogliosa adesione (si pensi solo alla figura del San Giorgio cristiano, soldato e tribuno romano, incarnazione quindi di quelle virtù militari prima ricordate, che vota la propria esistenza alla difesa e protezione della comunità, per l’instaurazione della pace, dell’ordine e della giustizia, prototipo del cavaliere medioevale, che impugna uno stendardo bianco in cui è disegnata una croce rossa), di contro agli infidi sotterfugi e alle bugie dietro cui si celano e tramano i servitori del male. E sempre in ambito cristiano va detto che, se San Giorgio rappresenta il difensore terreno del bene e della luce, l’Arcangelo Michele, in quanto comandante degli eserciti angelici, è colui che ha il compito di garantire l’ordine divino nel mondo celeste, dove contrappone le sue ali di aquila a quelle da pipistrello dei demoni da lui schiacciati.
Infine, l’investitura celeste dell’uccisore del Drago è spesso confermata dalla consegna all’eroe di un oggetto o arma particolare, o dalla comunicazione di un segreto, di una formula o di una parola, che si riveleranno fondamentali ai fini dell’esito della battaglia. Tant’è vero che ogni qualvolta l’eroe decide di agire per conto proprio, quindi al di fuori di una tradizione regolare, fallisce regolarmente nell’impresa (vedi i diversi esiti dei combattimenti di Beowulf, il quale soccombe nella lotta col Drago di fuoco nel momento in cui rinuncia alla protezione celeste e confida unicamente nelle sue personali forze, che gli vengono meno nel momento decisivo). Tagliare la testa del Drago, essendo la testa sede dell’io, è l’abbandono dell’io, la negazione dell’io, l’abnegazione; inversamente, “fare di testa propria” significa affermare la propria individualità. Coloro che si rivolgono al mondo celeste non si voltano indietro, come del resto insegna la moglie di Lot, nell’episodio biblico corrispondente.
Appare a questo punto evidente che ogni sacrificio in realtà è un “sacrificio di se stessi”, tramite l’identificazione del sacrificante con la vittima. Tant’è vero che in tutte le tradizioni l’uccisione del Drago o di “ciò” che incarna le forze oscure e contrarie all’ordine celeste è spesso logorato da una vera e propria ripugnanza a uccidere l’avversario: Romolo nei confronti della sua controparte Remo; Mithra, a cui il Sole ha ordinato di uccidere il Toro, “ricevette contro la propria volontà questa crudele missione”; l’esitazione di Arjuna nella Bhagavad-Gitâ: «Io non combatterò»; e Indra che per uccidere Namuci, deve ricorrere a un sotterfugio che aggiri la promessa: «Io non ucciderò». Simboleggiando il Drago il nostro stesso io, è evidente che quello che deve essere ucciso, decapitato, smembrato, dato in pasto e annientato definitivamente è solo ed esclusivamente la parte negativa di noi stessi, armati della folgore (la Bipenne), simbolo dell’intuizione intellettuale, che Guido De Giorgio così ricordava in una sua lettera del 15 dicembre 1940 che, tramite il suo segretario particolare, doveva giungere al Duce del Fascismo: «né il ferro né i cannoni né queste miserabili macchine illumineranno coi loro transitori bagliori il segreto della folgore sacra balenante tra le dodici verghe del Fascio Littorio». Folgore da scagliare per sconfiggere quella parte di noi stessi che ci separa dal Principio, dal Padre nostro e ci allontana dalla Residenza Celesta, dove bisogna sforzarsi incessantemente di tornare per rendere veramente degna la nostra vita, che non va sprecata soggiacendo al soffio del Drago e alle sue influenze negative.
Le legende legate alla lotta col Drago ci possono allora fornire utili indicazioni pratiche, anche dal punto di vista delle scelte e dei comportamenti individuali e di gruppo, evidenziando i pericoli che possono derivare dall’azione nella società e nel mondo senza i necessari riferimenti dottrinari e senza le indispensabili protezioni dall’Alto. Se le tendenze caotiche e disgregatrici – le influenze demoniche infraumane e telluriche indicate dall’aggettivo “tifonico” – che nel mondo moderno cospirano per sovvertire l’ordine sacro per potersi manifestare ed agire necessitano degli innumerevoli “io” di supporti umani da usare come i cosiddetti fantasmi fanno coi medium nello spiritismo, non ci si potrà opporre ad esse agendo da sprovveduti schiavi del proprio io e privi delle indispensabili influenze spirituali di segno opposto. Per il “cercatore” dello spirito diventa allora indispensabile percorrere una via e intraprendere un viaggio che abbia come meta finale la stabilità nell’Essere e nel Centro, realizzando una immobilità, questa sì, dinamica e attiva, dove il “non agire” acquista un senso reale, venendo utilizzate attivamente tutte le sue facoltà, con l’attenzione costante che il percorrere la strada della conoscenza comporta, e dove acquista pienamente significato il sacrificio come “morte iniziatica” dell’individualità.