De Giorgio tra “parentesi”:
da Mohammed Keireddine a Padre Pio
Sabato 25 novembre 2017 si è tenuto a Roma il Convegno dedicato a Guido De Giorgio, organizzato da Raido, CinabroEdizioni ed Heliodromos, a cui sono intervenuti, oltre ad un rappresentante del CinabroEdizioni, Enzo Iurato per conto di Heliodromos, Angelo Iacovella e il Prof. Alessandro Scali, che ha presentato la raccolta di scritti di De Giorgio dedicati a Dante e alla Divina Commedia. Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento del nostro collaboratore Enzo Iurato.
Tempo fa ci è capitato di imbatterci al lavoro, nel giro di pochi minuti, prima in delle suore cattoliche di etnia indiana, e subito dopo in degli Hare Krishna italiani, ricavando da questa esperienza la sensazione latente che in quella scena ci fosse qualcosa di fuori posto: quasi un segno tangibile del disordine e della confusione che, dal punto di vista religioso, il mondo moderno ci propone continuamente. Perché non c’è dubbio che in una società normale alla veste esterna (l’abito religioso) avrebbe dovuto corrispondere una presenza etnica a parti invertite. Ogni singola tradizione infatti ha sempre fatto in modo di provvedere con saggezza e ponderazione al popolo cui era destinata l’“abito” maggiormente idoneo e adatto alle sue caratteristiche particolari.
Forse ci si chiederà cosa centra tutto ciò con Guido De Giorgio, cui sono dedicate le presenti note, ma la risposta a questa domanda risulterà chiara proprio andando ad analizzare il percorso spirituale del nostro, che rappresenta una risposta positiva e percorribile al guazzabuglio pseudo-spirituale offerto dal mondo moderno. Possiamo di fatto racchiudere l’esistenza di De Giorgio fra due “parentesi”, costituite dalle due vie di approssimazione al sacro che egli ha percorso durante la sua vita. In coincidenza con i suoi domicili geografici egli ha infatti usufruito delle opportunità corrispondenti praticabili: in Tunisia il sufismo, in Italia il cristianesimo concretamente incarnato nella figura singolare di Padre Pio.
Aprendo la parentesi: poco più che ventenne egli si trasferisce in Tunisia, fuggendo con una cugina (Gilda) con la quale ha instaurato una contrastata relazione da cui nasceranno tre figli (il maschio Havis, nato a Tunisi il 30 agosto del 1914, e le femmine Ulmaire e Dj’mila), e dove si guadagnerà da vivere per sé e per la sua famiglia insegnando italiano e filosofia. Soggiorno che si svolge «sulla spiaggia dell’ampio golfo di Tunisi, a Cartagine, Dermech, Sidi-bou-Said, La Marca, (…) tra le rovine fenicie e romane, tra burnos gonfi di vento, le sciroccate ardenti, le dune, il mare immenso, i gridi gutturali degli Arabi».
Il brano citato è ripreso da una singolare pubblicazione a firma Ezio Musso (ma in realtà redatta, come vedremo, dallo stesso Guido De Giorgio), intitolata L’Eroe del Gimma : Havis De’ Giorgio, un pamphlet di 50 pagine finito di stampare il 22 Gennaio 1942 presso la Tipografia Fracchia di Cengio in provincia di Savona, molto probabilmente a spese dello stesso De Giorgio, il quale si gettò a capofitto nell’impresa, che oggi definiremmo “mediatica”, di onorare in tutti i modi la memoria del figlio Havis da poco (7 marzo 1939) eroicamente caduto in combattimento in Etiopia. De Giorgio redasse questo come altri testi, facendoli poi firmare da suoi allievi e amici di Havis, per rendere omaggio e dare il dovuto riconoscimento al proprio figlio “offerto” alla Patria. Il nome Havis è infatti un termine sanscrito che significa proprio “offerta sacrificale”, così come del resto lo stesso pseudonimo scelto da Guido De Giorgio Havismat è sempre un termine sanscrito che vuol dire “colui che compie il sacrificio”; e già in questa simmetria anagrafica si può facilmente individuare la ragione dell’impegno commemorativo di De Giorgio. Di questo instancabile impegno in memoria di Havis v’è traccia nel racconto accorato fatto a Massimo Scaligero in una lettera del 18 dicembre 1940, pubblicata da Angelo Iacovella in appendice al suo intervento all’interno del volume collettaneo Esoterismo e Fascismo delle Edizioni Mediterranee; dove De Giorgio chiede in chiusura a Scaligero: «Ditemi se – per Havis – potete e volete fare qualcosa. Quanto a me, ciò non m’interessa. La mia esistenza è li. Ecco perché vivo. E il resto è cenere e morte».
E proprio in questa biografia di Havis, che era stata concepita per essere pubblicata e diffusa dal GUF, si trovano alcune descrizioni del soggiorno africano di De Giorgio: «Ivi a Sidi-bou-Said, tra i gelsomini in fiore, gli aranceti di una bella villa araba sul promontorio cartaginese che domina, lievemente innalzandosi, l’ampio golfo, fu caro a Mohammed Keireddine, un grande saggio dell’Islam, amico del padre suo, che adorava quel bambino così fine e sereno tra i cui riccioli amava poggiare spesso la mano mentre gli occhi or gravi or sorridenti erravano per l’ampia balconata sul mare lontano.» E la medesima descrizione è narrata dallo stesso Havis nel suo Diario di guerra: «Tutt’intorno mare, cielo, sabbia. Fissità solare, univocità di gesto di senso di pensiero d’adorazione: questo è il segreto dell’Islam. Ricordo anche la collina di Sidi-bou-Said una villa sulla costa alla svolta del promontorio, un uomo alto, stranamente, enormemente alto, colla barba, che mi si avvicinava sorridendo con una festa negli occhi, nel gesto, nella voce: Sidi Mohammed Keireddine, l’amico di mio padre. Un grande saggio dell’Islam, che parlava a lungo con lui sorridendogli tra le lunghe parentesi mentre io ruzzavo qua e là mordendo qualche ghiottoneria».
E la memoria rievoca luoghi e paesaggi, esteriori e interiori allo stesso tempo, confondendo nel ricordo Guido e Havis in una visione sicuramente comune a padre e figlio. Ricordo di «una terra ove non esiste la penombra ma solo l’ombra folta, tenebra quasi, e la grande terribile luce che squarcia, trafigge, divora. Solarità dell’Islam! …» (Visione di luce che una certa Sicilia conosce benissimo!) Quella solarità che Guénon associa con la consapevolezza dell’Unità del Principio per i popoli che vivono «nei posti ove il sole, per il suo intenso splendore, assorbe, per così dire, tutte le cose in se stesso, facendole svanire al suo cospetto, così come la molteplicità svanisce al cospetto dell’Unità, non tanto perché essa cessi di esistere secondo la propria modalità, ma perché questa sua esistenza è rigorosamente nulla nei confronti del Principio. (…) il “monoteismo”, dicevamo, ha dunque un carattere essenzialmente “solare”. In nessun posto esso è più rilevabile che nel deserto, ove la diversità delle cose è ridotta al minimo ed ove, al tempo stesso, i miraggi mostrano tutto quanto ha di illusorio il mondo manifestato. (…) Nella luce intensa dei paesi d’Oriente basta guardare per comprendere queste cose, per coglierne immediatamente la verità profonda; e soprattutto sembra impossibile non comprenderla nel deserto, ove il sole traccia nel cielo i Nomi divini a lettere di fuoco» (R. Guénon, Et-Tawhîd, Le Voile d’Isis, luglio 1930).
Proprio Guénon chiederà a De Giorgio, in una lettera dell’8 luglio 1947, notizie sul suo Maestro arabo: «Il nostro amico Vâlsan, la cui moglie è parente di Mohammed Kheireddine, mi ha chiesto se sapevo in quali circostanze l’avevate conosciuto: non gliel’ho saputo dire, non essendosi mai presentata l’occasione di parlarne con voi; potrei, se non sono troppo indiscreto, chiedervi di dirmi qualcosa a tal proposito?».
Mohammed Bey Keireddine (1870-1922), figlio del ministro e gran visir Tahar Keireddine Pasha, nacque in Tunisia e visse a Costantinopoli dall’età di 8 anni. Dopo il liceo, assetato di conoscenza approfondì la sua cultura d’origine e quella occidentale: Pitagora, Platone, Apollonio di Tiana, Alessandrini, i mistici medioevali e rinascimentali. La sua curiosità gli fa studiare anche numerosi intellettuali del tempo (Michelet, Taine, Spencer, Gustave Le Bon, Poincaré, Maeterlinck, Ibsen, James, Bergson) senza che questo gli faccia mai dimenticare le sue radici. Dopo un breve ritorno a Costantinopoli viaggia in Tunisia, Algeria, Egitto e Marocco dove, rifiutando la vita moderna, si isola per sei anni nella zaouïa (un “convento” sufi) di Marrakech. In seguito alla rivoluzione turca del 1908, richiamato dalla sua famiglia torna a Costantinopoli, dove incontra il grande sufi Sharafuddin Daghestani. Dirige il giornale dell’opposizione La Cherah, e, in seguito all’assassinio del ministro della guerra Soliman Chevket Pasha, viene arrestato e deportato a Sinope con il fratello che in seguito divenne ministro della giustizia in Tunisia. Mohammed Keireddine si stabilisce infine a Sidi Bou Said, alla periferia di Tunisi, dove trova un rifugio tranquillo per praticare la meditazione e il continuo scambio intellettuale, a cui un allievo fa riferimento in questi termini: «la storia, la filosofia, la religione, le scienze sociali, la letteratura, le leggende, il misticismo esoterico, trattava con tutti, secondo le circostanze, ma sempre con estrema originalità, con una tale ricchezza di vocabolario che questi colloqui, a cui era ammesso un numero limitato e ristretto di privilegiati, rimarranno per noi fonte di stupore perpetuo e inconsolabile rimpianto». Infatti, la sua morte improvvisa, avvenuta il 31 dicembre del 1922 per un attacco di cuore, sprofonda i suoi discepoli nel più grande sconforto.
Qualcosa di più riguardo al periodo islamico di De Giorgio è possibile ricavare dalle 18 lettere inviategli dalla Tunisia da Jaafar (Eugéne-Marino) Taillard nel decennio che va dal 1929 al 1939, presenti in originale fra le carte in nostro possesso. Taillard, nato il 21 novembre 1869 nel sud della Francia, a Saint Pierre d’Allevard, Cavaliere dell’Ordine Nīshān al-Iftikār che veniva concesso a personalità di nazionalità francese dal Bey di Tunisi su proposta del Gran Visir, Istitutore e Direttore della scuola di Kalaa-Kebira, professore di arabo e interprete presso i Tribunale di Susa e di Sidi Bou Said, autore dell’articolo La Présence Divine a la lumiére du Coràn nel numero 301 di Études Traditionnelles del 1934, convertito all’Islam scelse il nome Jaafar per la somiglianza del suo cognome con quello del cugino del Profeta Jaafar Tayaar. Abbracciato con entusiasmo l’Islam ne osserva con grande fervore tutti i precetti, ed essendo inoltre in possesso di antichi manoscritti sul sufismo, li studia approfonditamente scoprendovi tesori di conoscenza e ricevendone delle autentiche illuminazioni. Il suo primo istruttore fu proprio Mohammed Keireddine, che in una delle lettere a De Giorgio Taillard chiama “il nostro Maestro”, morto il quale, nel 1922, viene preso dal medesimo smarrimento di tutti i membri della Tariqah, essendo stato attaccatissimo a Keireddine col quale aveva condiviso una grande intimità. Resosi conto dell’impossibilità di progredire nel cammino iniziatico senza una guida, fece conoscenza col segretario dello Sceicco al-Alawî, Mohammed Laïd, che gli parla del suo maestro e lo convince che lo Sceicco era un alto iniziato, per cui Taillard decide di andare a trovarlo a Mostaganem nel 1924. Entrato in seguito in contatto epistolare con Guénon tramite De Giorgio, svolse la funzione di intermediario per fare entrare in contatto gli Occidentali indicatigli da Guénon con lo Sceicco al-Alawî.
In una lettera del 10 agosto 1931, scrive Taillard: «Spesso ricordiamo le ore passate con voi in incontri appassionanti. Dove ci avete consigliato di leggere i libri di Guénon, cosa che abbiamo fatto. Lo studio delle sue opere ci è stato tanto utile e tanto fecondo che ve ne siamo molto riconoscenti; e tengo ad esprimervelo. Noi comprendiamo adesso il valore che voi attribuite al loro Autore e condividiamo pienamente la stima e l’attaccamento che avete per lui. Rimaniamo per questo mese ancora a Sidi Bou Said dove abbiamo trascorso l’estate. Siamo qui in particolare in compagnia del ricordo del nostro Maestro Keireddine, i cui insegnamenti penetrano il nostro essere più profondamente e la solitudine e la calma che ci avvolgono ci portano a comprenderli meglio. Durante quest’estate ci ha sorpreso sentirne insieme la presenza. Dall’alto delle cime delle vostre belle montagne ricordatevi ancora qualche volta della nostra amicizia spirituale. Molte delle vostre lettere sono per me un supporto di meditazione, una fra loro in particolare. Addio anche in comunione nella Realtà». E in una successiva di un mese dopo (10 settembre 1931), precisa: «Saremmo stati felicissimi di rivedervi, ma non ci è stato possibile tornare in Italia. Questa estate abbiamo approfittato del vostro contributo per conoscere meglio il vostro grande amico René Guénon. I graditissimi omaggi L’homme et son devenir d’apré (sic!) le Vedanta e Le Symbolisme de la Croix ci sono stati molto utili.»
Per chiudere la “parentesi” aperta in Tunisia sotto le insegne dell’Islam, bisogna seguire De Giorgio nella seconda parte della sua vita, in Italia, dopo un breve soggiorno francese durato un paio di anni. Il “ritorno al solco in cui era nato” lo ricollega naturalmente al Cristianesimo, che diventa il punto d’appoggio fondamentale per il prosieguo della sua ricerca spirituale e per l’elaborazione delle sue opere principali e dei suoi singoli scritti. Un punto di riferimento fondamentale, avvicinabile in quanto vivente e a lui contemporaneo (nonché coetaneo e conterraneo, in quanto Pietrelcina dista pochi chilometri da San Lupo!), egli lo individua nel dopoguerra in Padre Pio, al quale dedicherà un’attenzione particolare, fino alla fine dei suoi giorni.
Scrivendo a Schuon nel 1950, De Giorgio presenta al suo corrispondente il suo scritto dedicato a Padre Pio Ciò che mormora il vento del Gargano (firmato Havismat e uscito nel 1948), di cui gli ha inviato una copia: «Vi allego un opuscolo che parla di un Santo, P. Pio, un Cappuccino, che vive in un convento, in fondo all’Italia, e che è terribilmente protetto da una ridda di miracoli e da folle oceaniche che incessantemente vanno a trovarlo. Egli dice la Messa – che dura circa 2 ore –, confessa, dà la Comunione. È un santo molto particolare, molto violento e molto dolce e la sua influenza di presenza è molto forte. Somiglia stranamente a Mohammed Keireddine, un sufi, che ho conosciuto molto bene in Tunisia, alcuni anni fa, e che è morto nel 1922. Sarebbe troppo lungo (Guénon, che mi conosce bene, sa tutto e s’interessa molto a P. Pio) raccontarvi perché questo opuscolo è stato scritto e perché è stato scritto così com’è». E di Padre Pio De Giorgio aveva cominciato a parlare a Guénon nell’estate del 1947, se proprio in una lettera datata 8 luglio di quell’anno Guénon scrive: «Non ho mai sentito parlare di questo “Padre Pio”, può essere che ci sia una certa esagerazione in quel che si racconta di lui, ma deve sicuramente esserci comunque qualcosa; mi direte quello che avrete saputo di nuovo a tal proposito.» Sicuramente De Giorgio ha risposto alla richiesta con notizie aggiornate e più dettagliate se, in una successiva lettera del 15 novembre dello stesso anno, René Guénon, a proposito di retroscena tenebrosi di alcune presunte apparizioni mariane, precisa: «ma, beninteso, il caso di Padre Pio fa l’effetto di essere qualcosa di completamente diverso. Mi domando anche, a proposito di quest’ultimo, se a Roma se ne occupano più o meno ufficialmente, e se gli sono favorevoli o contrari; d’altronde, questo non prova nulla, ma potrebbe fornire un’indicazione sulle tendenze oggi predominanti nel mondo ecclesiastico. Su ciò che accade all’interno di quest’ultimo, mi sono giunte notizie che sembrano indicare un disordine piuttosto vasto e un’avanzata sempre più accentuata delle idee moderne».
Sempre Guénon torna sull’argomento in una lettera dell’8 marzo 1948, alla luce delle ulteriori informazioni fornitegli da De Giorgio, che nel frattempo aveva narrato nel suo opuscolo già ricordato Ciò che mormora… l’incontro col frate di Pietrelcina, «non sono stupito delle conseguenze che ha avuto per Lei la visita a Padre Pio, e senza dubbio è stato meglio così, giacché la pratica dei riti di una tradizione è non solo importante, ma addirittura essenziale, questo si accorda molto bene, come ha potuto vedere, con quello che io stesso ho scritto sulla necessità dell’exoterismo; ma quanta gente oggi non può o non vuole capirlo! Mi ha molto interessato ciò che Lei dice di Padre Pio e della visita che gli ha reso; per fortuna è riuscito finalmente a superare la sua avversione ai viaggi! Sembra davvero che vi sia qualcosa di assolutamente straordinario sotto molti punti di vista; anche la sconcertante somiglianza da Lei notata con Mohammed Kheireddine è molto strana… Che il suo ruolo, come Lei dice, non sia affatto quello di insegnare, non è affatto inverosimile; si tratterebbe piuttosto, se capisco bene, di una specie di azione che esercita intorno a sé con la sua stessa presenza, la qual cosa fa pensare al ruolo degli afrād nell’esoterismo islamico (e beninteso può esistere qualcosa di analogo in tutte le forme tradizionali). Quanto all’ostilità esistente tra lui e il clero, non occorre dirLe che non mi stupisce affatto; anzi, sarebbe strano il contrario, con le tendenze attualmente predominanti. (…) Vero è che non si può mai sapere esattamente che cosa può esserci ancora in certi monasteri; ma, anche a questo proposito, ciò che dicono coloro che sono nella posizione di potersene rendere conto, è tutt’altro che incoraggiante (da questo punto di vista sembrerebbe essere rimasto qualcosa di più nella Chiesa greca ortodossa). In fondo, crederei più volentieri all’esistenza in qualche modo indipendente, sparsa, di taluni esseri eccezionali, e Padre Pio mi sembra uno di questi; e tutto ciò che si può sperare dalle autorità ecclesiastiche è che li lascino un po’ in pace e non impediscano loro di esercitare questa “azione di presenza” di cui parlavo.»
E a ben guardare, la funzione del frate di Pietrelcina appare sicuramente diversa da quella del sufi tunisino, apparendo la figura di Padre Pio come quella di un “guardiano” della fede in Cristo impegnato a contrastare il maligno e a vegliare contro l’avvento dell’Anticristo; anche a dispetto delle incomprensioni dei suoi superiori gerarchici. In un’altra lettera del 25 febbraio 1949, Guénon torna sull’argomento che è evidentemente diventato centrale negli scambi epistolari con De Giorgio: «Il racconto del suo viaggio mi ha molto interessato, come può immaginare; ma è un vero peccato che abbia dovuto farsi accompagnare da qualcuno che mi sembra l’abbia un po’ intralciata e anche, da un altro punto di vista, che Padre Pio sia sempre così inavvicinabile a causa della folla, che anzi, a quanto Lei dice, sembra diventare sempre più enorme. Beninteso, penso proprio come Lei che queste persone non possono capire nulla di un’azione profonda e che non vedano nulla al di là dell’esteriorità; è già qualcosa che ne ricevano una certa influenza; evidentemente, ciascuno prende ciò che può, e, giacché la cosa è “pubblica”, non sarebbe nemmeno concepibile che possa essere diverso… Ma, per lui stesso, capisco che la corrente diretta verso di lui da questa folla fornisca un certo sostegno alla sua azione; e non si potrebbe dire che l’influenza percepita da questa gente, malgrado l’incomprensione, ne sia come un reciproco, o come una specie di “contraccolpo” naturalmente benefico? – Le parole o i suoni che pronuncia durante la messa sono davvero una cosa molto strana; ma forse la cosa più sconcertante è che lo lascino libero di fare tutto ciò che vuole, anche ciò che potrebbe essere scambiato, dall’esterno, come un’infrazione alla liturgia; sarebbe curioso conoscere che cosa possono vedere i suoi superiori in tutto ciò… – Non credo si possa parlare di una “ostilità” da parte sua contro di Lei; il termine “diffidenza” che Lei impiega sarebbe forse più corretto, nel senso che sicuramente vede in Lei qualcosa di diverso dagli altri con cui ha a che fare, e che è possibile che in un certo senso si trovi in imbarazzo. Per quanto riguarda quel che Le è accaduto quando ha voluto servire alla sua messa, anche questo è molto singolare, ma si può davvero attribuirlo a lui, e che cosa glielo fa pensare, malgrado lo stesso Padre Pio l’abbia negato? Il malessere che Lei ha provato non potrebbe essere stato dovuto a qualche reazione inconscia dello “psichismo” collettivo della folla? Non voglio qui affermare nulla, ma Le dico solo quello che mi sembra più verosimile… Quanto Lei dice a proposito dell’impressione che le fa il suo sguardo, a confronto con quello degli altri, mi sembra indichi che in lui non dev’esserci ostilità. Se Lei potesse ritornarvi con quel sacerdote di cui parla, sarebbe senz’altro meglio che con il suo ex allievo; è solo che tutta questa folla sarà necessariamente un ostacolo per avvicinarlo, giacché non sembra che si possa sperare che questo afflusso diminuisca».
E il tema viene ancora affrontato, per quanto ne sappiamo per l’ultima volta, in una lettera datata 19 giugno 1949, dove le critiche alla Chiesa diventano inequivocabili: «non credo che oggi i preti capiscano più degli altri; tutto quello che dite dell’istruzione che essi ricevono e che sembra fatta per impedirgli di approfondire mi sembra perfettamente giusto, e non c’è proprio niente da fare contro questo, come contro l’incomprensione stupida della massa degli Occidentali… Ma la questione più importante sarebbe se c’è ancora, nella Chiesa, qualcuno che sappia di cosa si tratta e che conservi coscientemente la dottrina interiore (…), tranne forse per qualche caso del tutto eccezionale, come per esempio, se volete, quello di Padre Pio se è veramente così come sembra dopo tutto quello che mi avete detto. (…) Le reazioni provocate dal vostro opuscolo sono, non direi sorprendenti, ma più o meno curiose; la cosa singolare è che i Francescani mostrino ostilità o indifferenza riguardo a Padre Pio; non sarebbe più naturale che essi provassero un po’ di devozione per uno di loro? (…) La paura che le persone hanno di Padre Pio è una cosa molto curiosa; in fondo, non pensate che questa derivi dal fatto che essi sentono più o meno confusamente che c’è in lui qualcosa che sfugge loro? La maggior parte delle persone ha sempre paura di quel che non capisce. Rocco mi diceva recentemente che uno dei suoi amici di Napoli è andato a vedere Padre Pio e che anch’egli ne ha ricevuto una grande impressione; ma sembrerebbe che è sempre più impossibile avvicinarlo».
Alla luce delle conoscenze dottrinarie e delle esperienze reali da lui vissute, che nessuno può negargli, sarebbe riduttivo inquadrare la figura dell’ultimo De Giorgio in una dimensione esclusivamente exoterica e confessionale, quando in realtà la sua vita può rappresentarci una sintesi perfetta fra il dentro e il fuori, fra “la scorza e il nocciolo”, indice di completezza tradizionale. Nel suo scritto Islam (pubblicato nello Speciale di Heliodromos a lui dedicato), De Giorgio scrive: «Una è la legge e questa legge comprende, come la luce incolore, tutte le luci, tutti gli atteggiamenti che quell’animale vario che è l’uomo può, in sua varietà, variamente assumere, secondo la natura sua propria: questa legge riconduce tutte le vie a un solo punto a un solo centro e questo centro è il centro stesso dell’essere è l’asse di tutta la manifestazione questo centro è il Polo assoluto, questo centro è Allah. Allah solo è»; e prosegue: «La illaha illa Allah, la linea della circonferenza è percorsa e negata e riportata al centro ove si esala nel Suo nome: Allah».
Alla nascita, il singolo individuo viene come scagliato dal soffio divino all’esterno, lontano dal centro e verso la periferia, attraverso gli spazi e i cerchi concentrici che circondano il Punto, e in questa sua corsa centrifuga egli accumula i detriti, le polveri, i frammenti, le schegge, le scorie, le particelle proprie dello stato umano che a fine corsa ne determineranno forma e sostanza. Passeggiando su una spiaggia non è raro imbattersi in aggregati di alghe cui il moto ondoso ha dato la forma di una palla solida, dura e perfettamente sferica: tale risulta il singolo individuo gettato sulla “riva” dell’esistenza. Solo che a differenza della palla di alghe, l’essere umano si è raccolto, nella sua materializzazione, attorno ad una scintilla spirituale che ne costituisce l’essenza ed il collegamento con l’Origine Prima. Il richiamo della parte sostanziale verso questa sua origine determina le condizioni per intraprendere il cammino del “ritorno a casa”, attraverso un processo di purificazione e di distacco dalle scorie e dai detriti, percorrendo il cammino iniziale in senso inverso e mettendo ordine nelle regioni prima attraversate in balia dell’uragano della manifestazione.
La circonferenza corrisponde all’exoterismo, mentre il Centro raffigura simbolicamente il Principio. I raggi che collegano ogni punto della circonferenza al centro rappresentano le diverse Vie iniziatiche, e il loro tracciato l’esoterismo vero e proprio, che entra in gioco ogni qualvolta un essere umano si orienta verso il Centro. Sulla “circonferenza”, in cui il cammino è appunto circolare, essendo contrassegnato dai diversi ritmi “liturgici” del ciclo annuale, si lavora per il controllo delle passioni e per tenere a bada le tendenze e le inclinazioni negative (i peccati). Sul “raggio”, con l’ausilio di un maestro in grado di trasmettere una influenza spirituale, adattando alle condizioni proprie dell’adepto le tecniche, i metodi e gli esercizi presenti in tutte le tradizioni (concentrazione, invocazione, silenzio, solitudine, digiuni, veglie, preghiere e pellegrinaggi), si opera per il superamento delle passioni e dello stesso stato umano, puntando alla liberazione da ogni inclinazione negativa e da ogni condizionamento dualistico. L’orientamento verso il centro determina le condizioni per intraprendere una via realizzativa, e non per nulla nelle Upanishad si afferma che «si diventa esattamente della sostanza di quello su cui si fissa la mente».
E visto che si è prima parlato di un santo come Padre Pio, va detto che già nella semplice dimensione religiosa le figure dei Santi Patroni (siano essi relativi a mestieri e singole attività umane, quanto alle città e ai singoli individui, di cui diventano i protettori naturali) rappresentano il tramite fra il Centro e la circonferenza, su cui riversano le influenze spirituali del Principio. E perfino gesti apparentemente “anacronistici” come potrebbero sembrare quelli di certi calciatori e sportivi che, entrando in campo, si fanno il segno della croce o imitano con le mani il gesto della preghiera musulmana del libro aperto, compiono comunque un gesto rituale, forse inconsapevole e folkloristico (nel vero senso racchiuso in questo termine!), che riconduce comunque a significati oramai perduti di sacralizzazione di ogni atto dell’esistenza umana.
Il fatto è che in un mondo senza tradizione la circonferenza esplode e lo smarrimento diventa sempre più esteso e generalizzato. Il processo sovversivo non risparmia niente e nessuno, e De Giorgio lo segnala, quasi sconfortato, a conclusione del suo già ricordato scritto Islam: «Ma vi è come un malo soffio che sconvolge tutte le vie che menano alla verità: e ciò fa parte dell’ordine superiore a ogni constatazione pessimistica, poiché la verità deve essere calpestata, e il nome d’Allah flagellato e dimenticato perché in Allah si rinnovi il nuovo uomo che sarà anche l’Ultimo Uomo. Ecco perché l’Islam muore e il nome di Allah è un nome sconosciuto da coloro che lo pronunziano agitando le labbra in un battito che non è l’aspirazione realizzatrice del cuore mondo del cuore purificato, del cuore, Allah»; chiudendo con un versetto del Corano, promessa di giustizia finale: «E quelli ch’Egli fuorvia non sono che i violatori i pervertitori i separatori: e quelli saranno anche i perditori».
E come non dargli ragione, se solo si pensa ad aberrazioni tristemente attuali, in cui il nome di Dio viene continuamente nominato invano per giustificare derive omicide ed assolutamente antitradizionali. La frattura rappresentata per l’Occidente dalla Riforma protestante, a cui significativamente oggi si guarda con rinnovata simpatia da parte delle più alte gerarchie ecclesiastiche, fa il paio col “protestantesimo salafita” che in questi giorni avvelena l’Islam. E proprio a tal proposito, in una sua lettera a Schuon (che si può leggere in Prospettive della Tradizione, Appendice), De Giorgio domanda: «Perché, mi chiedo, si parla del Cristianesimo, di quel che è di quel che era, di quello che dovrebbe essere, e poco, e male, e anche affatto dell’Islam, dell’India, della Cina ecc.? Il mondo si rovescia, crolla da ogni parte, sia in Occidente che in Oriente, è anche naturale che tutto ciò sia dovuto all’Occidente poiché occidens ha un duplice significato, che perisce e che fa perire… Perché ci si accanisce a mettere tutti i punti sulle i riguardo al Cristianesimo come se si ignorasse il corso naturale e provvidenziale delle cose, lo sviluppo e lo sbocco del dramma cosmico…?».
Essendo oggi il punto di partenza dell’uomo comune uno stato subumano, è necessario che prima di intraprendere qualunque percorso di ascesi egli si sottoponga ad una vera e propria ricostruzione interiore, che muova dalla consapevolezza dell’infima condizione in cui esso si trova, anche in seguito a tutta una serie di attacchi ed influenze negative portati dal mondo moderno sul suo corpo e sulla sua psiche, a cui potrà rispondere solo ricorrendo ad un “allenamento” uguale e contrario, incentrato su un’igiene per il corpo e per la mente fatta di conoscenza dottrinaria e dell’uso di tecniche decondizionalizzanti rispetto ai vizi propri dell’uomo moderno.
Un mondo cresciuto e sviluppatosi sotto il segno perverso della contraffazione e della menzogna, dove di fatto si è avuta una decadenza nell’intellettualità in cambio di un progresso nell’agiatezza, genera solo schiavitù, poiché solo la Verità rende liberi. De Giorgio è stato un uomo libero, a cominciare dalla sua coerente scelta di vivere “into the wild”, già in tempi non sospetti, quando non si era ancora diffusa la moda letteraria dell’esistenza selvaggia, per questo lo riteniamo un modello imprescindibile per noi. Lui, insieme ad Evola e Guénon, quasi eleggendoli tutti è tre a nostri ideali “protettori”, assegnando ad ognuno di loro la cura di ogni singola componente della struttura del nostro essere: Guénon (intransigente sul piano spirituale), Evola (intransigente sul piano politico e culturale) e De Giorgio (intransigente dal punto di vista fisico ed esistenziale). Intransigenti e irriducibili, non disposti a scendere a patti col mondo moderno e con tutte le sue perversioni e falsità, modelli e punti di riferimento unici, così ricchi di contenuto e significato per un’esistenza altrimenti vuota ed insensata. Evola, De Giorgio e Guénon sono i fari con cui possiamo illuminare le tenebre sempre più incombenti e apparentemente trionfanti. A loro assegniamo il ruolo di guide e nel loro esempio confidiamo per la conferma nella ricerca del simile fra i “ben orientati”, per svolgere un’azione di chiarimento e formazione verso i “disorientati” e per combattere senza tregua e fino all’ultimo i “contro orientati”.
Enzo Iurato
*L’immagine posta in apertura raffigura Jaafar Taillard, l’amico di De Giorgio citato sopra, e Abdelkarim Jossot, nel giardino della zaouïa di Mostaganem. Derwish al-Alawi, in questa riproduzione, corregge la didascalia originaria affiancando ai presunti personaggi citati le foto di Taillard (in abiti occidentali) e Jossot, per dimostrare, somiglianze alla mano, la vera identità di chi vi è raffigurato. Di Jossot, nella già citata lettera a De Giorgio dell’8 luglio 1947 (in Heliodromos – Speciale De Giorgio), Guénon scrive: «Sembrerebbe che Jossot sia ancora vivo (mi sembra che dovrebbe essere molto vecchio), ma parrebbe che abbia abbandonato l’Islam; ho visto in effetti recentemente un suo articolo, del resto del tutto insignificante, nel quale dichiarava di essere “al di fuori di ogni religione”, e, per giunta, egli non si firma più Abdel-Kârim come altre volte, ma semplicemente Jossot. La cosa curiosa è che questo è uscito in Algeria su una pubblicazione islamica; c’è qualcosa che non capisco…».