Trionfo dell’ipocrisia nell’Italia neodemocratica
Di Vilfredo Pareto, il grande sociologo antidemocratico italiano, è poco nota un’opera minore che, scritta più di trenta anni fa, torna a presentare un carattere singolarmente attuale. Si chiama Il Virtuismo. Causata da certe iniziative moralizzanti che nella democrazia di allora, in Italia e in Francia, avevan fatto capolino, essa sembra fatta su misura per stigmatizzare, con un pensiero tanto rigoroso quanto caustico, il ritorno assai più impertinente della stessa mentalità che, soprattutto nel segno della democrazia cristiana, si constata nell’attuale Italia “liberata”. Non sarà privo di interesse ricordar qui le idee del Pareto.
«Vi è attualmente un certo numero di persone – dice dunque il Pareto[1] (p.35) – formanti una certa consorteria simile a quella religiosa; che si agitano per ottenere che il braccio secolare imponga la virtù quale esse la concepiscono. Ricordando la parte avuta dai Domenicani ai tempi dell’Inquisizione, si potrebbero chiamarle i Domenicani della virtù; ma un’altra espressione è più espressiva, per esse: i Virtuisti». Il Pareto rileva questa singolare circostanza: si vuole che ci si trovi in un’epoca in cui il “progresso” ha realizzato la libertà d’opinione; perciò non esiste, per lo Stato democratico, una unica dottrina “ortodossa” quanto ad organizzazione sociale, nelle repubbliche si tollerano partiti monarchici e nelle monarchie si tollerano partiti repubblicani, la libertà di culto è proclamata, alla propaganda comunista, se non pure anarchica, è lasciata via libera, e così dicendo. Caduti tutti i tabù, uno però ne resta, con valore di dogma, quello della virtù e del moralismo sessuale. Su ciò, in democrazia non si ammettono discussioni e si pretende che lo Stato intervenga, così come ieri la Chiesa esigeva che il braccio secolare intervenisse per imporre i dogmi cattolici. Si può esporre – dice il Pareto – un giornale che incita il proletariato a “sterminare la borghesia” in un’edicola; «ciò non è proibito; ma esporre una donna nuda è proibito».
Uno degli argomenti preferiti dai virtuisti è, come si sa, quello di non scandalizzare la gioventù, di proteggerla contro la “letteratura immorale”. Ma proprio qui si rende evidente il sofisma virtuista. A parte una serie di considerazioni circa tutte le difficoltà che s’incontrerebbero ove si volesse agire coerentemente ed efficacemente in tal senso (E i classici? E la nudità delle statue e nelle pitture? E l’ormai irrevocabile libertà della gioventù?), il Pareto rileva nuovamente che se davvero si volesse preservare la gioventù dai peggiori pericoli, è una ben diversa “cattiva letteratura” che dovrebbe esser considerata in blocco: quella, ove si mette in ridicolo la patria e il sentimento religioso, che predica il disfattismo e la guerra civile, che attacca la forma di governo, l’onore nazionale, la famiglia: è da qui che si dovrebbe cominciare. Ma se ciò si facesse, s’innalzerebbero le più veementi proteste contro il “despotismo”, contro l’attentato alla “libertà d’opinione”. È solo delle faccende sessuali che ci si preoccupa; essenzialmente a tale riguardo si sente il dovere di “proteggere la gioventù”; lo Stato, in ciò, non può essere “agnostico”. Tutto è permesso, o quasi, salvo toccare questo tasto (pp. 5-6, 27-28).
I virtuisti pretenderebbero che le loro idee, informate da una specie di odio teologico per tutto ciò che riguarda il sesso, siano talmente al di sopra di ogni discussione, che solo una mente corrotta può metterle in dubbio. A sentirli, la morale, virtuisticamente interpretata, sarebbe la premessa indispensabile per assicurare la forza e la prosperità dei popoli.
Ma le cose stanno altrimenti, e il Pareto lo dimostra con una documentazione serrata. Ad esempio, «la Grecia e Roma antica tengono, nella storia dell’umanità, un posto grande e onorato; è dunque incontestabile che la loro morale, quale pur fosse, non era incompatibile con qualità eminenti in tutti i rami dell’attività umana». Sennonché tale morale è ben lungi dal riflettere l’ideale virtuista (p. 33). Filippo il Macedone, Alessandro, Alcibiade, Cesare non conobbero scrupoli nel campo sessuale, ma pur dettero l’esempio ai loro soldati per coraggio, per forza d’animo, per resistenza alle privazioni. Quale quadro sinistro ci è stato dato della “moralità” di Catilina e dei suoi amici? Ma è poco probabile che i virtuisti di oggi sarebbero caduti così eroicamente, come essi caddero. Le stesse considerazioni che valgono per Cesare e per Alessandro valgono anche per Maometto e per i suoi seguaci che seppero creare il miracolo dell’Islam e della sua civiltà religiosa e guerriera, e così pure per tutta una serie di altre grandi figure, sino ad un Napoleone, che esplicitamente dichiarò non poter considerare valide per lui le norme della morale sessuale borghese, e per un Metternich. Gli esempi si potrebbero moltiplicare a volontà. E, volendone aggiungere uno recente, nella Germania moderna il virtuismo è pressoché sconosciuto, la libertà in campo sessuale è ampia (né fu contrastata dallo stesso nazismo); ma ciò non ha per nulla pregiudicato le virtù, degne davvero di tale nome, dimostrate da quel popolo in pace e in guerra. Bisogna dunque riconoscere col Pareto che «la storia smentisce in maniera chiarissima che il mito virtuista sia essenziale per assicurare la forza e la prosperità dei popoli» (p. 175). In ben altri settori vanno difese le forze di una stirpe, ben altre cose hanno veramente peso volendo difendere e rendere virile una gioventù.
Riferendosi ancora a Roma antica, il Pareto ricorda, in fatto di ampiezza di vedute, due piccanti episodi che riguardano niente di meno che la severa figura di Catone il Censore. Un giorno questi si trovava nelle feste dette Floralia, ove era d’uso far spogliare completamente delle ragazze. Il popolo, sapendo della sua presenza, non osò chiedere lo spogliamento. Catone, di ciò avvertito, si affrettò ad allontanarsi affinché il popolo potesse godere dello spettacolo cui era abituato. Naturalmente, un virtuista d’oggi – nota il Pareto – sarebbe rimasto “per impedire lo scandalo” e tutelare la “moralità” – salvo, aggiungiamo noi, gratificarsi privatamente di spettacoli ancor più allettanti. L’altro episodio si riferisce a Catone che, vedendo un giovane che cercava di nasconderglisi perché usciva da una delle “case chiuse” di allora – tempi, in cui il Senato appariva come un “concilio di re” (Plutarco) e non vi figuravano delle Merlin – lo richiamò e lo lodò. Vedendolo però uscir da là spesso, gli disse che poteva lodarlo se vi era di passaggio, ma non se intendeva farvi la sua dimora. Tutto questo si riferisce dunque ad una delle figure più severe della romanità, a Catone Uticense.
Il Pareto rileva che «molti storici sono indotti in errore per non distinguere sufficientemente fra tre cose differentissime: il virtuismo, la temperanza e la dignità. I Romani ignoravano la prima, tenevano in gran considerazione la seconda, in considerazione ancor più grande la terza» (p. 166). Virtus, romanamente, significa ben altro che moralismo sessuale e parrocchiano. Di virtù romane, oggi si vuol saperne poco – non è forse stato ufficialmente detto che la romanità, che il fascismo voleva far rivivere, non è che bolsa retorica? Invece si torna al virtuismo e per le cose sessuali ci si inquieta assai più che per ogni opera di disfattismo antinazionale e di sovversivismo rosso. Il detto di Mirabeau: “La piccola morale uccide la grande”, lo si ignora; non possedendo la grande, si vuole imporre democristianamente, in un ambiente di corruzioni politiche d’ogni sorta, la piccola, e con la “moralina” (per usare l’espressione nietzschiana) si pensa di rimetter su l’Italia. Il castratismo virtuistico, non la virtus romana, dovrebbe esser la parola d’ordine. E, certo, basterà tenersi ad essa per sorpassare le prove che l’avvenire ci riserva.
Julius Evola
(da Meridiano d’Italia, 2.3.1952; ora in Critica del costume, Il Cinabro, Catania 1998)