Il predominio dell’empietà
Se affermassimo che oggi noi ci troviamo a vivere in un mondo tramutato nel “regno dell’empietà”, probabilmente si penserebbe che stiamo esagerando e che vogliamo scimmiottare le profetiche predicazioni del Savonarola contro la corruzione dei costumi del suo tempo. Ma, opportunamente rimossi simili millenaristici riferimenti, molto più semplicemente riferendoci a quanto accade oggi intorno a noi, non possiamo ignorare il carattere visibilmente empio dell’operato della maggior parte dei singoli e dei gruppi a noi contemporanei. Una deriva apparentemente irreversibile, che trascina nei suoi tumultuosi vortici perfino gli uomini che dovrebbero essere di Dio — per una scelta di vita teoricamente improntata all’imitazione di Cristo e alla ricerca della santificazione (e non della sanificazione!) —; nonché gli uomini che ricoprono cariche politiche o che rappresentano il sapere, la conoscenza e la cultura, tutti quanti i quali dovrebbero mettere le loro intelligenze e le loro energie al servizio della comunità d’appartenenza, seguendo principi di giustizia e di libertà, perseguendo sempre e solo il bene comune.
Isidoro di Siviglia, nel suo Etymologiae, definisce l’«Impius, quia sine pietate religionis est», essendo l’empietà propriamente il disprezzo per le cose sacre, il sacrilegio, la profanazione e l’efferatezza: in definitiva, la negazione di ogni pietas, che si accompagna normalmente alla più crudele e scellerata malvagità. Non a caso Dante designa i cerchi dell’Inferno «empi giri», ove egli colloca ogni tipo di vizio e di peccato, che caratterizzarono il transito terreno delle anime tristi lì recluse per l’eternità; rivolgendo con particolare durezza l’accusa di empietà ai suoi stessi concittadini («dimmi: perché quel popolo è sì empio…?», gli chiede Farinata), in ragione del rapporto continuo e costante della sua dottrina e visione del mondo con gli avvenimenti “politici” e col reggimento stesso dello Stato. A dimostrazione che l’Uomo della Tradizione non smette mai di fare i conti con la realtà; riflettendosi sempre la reale presa di contatto col Cielo con quanto accade sulla Terra.
Nei “Colloqui con se stesso”, Marco Aurelio — modello realizzato del platonico governo dei sapienti e raro esempio di adesione ai principi superiori applicati nell’ordinamento politico della società umana —, sottolinea costantemente l’esigenza di obbedire alla parte divina di sé piuttosto che a quella animale; giungendo inevitabilmente a trattare proprio le varie forme di empietà e i suoi effetti, che vanno ad avvelenare, corrompere e dissolvere gli elementi fondanti di ogni società sana e rettamente orientata. Infatti, a suo dire, l’universale natura prevederebbe che tutti gli esseri razionali si dedicassero al reciproco aiuto, evitando ogni vicendevole danno: commettendo, dunque, empietà chiunque ne trasgredisce il decreto e fa ingiustizia. Talvolta, anche con la semplice omissione: «Viola un precetto di giustizia spesse volte l’uomo che non fa qualche cosa; e non soltanto colui che fa qualche cosa».
Altrettanto empio risulta, sempre secondo l’Imperatore filosofo, colui che dice menzogna. Essendo infatti uno dei nomi della natura: verità («causa prima di tutte le cose vere»). Mentire vuol dire, allora, recare un grave danno al fondamento stesso della vita umana e, in primo luogo, a se medesimi, deformando il proprio essere e fondandolo sull’inganno e il sopruso, che distruggono l’ordine del mondo, precludendogli ogni via d’accesso alla luce della conoscenza e ad ogni possibile catarsi, oltre che ad una sana esistenza comunitaria. Per Marco Aurelio è dimostrato che «l’uomo che agisce per conto suo in senso contrario alla verità combatte appunto contro natura». L’empietà del mentitore, in definitiva, consiste nel risultare al contempo dannoso a se stesso e a tutto ciò che lo circonda. Come dimostrano abbondantemente gli innumerevoli esempi che la realtà politica e sociale odierna ci propone incessantemente, con l’ascesa del “bugiardo” (al contempo ridicolo e ripugnante nella sua anomalia!) ai più alti ruoli di comando e rappresentatività.
E ancora, «anche l’uomo che persegue i piaceri come fossero altrettanti beni; colui che fugge dal dolore come fosse un male, ebbene: anche costui commette empietà». I piaceri, quando non diventano addirittura illeciti e contrari all’ordine naturale delle cose, dovrebbero comunque mantenere un loro ruolo marginale ed essere tenuti sotto controllo, affinché non gli sia consentito di invadere e monopolizzare la mente e la coscienza di ognuno, rendendolo loro schiavo. È oramai invalsa, invece, l’abitudine di percepire come un’ingiustizia qualunque ostacolo o impedimento al soddisfacimento dei propri desideri, compresi quelli chiaramente caratterizzabili oggi come vizi borghesi, tramutati in diritti inalienabili del singolo individuo. Si ritiene così di giustificare con un semplice espediente dialettico il lungo elenco di perversioni magistralmente collocate da Dante nei suoi gironi infernali: dai lussuriosi ai golosi, dai ladri ai violenti, dai sodomiti agli usurai, e via dannando…
E che si tratti di depravazioni spesso legate al censo ed allo stato borghese, capovolgendo i precetti non a caso introdotti dall’etica protestante, ce lo sottolinea proprio lo stesso Marco Aurelio, nel momento in cui ricorda che «molte volte i cattivi sono confortati dal piacere e dispongono di mezzi per procurarselo, invece gli uomini per bene incontrano sovente dolore e situazioni che producono dolore»; aggiungendo che «chi teme il dolore dovrà anche talvolta essere in ansia per quanto dovrà avvenire nel mondo». Oggi esiste, di fatto, una anomalia legata al prevalere del culto dell’io personale, per cui il libero sfogo degli istinti e degli impulsi egoistici, l’abbandonarsi ad ogni passione e ad ogni capriccio, conduce ad una vera e propria “delinquenza del benessere”, che vede spesso coinvolti i cosiddetti “figli di papà” e i rampolli di buona famiglia in efferatezze che i sociologhi, con i loro strumenti spuntati, non riescono a spiegare.
Chi persegue solo il piacere non può che commettere ingiustizia, non essendo possibile che in natura il godimento non venga, prima o poi, intervallato dall’irruzione del dolore e della sofferenza: fantasmi inconcepibili per un essere umano che ha perduto ogni collegamento, fosse pure solo ideale ed astratto, con la realtà naturale e con l’ordine divino, da cui solamente può derivare l’indispensabile distacco dalle cose materiali e dalle vicende terrene. È ancora Marco Aurelio a tirare le somme: «c’è il dolore, il piacere, la morte e la vita, oscurità e gloria; e natura con piena indifferenza si serve di questi fatti; quindi commette empietà, (evidente la conclusione) chiunque per conto suo non si mostra indifferente di fronte a quelli».
C’è un detto, particolarmente espressivo e tante volte citato, il quale recita: «prendere senza illusione, lasciare senza rimpianto», che sembra essere totalmente inconcepibile e inapplicabile per i nostri contemporanei, affannati nella loro sete di immediato soddisfacimento individuale e non in grado di proiettare la loro misera esistenza oltre la svolta temporale invalicabile della loro condizione animale: sorta di insetti che non vedranno l’alba di domani, senza tuttavia possedere la grazia e la bellezza della farfalla, ma piuttosto kafkiani scarafaggi affaccendati nell’oscurità del soddisfacimento della loro fame primordiale. Alla cui disinfestazione stanno opportunamente dedicando il loro instancabile impegno i “filantropi” Bill e Melinda Gates!
Ma lasciamo all’Imperatore seguace dello stoicismo l’inevitabile conclusione di queste brevi note sulla totale mancanza di luce e pietas dei nostri tristi giorni, apparentemente privi di ogni confortante presenza Superiore, nella prossimità del manifestarsi delle più basse forme possibili dell’esistenza umana: «natura si serve con piena indifferenza di questi fatti: indifferentemente con successione ordinata li propone a tutti gli individui che nascono, e l’uno all’altro si seguono in necessaria conseguenza dovuta a un atto primordiale della provvidenza. Per il quale atto precisamente, fin dal principio, la provvidenza s’accinse a ordinare questo ciclo cosmico servendosi di alcune ragioni seminali relative ai futuri eventi e così pure designando potenze generatrici di singole esistenze, di mutazioni, di successioni, che tutte si esprimessero adeguatamente a quelle ragioni».