Del politicamente utile
Dante Alighieri, nel suo De Monarchia, considera propria degli uomini guidati dagli influssi celesti la ricerca della verità e l’esigenza di lavorare per i posteri, arricchendoli con le proprie fatiche, così come essi stessi sono stati arricchiti a loro volta dalle fatiche degli antichi; ed egli stesso si propone di fornire il proprio contributo personale all’affermazione di una verità utile al bene di tutta l’umanità: «quella relativa alla monarchia terrestre [che] è la più utile e la più nascosta e non è stata affrontata da nessuno, in quanto non offre la prospettiva di un guadagno immediato».
Ovviamente, la necessità dell’istituzione di una Monarchia si pone per un’umanità già separata dal Principio e allontanatasi dalla perfezione originaria dell’Età dell’Oro e del Paradiso Terrestre, per cui essa non può che essere “temporale”, riguardando gli uomini e il loro ordinamento civile, dove è tenuta a portare ordine e armonia “a somiglianza” della Realtà Celeste, di cui rappresenta un riflesso sul piano orizzontale e un’imitazione consapevole e spontanea da parte degli esseri umani: «La Monarchia temporale, detta anche Impero, è un unico principato che ha potere su tutti gli uomini e si esercita nel tempo, cioè in quelle questioni e sopra quelle istituzioni che hanno carattere temporale».
Siccome “Dio e la natura non fanno mai nulla di inutile” (a differenza dell’uomo moderno che, avendo perduto la “bussola”, annaspa scompostamente dietro le stimolazioni sensoriali del proprio io!), l’esistenza del singolo uomo, l’esistenza della famiglia, l’esistenza del villaggio, l’esistenza della città, l’esistenza del regno e l’esistenza di tutto il genere umano partecipano tutti quanti all’unico disegno provvidenziale che parte da Dio e a Dio conduce. La partecipazione del singolo uomo a tale progetto tanto è più piena e completa quanto maggiori sono le condizioni di calma, di tranquillità, di quiete e, in definitiva, di pace in cui egli si trova a vivere. Quella pace da realizzare “in terra”, essendo già essa eternamente presente nel Regno dei Cieli (dove non alberga alcun contrasto e alcuna dualità), e realizzabile non da parte di chiunque ma dagli “uomini di buona volontà”. Questo è il solo tipo di felicità che è dato all’uomo di poter raggiungere ed ottenere in vita; altro che le fantasiose promesse codificate nelle Costituzioni degli Stati moderni!
Se la gestione della “cosa pubblica” aderisce a tali premesse, essa è veramente utile e legittima, altrimenti si ha a che fare con anomalie, più o meno gravi, ma tutte quante illegittime e fallimentari. Certo, la perfezione non è di questo mondo, ed esistono tutta una serie di gradi di imperfezione che dal “balbettio” appena percepibile possono condurre al “mutismo” più assoluto, se non all’urlo inumano della belva feroce; per cui è inevitabile che di volta in volta ci si debba “accontentare” di quello che le condizioni dell’Uomo e del Mondo consentono di realizzare di buono nelle varie epoche. Senza per questo, però, scendere mai a compromessi e senza distrarre l’attenzione da ciò che rappresenta l’eccellenza rappresentata dallo Stato tradizionale, in cui non c’è, per esempio, alcuno spazio per contrapposizioni quali quella fra “destra” e “sinistra”, figlia delle ideologie sovversive, del parlamentarismo democratico e dei moti rivoluzionari ottocenteschi che hanno dato il colpo di grazia ai residui istituzionali autocratici e all’antico regime.
È proprio grazie ad un simile realismo se Julius Evola ha potuto mettere all’epoca (in parte) le proprie conoscenze capacità ed energie al servizio del Fascismo, pur nella consapevolezza della parzialità e della incompiutezza di quel tentativo, di cui egli ha avuto in seguito modo di scrivere approfonditamente. L’idealizzazione del regime mussoliniano — in positivo da parte dei suoi seguaci e nostalgici, in negativo da parte dei suoi avversari e denigratori — ha fatto sì che un’esperienza politica risalente a un secolo fa venga ancora oggi considerata da una parte come “il bene assoluto” e dall’altra come “il male assoluto”. Giudizi entrambi dettati più da considerazioni sentimentali e passionali che da un freddo distaccato e lucido esame della dottrina fascista e della sua realizzazione pratica, dove a prevalere e dettare la linea sono l’ingenuo entusiasmo neofascista e la perfida malafede antifascista.
Malafede evidentissima, del resto, se si considera che a starnazzare maggiormente e a dar lezioni di democrazia sono proprio coloro che ieri aderirono entusiasticamente e acriticamente all’ideologia comunista e alle sue aberranti applicazioni pratiche in governi che hanno toccato ineguagliabili livelli di crudeltà, in primo luogo contro i propri stessi cittadini, come ha abbondantemente documentato Aleksandr Solgenitsin. I quali ex comunisti, sciacquatisi frettolosamente i “panni democratici” nel mare del neoliberismo, perseguono nella presunzione di dover indicare agli altri la via (sulle pagine dei giornali, nei dibattiti televisivi, nelle produzioni cinematografiche, nelle cattedre universitarie, e dovunque c’è da ricavare companatico in cambio di opinioni); coerentemente fedeli all’ispirazione antiumana che accompagna da sempre tale genia, in tutte le sue sfumature e in tutti i suoi gradi: dal liberalismo e la democrazia, al repubblicanesimo e il radicalismo, dal socialismo marxista all’internazionalismo comunista, fino agli attuali epigoni mondialisti neocons e teocon. Abiti diversi, di volta in volta alla moda, per un’unica razza e un’unica biografia!
Riguardo, invece, alla restituzione della preminenza dello Stato rispetto a popolo e nazione, della forma sulla materia, col conseguente superamento delle infezioni ideologiche della Rivoluzione che già aveva messo radici in Inghilterra, in America e in Francia, per poi dilagare in tutta l’Europa, «ci si dovrebbe dire fascisti (se a ciò si tiene) in relazione a quel che nel fascismo fu positivo, non fascisti in relazione a ciò che nel fascismo non lo fu», come giustamente sottolinea Evola. A questa considerazione andrebbe poi aggiunto il fatto che lo spessore esistenziale e caratteriale degli uomini che ieri si fecero interpreti di quel tentativo di reazione alla montante marea sovversiva — significativamente: all’alba del Fascismo, con la sua componente combattentistica rivoluzionaria, e al suo tramonto, col disinteressato volontarismo di Salò —, mostra indelebilmente la via ideale da seguire e lo stile interiore da assumere a chiunque pensi di poter tornare ad impugnare le medesime insegne e gli stessi ideali adattati alle nuove condizioni, di fronte all’informe e miserabile poltiglia subumana contemporanea.
Di fatto, il tipo umano che si è venuto ad affermare oggi come modello unico e incontrastato possiede e racchiude in sé tutti i difetti e tutte le deformità che lo rendono compatibile con i tempi bui che stiamo vivendo: il bisogno ossessivo di ricorrere alla propaganda (ritenendosi portatore di verità indiscusse), la prevalenza caratteriale della componente sentimentale (che lo rende una carogna che trasuda umanitarismo becero e a buon mercato), il pretendere “fanaticamente” che tutti partecipino delle sue convinzioni (politiche, alimentari, sessuali, pseudoreligiose, ecc.), l’assestamento mentale nel punto di vista della mediocrità generalizzata, l’assolutizzare l’interesse e il vizio del singolo caso contrapponendolo all’interesse generale e all’ordine naturale delle cose, per sfociare nella tirannia del “politicamente corretto”, questa sorta di grottesco galateo antiumano i cui risvolti normativi puntano a tramutare in girone infernale il vivere quotidiano del cittadino medio.
In un simile disastroso panorama, pretendere di individuare caratteri ed elementi positivi propri della monarchia ideale tratteggiata dall’Alighieri negli attuali tentativi di reazione alla deriva sovversiva, confidando in un possibile ritorno a un minimo di normalità, è un chiaro segno di instabilità mentale e di sottomissione a illusorie fantasticherie. La sopravvivenza di pallidi richiami a forme di governo legittime, che caratterizzarono entità statali del passato, somiglia lontanamente alla funzione svolta dal folklore rispetto alle conoscenze e agli insegnamenti tradizionali. Come spiega Guénon, il popolo conserva, «senza comprenderli, residui di tradizioni antiche», svolgendo la funzione di «una specie di memoria collettiva più o meno “subcosciente”, il contenuto della quale le è manifestamente venuto d’altrove». Purtroppo, già da lunghissimo tempo è proprio questo “Altrove” che è venuto a mancare, essendosi interrotti tutti i canali di comunicazione col Centro; del resto, percorribili solo ed esclusivamente da una élite, e quindi da un’aristocrazia, che nulla hanno a spartire con i populismi vari, oggi tanto di moda.
Consapevoli di un tale stato di cose, entusiasmarsi per realtà in cui sembra che “si stia vincendo” e trovare conforto in costruzioni iniziative e movimenti venuti dal basso, è segno evidente di ignoranza delle forze in campo, nonché di dipendenza sentimentale da eventi incontrollabili e da sventolii di bandiere in balia dell’aria che tira. Fedeli, purtuttavia, alla consegna evoliana del “fare quello che deve essere fatto” — e convinti che bisogna vivere per questo mondo come se esso dovesse durare in eterno, e per l’altro come se esso dovesse finire domani —, non si può che fare la propria parte fino in fondo, senza prendere parte!