Cavalcare la Tigre
Questa vecchia recensione di Titus Burckhardt dell’allora (1961) appena uscito libro di Evola, tocca alcuni punti essenziali e contiene delle considerazioni attualissime per gli Occidentali del Terzo Millennio che intendono mantenersi fedeli alla Tradizione – faro indispensabile per illuminare il cammino e degna meta verso cui indirizzare la propria esistenza –, alle prese con l’apparente crollo di ogni certezza e con l’assenza del pur minimo spiraglio di luce, nel tempo delle incombenti tenebre. Gli appunti mossi da Burckhardt alle disperanti conclusioni evoliane, che tanti danni hanno provocato presso numerosi elementi che hanno fatto una lettura “distruttiva e dissolutrice” del Cavalcare la Tigre, hanno il pregio di ricondurre nell’alveo dottrinario tradizionale le critiche evoliane al mondo dove Dio è morto e dove il nichilismo ha rotto gli argini e devastato le coscienze; indicando una possibile via d’uscita a quanti non sono disposti a farsi risucchiare nel vortice dissolutivo.
Con il suo recente libro intitolato Cavalcare la Tigre, Julius Evola intende mostrare come l’uomo «naturalmente tradizionale», ossia cosciente di una realtà interiore che oltrepassa il piano delle esperienze individuali, possa non soltanto sopravvivere nell’atmosfera antitradizionale del mondo moderno, ma possa persino utilizzarla per il proprio fine spirituale, secondo la nota metafora cinese dell’uomo che cavalca la tigre: se non si lascia disarcionare, finirà per domarla.
La tigre, nel senso suggerito da Evola, è la forza dissolvente e distruttiva che entra in gioco verso la fine di ogni ciclo cosmico. Di fronte a lei, dice l’autore, sarebbe vano mantenere le forme e la struttura di una civiltà che ha ormai compiuto il suo corso; la sola cosa possibile è portare la negazione al di là del suo punto morto e condurla, attraverso una trasposizione cosciente, non al nulla ma a «un nuovo spazio libero, che potrebbe essere la premessa di una nuova azione formatrice».
Il mondo che deve essere negato poiché votato alla distruzione è innanzi tutto la «civiltà materialista e borghese» che già in se stessa rappresenta la negazione di un mondo anteriore e superiore. — Su questo punto siamo d’accordo con l’autore, ma constatiamo immediatamente che egli non fa distinzione tra le forme proprie a questa civiltà «borghese» e l’eredità sacra che suo malgrado vi sopravvive. Egli sembra inoltre voler inglobare nel destino di questa civiltà quanto tuttora sussiste delle civiltà orientali, senza fare alcuna distinzione, ancora una volta, tra le loro strutture sociali e il loro nucleo spirituale.
Ritorneremo su questo punto. Sottolineiamo innanzi tutto un altro aspetto del libro, aspetto che possiamo sottoscrivere quasi senza riserve: si tratta della critica, spesso magistrale, delle diverse correnti del pensiero moderno. Evola non colloca se stesso sul terreno della discussione filosofica, giacché la filosofia moderna non è più una «scienza del vero» — non ha più neppure la pretesa di esserlo; — egli la considera come un sintomo, come il riflesso mentale di una situazione vitale ed esistenziale, essenzialmente dominata dalla disperazione: da quando è stata negata la dimensione della trascendenza, non vi possono essere che vicoli ciechi; non vi è più la possibilità di uscire dal cerchio infernale del mentale abbandonato a se stesso; tutto ciò che resta è la descrizione della propria disfatta. Come punto di partenza di questa analisi, l’autore sceglie la «filosofia» di Nietzsche, nel quale individua un presentimento di realtà trascendenti e una sorta di tentativo di superare l’ordine puramente mentale, tentativo votato allo scacco per mancanza di una direttiva spirituale.
Con la stessa acutezza l’autore analizza i fondamenti della scienza moderna. Citeremo da questo capitolo il passo seguente, che risponde con pertinenza alle illusioni spiritualiste di alcuni ambienti scientifici: «… Da quest’ultimo punto di vista la scienza ultima non si trova in vantaggio su quella “materialistica” di ieri; con gli atomi di ieri e la concezione meccanica dell’universo ci si pofteva ancora rappresentare qualcosa (seppure in modo estremamente primitivo); con le entità dell’ultima scienza fisico-matematica non ci si può rappresentare assolutamente più nulla; esse, come dicemmo, sono semplici maglie di una rete fabbricata e perfezionata non per conoscere in un senso concreto, intuitivo e vivente — il solo conoscere che importerebbe ad una umanità non imbastardita — bensì per avere una presa pratica sempre maggiore, ma sempre esterna, sulla natura, la quale nel suo fondo resta chiusa all’uomo, e misteriosa più di prima. I misteri di essa sono stati soltanto “coperti”, e lo sguardo ne è stato distratto dalle realizzazioni spettacolari nel campo della tecnica e dell’industria, nel campo dove non si tratta più di conoscere il mondo ma di trasformarlo ai fini di una umanità terrestrizzata…».
«Ripetiamo perciò che è una mistificazione mettersi a parlare di un valore spirituale della scienza ultima perché in essa invece di materia si parla di energia, perché essa porta a far vedere nella massa delle “irradiazioni coagulate” e quasi della “luce congelata” e perché considera spazi a più di tre dimensioni… Sono nozioni che, una volta sostituite a quelle della precedente fisica, nulla cambiano, quanto alla effettiva esperienza che del mondo ha l’uomo di oggi… Dopo che ci è stato detto che non esiste la materia ma l’energia, che non viviamo in uno spazio euclideo a tre dimensioni bensì in uno spazio “curvo” a quattro e più dimensioni, e così via, le cose restano come prima, la mia esperienza reale in nulla è cambiata, il significato ultimo di ciò che vedo — luce, sole, fuoco, mari, cielo, piante che fioriscono, esseri che muoiono — il significato ultimo di ogni processo e fenomeno non mi si è reso per nulla più trasparente. Di un trascendimento, di un conoscere in profondità, in termini spirituali o veramente intellettuali, non è affatto il caso di parlare».
Non meno pertinenti sono le osservazioni dell’autore sulle strutture sociali e sulle arti nel mondo contemporaneo. Dobbiamo tuttavia avanzare una riserva riguardo alla sua tesi dell’«asservimento della forza negativa», riferita a certi aspetti della vita moderna. Citiamo un esempio tipico: «Le possibilità positive [del regno della macchina] possono riguardare unicamente una esigua minoranza, appunto gli esseri nei quali preesiste o è ridestabile la dimensione della trascendenza… Unicamente da costoro può essere fatta tutta una diversa valutazione del “mondo senz’anima” delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne, di tutto ciò che è pura realtà e oggettività, che appare freddo, inumano, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico”. Proprio accettando in pieno questa realtà e questi processi, l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi secondo una equazione personale valida…».
«Fra l’altro, qui può presentarsi come simbolo la stessa macchina e tutto ciò che ha preso forma in certi settori del mondo moderno in termini di pura funzionalità (in particolare, in architettura). Come simbolo, la macchina rappresenta una forma nata da una esatta, oggettiva adeguazione dei mezzi ad un fine con esclusione di tutto ciò che è superfluo, arbitrario, dispersivo e soggettivo; è una forma che realizza con precisione una idea (l’idea, in tal caso, del fine a cui è destinata). Sul suo piano, essa riflette dunque in un certo modo il valore stesso che nel mondo classico ebbe la pura forma geometrica, il numero come ente e, insieme, il principio dorico del “nulla di troppo”». Qui l’autore dimentica che il simbolo non è una forma «oggettivamente adeguata» a un fine qualsiasi, ma una forma adeguata a un fine spirituale o a un’essenza intellettuale; se vi è coincidenza, in certe arti tradizionali, tra la conformità a un fine pratico e tra la conformità a un fine spirituale, questo significa che il primo non contraddice il secondo; la qual cosa non si può affermare della macchina, non essendo essa concepibile al di fuori del contesto di un mondo dissacralizzato. Infatti la forma della macchina esprime esattamente ciò che essa è, vale a dire una sorta di sfida lanciata all’ordine cosmico e divino; certo, essa è composta di elementi geometrici «oggettivi» come i cerchi e i quadrati, nel suo insieme e attraverso il rapporto — o non-rapporto — con l’ambiente cosmico, tuttavia essa non traduce un’«idea platonica» ma una «coagulazione mentale», ossia un’agitazione o un artificio. Naturalmente vi sono dei casi limite, come quello di una macchina ancora simile a un semplice utensile, o quello di una nave moderna la cui forma si coniughi in una certa misura al movimento dell’acqua e del vento, ma si tratta pur sempre di una conformità frammentaria e non contraddice ciò che abbiamo affermato. Per quanto riguarda l’architettura «funzionale», includendo l’urbanistica moderna, essa non può essere definita «oggettiva» se non ammettendo che il suo stesso fine è oggettivo, e questo non è evidentemente il nostro caso: ogni forma di architettura è coordinata a una certa concezione della vita e dell’uomo; ora, Evola stesso condanna il programma sociale soggiacente all’architettura moderna. In realtà l’«oggettività» apparente di quest’ultima non è che una mistica rovesciata, una sentimentalità congelata e rivestita di oggettività matematica; si è potuto del resto constatare quanto velocemente questo atteggiamento si trasformi, nei suoi protagonisti, nel soggettivismo più arbitrario e fluttuante.
Certo, non esiste una forma totalmente staccata dal suo archetipo esterno; ma non si può invocare in questo caso una tale legge troppo generale: affinché una forma sia un simbolo è infatti necessario che si situi in un certo ordine gerarchico in rapporto all’uomo. Distinguiamo, per essere precisi, tre aspetti del simbolismo inerente alle cose: il primo si riduce all’esistenza stessa di una forma, e in tal senso ogni cosa manifesta la propria origine celeste; il secondo aspetto è il senso di una forma, la sua portata intellettuale, sia all’interno di un determinato sistema, sia in se stessa, in virtù del suo carattere più o meno essenziale e prototipico; infine, vi è l’efficacia spirituale del simbolo che presuppone, nell’uomo che l’utilizza, una conformità nello stesso tempo psichica e rituale a una certa tradizione.
Abbiamo insistito su questo punto giacché Julius Evola disconosce l’importanza cruciale di un ricongiungimento tradizionale, pur ammettendo la possibilità di uno sviluppo spirituale spontaneo o irregolare, guidato da una sorta di istinto innato ed eventualmente attualizzato dall’accettazione della crisi del mondo come una cathartis liberatoria. È, questa, la pressoché unica prospettiva che resterebbe aperta all’«uomo differenziato» del nostro tempo, giacché l’appartenenza a una religione si riduce, per Evola, all’integrazione in un ambito collettivo più o meno decadente, mentre la possibilità di una regolare iniziazione sarebbe da escludere: «…Per conto nostro, riteniamo invece che ai nostri giorni essa [questa possibilità] praticamente sia pressoché da escludere per via dell’inesistenza quasi completa delle organizzazioni accennate. Se organizzazioni del genere in Occidente ebbero già sempre un carattere più o meno sotterraneo a causa della natura della religione venuta a predominarvi e delle sue iniziative repressive e persecutorie, nei tempi ultimi esse sono quasi del tutto scomparse. Per quel che riguarda altre aree, soprattutto l’Oriente, esse si sono rese sempre più rare e inaccessibili, quando anche le forze di cui erano le portatrici non si siano da esse ritirate, parallelamente al processo generale di degenerescenza e di modernizzazione che ormai ha investito anche quelle aree. Di massima, oggi lo stesso Oriente ai più non è in grado di fornire che dei sottoprodotti, in un “regime di residui”, cosa evidente solo che si esamini la statura spirituale degli Asiatici che si sono messi ad esportare e a divulgare fra noi la “sapienza orientale”».
Quest’ultimo argomento non è per nulla conclusivo: se gli Asiatici in questione fossero gli autentici rappresentanti delle tradizioni orientali, le divulgherebbero? Ma supponiamo che Evola abbia ragione e che il suo giudizio sulle organizzazioni tradizionali in quanto raggruppamenti umani corrisponda a verità: il suo modo di vedere comporta ugualmente un grave errore di ottica, giacché una tradizione, sin quando conserva intatte le proprie forme essenziali, non cessa di essere garante di un influsso spirituale — o di una grazia divina — la cui azione, pur non sempre evidente, supera incommensurabilmente tutto ciò che è nel potere dell’uomo. Sappiamo che esistono dei metodi o delle vie, come lo Zen, che si fondano sul «potere di sé» e che si distinguono in questo da altre vie che si fondano sul «potere dell’altro», ossia facenti appello alla Grazia; ma né le une né le altre si situano al di fuori del quadro formale di una determinata tradizione. Lo Zen soprattutto, che ci offre forse l’esempio più saliente di una spiritualità non formale, è perfettamente e peculiarmente cosciente del valore delle forme sacre. Si superano le forme non con un aprioristico rifiuto, ma integrandole nelle loro essenze sovra formali.
Lo stesso Evola definisce peraltro la funzione mediatrice della forma quando parla del ruolo della «tipicità» spirituale, che egli oppone all’individuo o alla «personalità» nel senso profano e moderno del termine: «La tipicità rappresenta il punto di incontro fra l’individuale (la persona) e il superindividuale, il limite fra i due corrispondente ad una forma perfetta. La tipicità disindividualizza, nel senso che la persona allora incarna essenzialmente una idea, una legge, una funzione…». L’autore precisa inoltre che la tipicità spirituale si situa normalmente nel quadro di una tradizione, ma non approda, verosimilmente, alla natura tipicizzata, vale a dire implicitamente sovraindividuale, di ogni forma sacra, senza dubbio perché non considera ciò che le religioni monoteiste chiamano rivelazione. Ora, non è conseguente accettare la «dimensione trascendente» dell’essere — altrimenti detta partecipazione effettiva dell’intelletto umano all’Intelletto universale — senza accettare parimenti la rivelazione, vale a dire la manifestazione di tale Intelletto o Spirito in forme oggettive. Vi è un rapporto rigoroso tra la natura sovraformale, libera e indeterminata dello Spirito e la sua espressione spontanea — dunque «donata dal Cielo» — in forme necessariamente determinate e immutabili. In virtù della loro origine, che è illimitata e inesauribile, le forme sacre, sia pur limitate e «fissate», sono veicoli di influssi spirituali, dunque di virtualità d’infinito, e in questo senso è decisamente improprio parlare di una tradizione di cui esisterebbe soltanto la forma e il cui spirito si sia ritratto da essa come l’anima che abbia abbandonato un cadavere: la morte di una tradizione inizia sempre con la corruzione delle sue forme essenziali.
Secondo tutte le profezie il deposito sacro della Tradizione integrale sussisterà sino alla fine del ciclo; ciò significa che vi sarà sempre in qualche punto una porta aperta. Per gli uomini in grado di superare il piano superficiale e animati da volontà sincera, né la decadenza del mondo che li circonda, né l’appartenenza a un determinato popolo o ambiente costituiscono degli ostacoli assoluti. Querite et invenientis Ritorniamo per un istante al titolo del libro di Evola; la massima secondo cui occorre «cavalcare la tigre» per non essere da lei dilaniati, implica evidentemente un senso tantrico; la tigre è allora l’immagine della forza passionale che è necessario domare. È legittimo chiedersi se una tale metafora sia realmente adeguata all’atteggiamento dell’uomo spirituale nei confronti delle tendenze distruttive del mondo moderno: osserviamo innanzi tutto che non ogni cosa è la «tigre»; dietro le tendenze e le forme che Julius Evola considera, non troveremo alcuna forza naturale e organica, alcuna shakti dispensatrice di potenza e di bellezza; ora, l’uomo spirituale può utilizzare rajas, ma deve rifiutare tamas; vi sono infine forme e atteggiamenti incompatibili con la natura intima dell’uomo spirituale e con i ritmi di ogni spiritualità. In realtà, non sono le caratteristiche particolari, artificiali e ibride del mondo moderno che possono servirci da supporto spirituale, ma piuttosto ciò che, in questo mondo, appartiene ad ogni tempo.
Titus Burckhardt