Libertà e liberazione
Quando il padre che viene a sapere (perché prima o poi bisogna che lo sappia!) della gravidanza indesiderata della figlia minorenne e “signorina”, esclama: «è colpa della troppa libertà!», fa al contempo una confessione di impotenza e di rinuncia al proprio ruolo e alla propria autorità, oltre a scagionare la figlia da ogni responsabilità, addebitando l’accaduto al clima generale e all’andamento irrimediabilmente permissivo della società. In questo equivoco si può dire che consista uno dei nodi fondamentali che hanno contribuito ad assegnare al ’68, di cui si celebra quest’anno la ricorrenza del cinquantenario, la funzione di sanatoria e giustificazione della miriade di cedimenti etici e morali che hanno contraddistinto gli ultimi anni della storia dell’Occidente.
Se la famiglia è stata demolita, così come l’autorità della scuola e delle istituzioni che di solito reggono una società sana e normale, se il sesso e la sessualità hanno intossicato oltre misura qualsiasi ambito, fino a degenerazioni e perversioni inimmaginabili appena qualche decennio fa, se l’omosessualità da fenomeno marginale e “celato” è assurta agli onori della cronaca ed è salita in cattedra a dar lezioni di rispetto e dignità, divenendo perfino motivo di orgoglio ed apprezzata etichetta (si pensi solo al mondo della moda e agli stilisti che vi operano), prima che al repentino mutamento di prospettiva che la rivoluzione sessantottina ha prodotto in tutto l’Occidente nella seconda metà del secolo scorso, lo si deve all’enorme energia che la diga della società borghese e benpensante aveva accumulato e provato a trattenere, senza però possedere gli strumenti per assicurare l’equilibrio a quelle forze che bisogna che in qualche modo si neutralizzino (non essendo possibile annullarle), come possiamo vedere perfettamente simboleggiato nella raffigurazione estremorientale dello yang e dello yin.
La funzione, per lo meno una delle principali, che il Sessantotto ha svolto è stata proprio quella di creare le condizioni affinché questo equilibrio (in verità alquanto instabile e gravemente compromesso!) venisse definitivamente annullato e demolito, lasciando che ogni tendenza dissolutiva trovasse una giustificazione ideologica per palesarsi e compiersi pienamente. Che non si trattasse di un fenomeno spontaneo e dal carattere fatidico, lo si può già evincere dalla strumentalizzazione politica che ben presto lo incanalò in una precisa direzione. Basti pensare al diverso atteggiamento tenuto rispetto al “Maggio francese” ed alla “Primavera di Praga”, dove la strumentalità ideologica di tutto il sommovimento appare in tutta la sua contraddittorietà, almeno per quanto riguarda gli “utili idioti” della sinistra, quelli che ci credevano veramente: i più ingenui e, di conseguenza, i più pericolosi!
Sicuramente esso ha rappresentato una tappa significativa nel processo di abbassamento del livello psichico e spirituale dell’Occidente, visto che l’attacco concentrico riguardò ogni aspetto dell’essere umano e della società, aggredendone contemporaneamente il corpo, l’anima e lo spirito. Il bombardamento non risparmiò infatti alcun tipo di “ordigno”: dagli happening musicali ai movimenti politici e i rapporti con le istituzioni, dalle sperimentazioni sulle arti visive alla filosofia New Age, dall’ambientalismo alla rivoluzione sessuale, dalla pseudo spiritualità orientale alla teoria olistica, dalla pratica di una vita alternativa agli hippy e ai figli dei fiori, dalle contaminazioni etniche nella moda agli abiti ispirati all’esotismo orientale e ai costumi dei Pellerossa, dalla vita comunitaria all’anti consumismo, fino all’uso delle droghe e all’idealizzazione e alla valorizzazione indiscriminate di tutto ciò che potesse portare allo “sballo” e all’uscita da sé.
Il rifiuto di ogni autorità (Famiglia, Scuola, Stato, Religione) e di ogni ruolo precostituito, accompagnato alla scoperta del corpo, della sessualità, dell’amore inteso nella sua peggiore modalità animale (ha scritto Evola: «la deviazione comincia appunto quando si assolutizza il sesso dopo averlo ridotto ad un fatto puramente umano invece di presentire i significati più profondi che vi si riflettono e che stabiliscono nessi essenziali fra il suo mistero e quello di forze elementari in atto sia nell’universo che nello spirito»), aprirono le porte a quella inversione dei valori che ne costituisce un marchio inconfondibile, già facilmente rintracciabile nell’adozione di determinati simboli (quello della presunta “pace”, per primo!). Si potrebbe dire che già dal punto di vista dei rivoltosi tutto ciò che il Sessantotto toccò cambiò di direzione e, assumendo vita autonoma, venne a significare il contrario di ciò che si voleva indicare. Si pensi solo alla “creatività” e alla “fantasia al potere”, che in seguito trovarono il loro logico sbocco e la loro sublimazione in una pubblicità ferocemente martellante e nel consumismo più esasperato. Così come il “dibattito” e il “discorso” che tanta importanza avevano nei gruppi giovanili dell’epoca, finirono per confluire nell’oceano delle chiacchiere inutili e inconcludenti dei moderni salotti televisivi e quelli social. E perfino la stessa idea che la condizione di essere “giovani” venisse considerata qualificante di per sé ha portato all’attuale giovanilismo irresponsabile e perennemente immaturo. Per quanto riguarda poi l’amore libero ed il rifiuto di ogni gelosia e possesso, oggi esso è stato pienamente realizzato nei locali per scambisti, dove piuttosto che azzerare certe tendenze egoistiche le si amplifica in una versione pervertita e viziosa. Del resto a questa “omologazione” delle idee e delle parole d’ordine è corrisposta una non meno sorprendete normalizzazione dei vari leader e militanti dell’epoca, molti dei quali oggi si sono accomodati su invidiabili posti di potere (culturale, politico o economico), ancora in prima fila a decantare i pregi e le meraviglie del nuovo status quo venutosi ad affermare sulle rovine delle passate rivendicazioni; si pensi solo ad un Bernard Henry Levy, a un Giuliano Ferrara, a un Paolo Mieli e a tutta la genia dei Neocon americani, registi della cosiddetta guerra globale al terrorismo post 11 Settembre. Del resto, da buon profeta come sempre, Evola prevedeva già in epoca non sospetta che: «Col passare degli anni, con la necessità, pei più, di affrontare i problemi materiali ed economici della vita non v’è dubbio che tale gioventù, divenuta adulta, si adatterà alle routines professionali, produttive e sociali di un mondo come l’attuale, con il che, peraltro, passerà semplicemente da una forma ad un’altra forma di nullità».
Ma il giudizio definitivo sul movimento lo si può ricavare analizzandolo da un punto di vista superiore. Così come già con la Rivoluzione Francese l’adozione dello slogan che la contraddistinse e caratterizzò (Liberté, Egalité, Fraternité), non rappresenta altro che una parodia e una scimmiottatura di termini validi solo da un punto di vista iniziatico, allo stesso modo tutte le libertà pretese ed ottenute dal Sessantotto non sono altro che volgarizzazioni di esperienze che potevano avere un significato in un contesto ugualmente iniziatico (uso del sesso e delle acque corrosive al fine di provocare aperture verso l’alto, uso rituale della musica, delle raffigurazioni artistiche e dell’abbigliamento, messa in discussione dei legami di sangue, comunitari e familiari, disubbidienza civile in vista di una superiore appartenenza, ecc.), ma che rese accessibili democraticamente a tutti non potevano che determinare i disastri regolarmente seguiti sul piano personale e della società in generale. E, come ci insegna Guénon, là dove tutto ciò che ha un carattere iniziatico viene invertito di significato è facile intravvedere lo “zampino” della Controiniziazione.
Se la Grande Guerra Santa riguarda ed ha a che fare con la lotta contro la parte peggiore di se stessi, con gli aspetti negativi della propria condizione umana, ogni forma di schiavitù dell’io e arretramento spirituale non è altro che un modo per fornire armi al nemico che vuole annientarci; quando invece bisognerebbe arrivare a un vero e proprio “embargo” per disarmare definitivamente l’Avversario, precludendogli l’accesso alla nostra psiche. È stato giustamente detto che se non si è servi di Dio si è servi del mondo, e nell’antichità il prigioniero di guerra era colui che aveva preferito la schiavitù alla morte. Che poi è la condizione di colui che, non sapendo vincere se stesso, non essendo in grado di uccidere l’io, è destinato a soggiacere alla schiavitù della condizione umana, precludendosi l’accesso agli stati superiori dell’Essere e, quindi, alla Liberazione, come chiaramente indica Dante in questi versi del Purgatorio (I, 71): «libertà vá cercando, ch’è sì cara,/come sa chi per lei vita rifiuta». Possibilità da sempre riservata ad una minoranza, che il carattere radicalmente anti aristocratico del mondo moderno esclude a priori, in virtù della mentalità plebea che esso custodisce al centro della propria visione della vita, a cui le “conquiste” sessantottine prima ricordate hanno fornito un ulteriore contributo nell’inabissamento definitivo dell’essere umano. Il culto del ribelle, del delinquente e dell’eversore (al di là dell’affermazione paradossale e provocatoria di Ernst Jünger sulla preferenza del delinquente al borghese!), celebrato da tutte le ideologie rivoluzionarie, coincide perfettamente con questo sprofondamento nel regno dell’io. Basterebbe del resto leggere quel che scrive Solgenitsin a proposito delle preferenze e dei trattamenti di favore accordati all’interno del gulag ai ladri e ai delinquenti comuni rispetto ai prigionieri politici, coerentemente con l’idea comunista che chi delinque lo fa perché vittima dalla società capitalistica, per trovare le radici della moderna mitizzazione del “fuori legge”. Che poi è la stessa “preferenza” accordata alla malattia mentale nelle società democratiche (vedi Basaglia e i danni provocati dalla legge che porta il suo nome!), quasi come se si provasse una istintiva simpatia e ammirazione per coloro che sono per natura inabili a qualunque percorso realizzativo sul piano spirituale, essendo vittime passive di una natura instabile e incontrollabile. Ed è sempre Evola a notare che «Si può capire che ciò attiri molto il giovane occidentale senza radici che non sopporta discipline, che vive allo sbaraglio e si ribella».
Ma ritornando a quanto detto prima riguardo alla schiavitù come alternativa alla morte in battaglia, può risultare utile la lettura della tragedia Le Troiane di Euripide, dove si descrive con particolare efficacia la condizione di schiavitù cui vanno in contro le donne regali sopravvissute alla distruzione di Troia per mano degli Achei, che l’hanno ridotta a un cumulo di cenere, coi luoghi sacri lordati di sangue, e da cui gli dei hanno abbandonato le are, perché: «quando un tristo deserto scende sopra/una città, languisce anche ogni culto/né più s’adempie all’onore divino». Le Troiane sopravvissute alla distruzione attendono la loro sorte affidata al volere dei vincitori, a cominciare dalla regina Ecuba, moglie di Priamo e madre di una numerosa schiera di eroi e nobili figli, fra cui Ettore ucciso e straziato da Achille. La perdita del precedente stato nobiliare e, di conseguenza, della libertà getta queste donne in balia di un destino crudele, assoggettandole all’arbitrio dei vincitori, che se le dividono come bottino di guerra, avviandole ad un’esistenza di servitù e infinite umiliazioni, ancor più dure da accettare per chi ha vissuto tempi felici ai vertici della Città e dello Stato. Esse saranno sorteggiate e non sanno in quale luogo lontano dalla patria saranno condotte:
«… Vado incontro
a miserie più dure:
io sarò spinta al letto
di un greco — quella notte
sia maledetta insieme
al destino – e dovrò,
umile ancella, attingere
sacre acque alla fonte di Pirene.
Fossi almeno condotta alla felice
Terra di Teseo.
(…) E sceglierei
Anche i piani dell’Etna
Madre dei monti siculi,
paesi dove splende
bella fama di atleti incoronati.»
Ecuba destinata a diventare schiava di Ulisse, Cassandra strappata alle sue funzioni di vergine custode del tempio di Apollo e scelta come preda da Agamennone, la moglie di Ettore Andromaca sarà preda del figlio di Achille, e il piccolo Astianatte figlio di Ettore, sulla cui discendenza confidava Ecuba affinché potesse in futuro risorgere Troia dalle rovine, per evitare che diventi più forte del padre e impedirgli di vivere e di crescere, per volere dei greci sarà gettato dalle torri di Troia. E alle proteste strazianti della madre Andromaca che stringe il figlio fra le braccia, evidenziandone l’impotenza della condizione servile, il messo Taltibio risponde: «Lascia che questo avvenga, e apparirai saggia. Non tenerti aggrappata a tuo figlio. Sii coraggiosa, chiusa nel dolore. Sei impotente, come vedi. Abbandona ogni illusione di rivolta. Nulla ti può aiutare, nulla difendere: da nessuna parte. Devi riflettere. La città, il tuo sposo sono periti; tu sei prigioniera. E noi non staremo a temere una femmina. Perciò ti consiglio di non ribellarti, di non resistere. Indecoroso poi e biasimevole il tuo vano imprecare contro di noi maledicendo: ti cadrebbe addosso l’odio degli Achei né questo fanciullo avrebbe sepoltura. Se invece ti piegherai silenziosa al tuo destino, potrai comporre tuo figlio morto nella tomba, piangerlo con la pietà del rito: e gli Achei ti guarderanno con animo benevolo».
E intanto Ecuba, che nella sua preghiera davanti a Menelao, venuto a riprendersi Elena, mostra di aver perduto la fede in Zeus («sia tu legge di natura o illusione dei mortali»), schiacciata dai lutti e dalle sventure, accentuando così la sua pena e la sua disperazione, invita il re tradito a uccidere la sua sposa, raccomandandogli però di fuggirne «lo sguardo, che non ti afferri con il desiderio: essa prende la vista degli uomini, distrugge le città, incendia le case. Io, tu e quanti soffrimmo lo sappiamo». Elena (sorella dei Dioscuri e figlia di Leda, fecondata da Zeus sotto forma di Cigno, famosa per la sua bellezza e all’origine della rovina troiana, per via del rapimento di Paride, che veniva contrapposta nell’antichità a Penelope, simbolo invece della fedeltà coniugale) si presenta a Menelao, per quanto custodita con le altre schiave troiane, abbigliata con cura e proclama la sua innocenza addebitando agli dei e a Paride la colpa della sua fuga dal tetto coniugale, non mancando di rinfacciare anche a Menelao la sua mancanza: «e tu, stolto, lasciando in casa tua un uomo simile, te ne partisti alla volta di Creta». Ecuba, dopo aver ribattuto punto per punto alle argomentazioni di Elena e dimostratane la colpevolezza, raccomanda a Menelao di non lasciarla salire sulla sua stessa nave, perché: «Non c’è innamorato che non continui ad amare». E Menelao acconsente: «non salirà sulla mia nave. Giunta in Argo morirà come merita e insegnerà con la sua morte alle altre donne di essere fedeli. Cosa difficile. Ma la sua morte spaventerà le più folli e dissolute». Questi buoni propositi di Menelao non saranno poi confermati dalla realtà: evidentemente condannato dalla sua natura ad essere per sempre stolto e accondiscendente al desiderio amoroso! E intanto le povere esequie del piccolo Astianatte chiudono la tragedia e il destino di Troia.
Fin qui la sorte toccata a chi ha irrimediabilmente perduto la propria libertà, ma noi sappiamo che c’è stato un altro modo di sopravvivere alle rovine di Troia, di restare vivi rimanendo in piedi e non cadendo in schiavitù, cioè attraverso la fuga, che non è la fuga dei vigliacchi ma l’allontanamento di chi saggiamente considera la realtà e adatta il proprio comportamento alle nuove condizioni venute a determinarsi: la fuga del pio Enea che, abbandonato un Centro spirituale decaduto e da cui le forze divine si sono ritirate, conservando e portando con sé quanto serve e l’essenziale (diversi secoli dopo sarà San Bernardo ad affermare: «Ubi voluntas ibi libertas», e considerando che la libertà regna nell’avvenire, la necessità (in quanto destino) nel passato, e la provvidenza sul presente, acquista un particolare significato la figura di Enea col padre caricato sulle spalle e il figlio tenuto per mano!), gettando le basi affinché si costituisca un nuovo Centro, in cui sarà possibile, applicando i principi immutabili alle contingenze, far rivivere quei valori perenni che sono sempre in attesa di esseri umani in grado di incarnarli, rivitalizzarli ed attuali. La legittimità dell’iniziativa di Enea è, del resto, confermata dagli interventi divini che accompagnano il suo viaggio e ne guidano l’azione nei momenti cruciali.
Del resto, questa prossimità di dei e uomini, questo stare insieme e in contatto quotidiano che si ritrova in tutti i testi omerici e virgiliani, così come nel teatro greco, indica simbolicamente (indipendentemente dalle ingenue e puerili elucubrazioni dei politeisti!) una presenza del sacro che accompagnava tutta l’esistenza dell’uomo del mondo classico, e dell’uomo della tradizione in genere, quando il rapporto col divino era stabilito dalla Conoscenza più che dalla fede, subentrata successivamente, man mano che l’essere umano si è andato allontanando dal Centro, dovendosi egli accontentare del collegamento non più diretto assicurato dalle religioni. E il momento di passaggio da uno stato all’altro (da quello umano a quello divino), da una condizione all’altra (da quella mortale a quella immortale), era significativamente rappresentato nelle figure degli eroi. Se perfino in Giulio Cesare è stato possibile individuare «la maestà dei re e la sacrità degli dei», a maggior ragione questa doppia natura emerge nelle figure mitiche degli eroi antichi, Eracle per primo, che con le sue simboliche 12 fatiche mostra la via, a chi ne ha le possibilità e le qualificazioni, per abbandonare la condizione umana e ascendere all’Olimpo.
L’alternativa essendo quella dell’umanizzazione sconsacrata, perfettamente rappresentata dallo spirito titanico di Prometeo (e del fratello Epimeteo), in cui la miseria spirituale, la tortuosità, la stupidità, l’imprudenza scambiata per coraggio e la goffaggine trovano pieno compimento. La roccia a cui è condannato ad essere incatenato è il corpo e l’avvoltoio (in certe narrazioni l’aquila) che gli rode il fegato (sede del coraggio umano) è la forza trascendente non dominata che gli si rivolta contro. Questo sarà l’eroe definitivo di un’umanità irrimediabilmente decaduta, che istintivamente si identificherà e si sentirà attratta non dall’alto ma dal basso (abbandonandosi e cedendo alla forza di gravità, e ricordiamo “chi” colloca Dante al centro della Terra!), non dalla libertà del nobile ma da quella del servo sottrattosi con l’astuzia o col denaro alla condizione di schiavitù, la quale, non più presente dal punto di vista formale ed esteriore, costituirà comunque per sempre l’essenza della sua vera natura.
Se allora la libertà è esenzione da vincoli che mette nella condizione di operare e di agire sottraendosi al dominio del fato o del destino, al dominio di un padrone, al dominio delle passioni e dei sensi e dal male in generale, non è un qualcosa che possa essere stabilito per legge ma deve essere conquistato personalmente, a costo di impegno sofferenza e sacrificio, tutte condizioni che presuppongono energia e concentrazione, non certo garantite dalle pseudo libertà bramate dall’io e rivendicate dal ’68. E ancora Dante ci viene in aiuto, indicando nel Paradiso (XXXI, 85) il fine del processo iniziatico: «Tu m’hai di servo tratto a libertate». Libero, dunque, può essere solo colui che riesce a dominare l’istinto e la natura animale, presente in ogni essere umano. Quando Ulisse, prigioniero coi suoi compagni nella grotta di Polifemo, vede divorarne due dal Ciclope, ha l’immediato desiderio di ucciderlo mentre egli dorme, ma la ragione lo rende consapevole che questo li condannerebbe a rimanere imprigionati per sempre in quell’antro serrato da un masso che solo il Ciclope è in grado di spostare, per cui deve ricorrere a tutta la sua intelligenza e astuzia per superare la prova e salvare se stesso e i suoi uomini.
La sofferenza e il sacrificio prima ricordati sono da sempre stati coltivati in tutte le tradizioni, ricorrendo a tecniche e insegnamenti finalizzati a tale risultato, che convergono e trovano la loro piena attuazione nell’impegno iniziatico. Per rimanere nell’ambito del mondo classico, sarà utile richiamare quanto affermato da René Guénon nel suo L’Esoterismo di Dante: «da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a Dante, la “catena della tradizione” non fu senza dubbio interrotta sul suolo italico», dove sono indicati degli esempi che già da un punto di vista dottrinario, se non operativo, possono costituire un prezioso patrimonio di insegnamenti utili per un lavoro interiore. E proprio nella prima figura ricordata da Guénon va visto un modello impareggiabile, per la completezza del suo metodo operativo, che può fornire indicazioni utili a quanti si propongono al giorno d’oggi di percorrere un cammino realizzativo.
Pitagora, dopo aver viaggiato in diverse regioni d’Oriente (Fenicia, Babilonia, Caldea, Persia, Egitto) e averne appreso la conoscenza e le dottrine segrete, nello stesso lasso di tempo in cui apparivano in Cina Lao-Tse e in India Gotamo Buddha, intorno al 530 a. C. fondò a Crotone, all’epoca una delle più fiorenti città della Magna Grecia, un Istituto in cui impartire gli insegnamenti ricevuti nei suoi precedenti viaggi. Egli conquistò in breve tempo l’attenzione e la simpatia di un numeroso uditorio, compresi i maggiorenti della città, che non tardarono a far tesoro degli insegnamenti di Pitagora per correggere ed organizzare il governo secondo i nuovi principi da lui fatti conoscere. La sua autorità crebbe a dismisura e si diffuse negli altri paesi della Magna Grecia, compresa tutta la Sicilia, fino a giungere a Roma. Il crescente numero di discepoli che si raccoglieva intorno a lui, e che in molti casi andarono a vivere con lui insieme a mogli e figli, costituirono un Sodalizio numeroso e qualificato, nonché una vera e propria cittadella tradizionale, in cui gli insegnamenti del Maestro venivano impartiti adeguandoli al diverso livello dei singoli discepoli. Per cui si ebbero un insegnamento esterno, aperto a tutti, e un altro più interno, rivolto a coloro che mostravano di possedere le qualificazioni richieste per accedere ai gradi superiori della Conoscenza. A tal fine erano previste difficili prove ed esami rigorosissimi, a cominciare da quello fisiognomico, che già dall’aspetto fisico permetteva di individuare pregi e difetti, la cui radice andava ricercata nell’autentico stato interiore di ognuno. Era poi prescritto un determinato periodo di silenzio, che variava dai due ai cinque anni, durante i quali l’adepto poteva solo ascoltare ciò che gli altri dicevano, senza mai chiedere spiegazioni né fare osservazioni. La lunga meditazione e la severa e rigorosa disciplina applicata alle passioni e ai desideri, unite all’ascoltare a al tacere, facevano procedere nell’acquisizione della sapienza, fino alla conoscenza definitiva dell’Essere assoluto.
Nei Versi d’Oro, egli stabilì le norme per una condotta armonica e rettamente orientata, al fine di permettere ad ognuno di realizzare tutte le proprie potenzialità, a partire dal rispetto dovuto alle divinità: Prima di ogni cosa onora e venera gli Dei immortali,/ciascuno secondo il proprio rango. Poi sottolineando gli obblighi verso la famiglia: Onora i tuoi genitori e tutti coloro che hanno con te un vincolo di sangue. Vengono quindi date indicazioni utili riguardo ai rapporti col resto degli esseri umani e non solo, privilegiando l’amicizia e la compagnia dei più virtuosi e prendendone continuo esempio. Si passa poi a prescrizioni più dirette relative al regime alimentare e alla condotta di vita (domina/prima di tutto le necessità del tuo ventre e del tuo sonno,/dopo, gli assalti del tuo appetito e della tua ira), con la raccomandazione di: Non commettere mai un’azione riprovevole/né con altri, né solo: prima di tutto rispetta te stesso; di essere giusto con parole e opere, sapendo che a tutti tocca morire e che la ricchezza e i beni materiali talvolta vengono e talvolta vanno; di accettare pazientemente le sofferenze «che capitano ai mortali per disegno divino», e di non concedere spazio alle menzogne e alle malignità che tocca sentire, evitando di farsene turbare (Quando ascolti una menzogna, sopportala con calma). E ancora: Non trascurare la tua salute,/sii moderato nel bere e nel mangiare,/e negli esercizi ginnici./Per moderazione intendo quello che non può farti male.//Abituati ad una vita senza mollezze,/evita quello che può attrarre l’invidia. Evitare di dissipare i propri guadagni senza però smettere di essere generosi, ponderare ogni cosa e riflettere prima di agire. Viene quindi data una indicazione fondamentale per la condotta giornaliera di colui che cerca la via, che sotto forma di esame di coscienza già ritroviamo in ogni tradizione, dove si raccomanda di «non lasciare che il dolce sonno si impossessi languidamente dei tuoi occhi/senza aver prima rivissuto quello che hai fatto durante il giorno:/In cosa ho mancato? Che cosa ho fatto? Che dovere ho trascurato di compiere?/Inizia dal principio e ripercorrilo tutto,/rimproverati gli sbagli e rallegrati dei successi».
Pitagora raccomanda di mettere il massimo impegno in queste pratiche, amandole, per poter entrare «nel sentiero della divina perfezione» (trattandosi quindi non di precetti morali ma di vere e proprie tecniche realizzative, che presuppongono dunque il superamento della semplice condizione umana); arrivando così a conoscere gli uomini, vittime, la maggior parte, dei mali che si impongono da sé, in quanto «Sono pochi coloro che sono capaci di liberarsi dalla mala sorte./Questo è il destino che disturba lo spirito dei mortali,/che come cilindri rotolano dall’uno all’altro». Ribadendo l’esortazione: «Astieniti dagli alimenti, a te noti,/sia per la purificazione, sia per la liberazione dell’anima,/giudica e rifletti su tutte le cose, e di ognuna/eleva un pensiero all’alto, che è il migliore delle guide; per poi concludere indicando lo scopo di un simile regime di vita: «Se ti libererai del tuo corpo fisico per volare oltre il libero spazio dell’etere,/sarai un Dio immortale, incorruttibile che ha sconfitto la morte». Rinunciando quindi alle piccole libertà che è solito prendersi l’io, sarà possibile giungere alla vera Liberazione, quella che riconduce al Sé.
Se nel Medioevo il dibattito teologico verteva intorno al libero arbitrio, alla predeterminazione e all’onniscienza divina in relazione all’essere umano, nell’era dell’intelligenza artificiale si discute dell’autonomia decisionale delle macchine, che stanno prendendo giorno dopo giorno sempre più il posto dell’uomo, e non solo a livello lavorativo. Oggi i dubbi e le riflessioni vertono, per esempio, sulle prossime automobili senza pilota guidate da un computer, cercando di capire quale scelta potrebbe fare questo nel momento in cui si dovesse trovare a scegliere se risparmiare, in un inevitabile incidente, la vita di un bambino o quella di un vecchio. È chiaro che in questo caso non ci si trova di fronte ad un dilemma etico o morale, quanto più all’applicazione di algoritmi programmati rigidamente in accordo con la visione del mondo e della realtà propria degli stessi programmatori. Possiamo anche essere disposti a riconoscere numerosi punti in comune fra questa totale assenza di libertà della macchina con quella dell’uomo ridotto alle sue pulsioni più basse (ai suoi “algoritmi” animali), ma nell’uomo permane pur sempre quel granello d’oro, quella porzione di luce che, per quanto impercettibile, assicura comunque sempre una possibilità di sottrazione ad ogni determinismo e di riconquista di una condizione degna. Se il Sole è stato designato da tantissime tradizioni a simboleggiare il Principio, per le sue caratteristiche e proprietà, non sarà certo il fatto che esso possa essere occultato dalle nubi o dalle nebbie a renderlo meno presente, essendo compito dell’uomo quello di diradare le une e dissolvere le altre (sia esteriori che interiori), al fine di tornare a beneficiare dei suoi raggi, della sua luce e del suo calore, salutandolo ogni giorno con rinnovata gioia, come hanno fatto da sempre e dall’origine tutti gli Uomini della Tradizione.
Enzo Iurato