Trasgressioni o libertà adolescenziali?
Nella vita di un uomo ci sono dei periodi significativi che caratterizzano lo sviluppo della personalità. Uno di questi momenti è l’adolescenza, che indica il passaggio da una condizione dell’esistenza ad un’altra. Questo periodo rappresenta una vera e propria rottura di livello, infatti, il giovane inizia un cambiamento non solo fisico, ma soprattutto evidenzia aspetti più intimi propri del carattere e della formazione della sua persona. In lui crescono nuovi interessi e nuove sensibilità, egli avverte il bisogno di una maggiore indipendenza, inizia ad esplorare e ad affrontare il mondo.
Una delle caratteristiche fondamentali di questa età è il moto di ribellione che caratterizza l’essere giovani, un moto che si può definire trasgressivo. Il giovane avverte l’esigenza di rompere gli schemi che trova già confezionati, sente il bisogno di affermarsi come persona e di assumere un ruolo attivo nella società. Nel contempo maggiori sono le insidie e le difficoltà che si possono incontrare tra cui avvertire tutta la propria inadeguatezza ad affrontare questo periodo di transizione.
Osservando le civiltà tradizionali, notiamo come ogni aspetto della vita di un uomo era sempre cadenzato da particolari cerimonie di carattere magico-religioso e questo momento, per quanto critico e tormentato, era accompagnato da particolari riti, che indicavano il passaggio da una condizione dell’esistenza ad un’altra. Una speciale influenza dall’alto veniva invocata affinché il momento di difficoltà venisse vissuto in modo da incanalare particolari energie e favorire la trasformazione profonda dell’essere.
Quando si raggiungeva il periodo dell’adolescenza, avveniva un mutamento di condizione, poiché si entrava a far parte del mondo degli adulti, di quella comunità che, per intenderci, un tempo si chiamava la società degli uomini. L’ammissione presupponeva il superamento di alcune prove che dovevano dimostrare l’effettivo valore e capacità del giovane. Prove che richiedevano una particolare attitudine in cui il giovane doveva saper tenere a freno paure, desideri e ogni altra passione. Infatti, il giovane superandole dava non solo prova di coraggio e di vigore, ma dimostrava soprattutto il suo carattere e la sua tenuta interiore. In questo modo poteva diventare membro della comunità e membro effettivo dello Stato.
«Riti speciali, detti appunto riti di passaggio, spesso accompagnati da un preliminare periodo di isolamento e da dure prove, suscitano, secondo uno schema di morte e rinascita, un essere nuovo, ché esso solo vien considerato come davvero uomo. Infatti, prima di ciò, il membro del gruppo, qualunque fosse la sua età, si ritiene faccia corpo con le donne e i bambini, anzi con gli stessi animali. Una volta subita la trasformazione, il singolo viene pertanto aggregato alla cosiddetta società di uomini. Questa società, avente carattere iniziatico (sacrale) e guerriero ad un tempo, ha il potere nel gruppo. Differenziato, come la sua responsabilità e la sua funzione, è il suo diritto. Esso ha il comando. Ha struttura simile a quella di un Ordine» (1). Una comunità, quindi, in cui era presente il senso dell’onore, della fedeltà, dell’eroismo, del dominio di sé: differente dall’ideale demagogico moderno della comodità, della sicurezza e dell’edonismo borghese.
Un cambiamento ontologico, un nuovo modo di essere che determinava il distacco da un’esistenza semplicemente sensibile e fisica, introducendo il giovane in una nuova dimensione spirituale. Attraverso determinati riti il giovane acquisiva la qualità di uomo, inteso come Vir — virilità in senso spirituale e attiva, uomo che vivifica la Virtus – la virtù – e non come semplice homo — virilità in senso naturalistico e passiva – legato al semplice aspetto terrestre Humus. I valori e la visione del sacro, che presiedeva l’esistenza in ogni momento e azione era la condizione essenziale per appartenere, partecipare e condividere la visione etica della società degli uomini.
Queste stesse caratteristiche sono storicamente riscontrabili anche nella struttura feudale delle Corporazioni e degli Ordini cavallereschi e che in seguito, con lo svilupparsi delle prime università, servì da base per il costituirsi di gruppi e associazioni studentesche. Per farne parte, infatti, bisognava possedere particolari doti virili, conformarsi ad uno stile militare e ad uno speciale codice d’onore, avere un’attitudine del tutto opposta alla mentalità borghese e qualunquista dello studente moderno. Lo scopo era quello di evidenziare particolari doti che distinguessero la gioventù, quali l’energia e l’entusiasmo, la capacità di dedizione incondizionata e di intransigenza ed allo stesso tempo di orientarle in modo da non disperderle in una disordinata e rumorosa esuberanza. Una formazione appresa durante il periodo degli studi che non si esauriva solo col conseguimento del titolo accademico, ma perdurava per tutta la vita, determinando l’appartenenza a queste associazioni come un segno distintivo che si rafforzava anche quando si esercitava una professione o si ricoprivano incarichi istituzionali. Attraverso queste associazioni, quindi, si poteva già selezionare la futura classe dirigente dello Stato, indirizzando i giovani alla carriera che più si addiceva per natura e carattere, premiando i migliori e nello stesso tempo emarginando coloro che si erano mostrati codardi ed incapaci.
Al contrario nei sistemi democratici il livellamento borghese ha atrofizzato la visione sacra ed eroica della vita, causando da una parte il rapido declino delle “società di uomini” e permettendo dall’altra il sopravvento di una visione edonista ed utilitaristica. Così il benessere, la piccola sicurezza, il denaro, il successo e il piacere personale sono diventati facilmente i nuovi valori dell’umanità. Intere generazioni sono allevate al culto dell’agiatezza, dove tutto è permesso e nulla deve mancare, sono cresciute con l’obiettivo di soddisfare il proprio comodo, col sogno della carriera, della celebrità o della ricchezza, e di essere sempre vincenti e felici. Poco importa se per realizzare questa prospettiva si deve sacrificare qualcosa come la propria coscienza: ciò che conta è rivendicare per sé ogni tipo di libertà in linea con la morale del “farsi i fatti propri”, secondo una libertà assoluta vissuta appunto come una continua trasgressione. In fondo è proprio la parola trasgressione, e il modo d’essere che ne deriva, a caratterizzare da molti decenni la gioventù moderna, espressione del desiderio di rompere il senso di disagio e d’angoscia tipico di generazioni cresciute in una società consumistica.
Si rimane quindi standardizzati, spersonalizzati e privi di un vero carattere, futuri uomini-massa che si annullano nelle metropoli, che vivono in quartieri dormitorio dove nessuno si conosce e si preoccupa degli altri. Non esiste alcuna solidarietà e appartenenza se non quella della comitiva o del “branco” dove, per interi pomeriggi, si è parcheggiati sopra un muretto o in una sala giochi o, come ormai accade sempre più spesso, isolati dal mondo reale davanti ad un computer.
Con sempre più insistenza viene rincorso il mito vincente dell’autoaffermazione, vivendo un’esistenza al di sopra delle proprie possibilità. È l’esaltazione dell’assurdo, che dietro l’apparente indifferenza nasconde tutta l’angoscia e l’impotenza dell’esistenza moderna; l’importante è sentirsi vivi, anche se non se ne ha voglia, liberare la propria rabbia, farsi notare ad ogni costo, essere originali.
Il consumo di droga ed alcool è sempre più in crescita da parte di giovani ed adolescenti, ma anche, ulteriore segno dei tempi, frequenti sono gli episodi di violenza gratuita, senza un apparente movente, riflesso di quel disagio esistenziale, in cui l’incapacità a sacrificarsi si traduce in un “tutto e subito” tipico dei bambini viziati.
La dissoluzione di ogni etica è oggi un dato di fatto e non ci si meraviglia se la maggioranza degli individui vive tutto questo in modo naturale, così che a pagare le maggiori conseguenze sono proprio le giovani generazioni che, non avendo più alcun riferimento superiore, sono vittime di un profondo disorientamento.
Per molti giovani, ribellarsi alla società borghese è diventato sinonimo di vivere alla giornata, rifiutando di studiare o di lavorare, di dare conto dei propri impegni e delle proprie responsabilità. Si prende come proprio modello il “ribelle”, ma l’esperienza ha provato che dietro questa parola, troppo spesso non si cela il “rivoluzionario” o, se si preferisce “l’uomo differenziato”, ma il disadattato che contesta solo perché è incapace di cambiare la realtà che lo circonda. La “rivolta”, allora, non è altro che un sinonimo di fuga dalla realtà, una cartina di tornasole per mascherare e giustificare la propria impotenza.
Per non rimanere intrappolati negli schemi predefiniti che il sistema abilmente mette a disposizione, è necessario cambiare rotta, prendere coscienza del disagio e reagire: imponendo alla propria esistenza un riferimento superiore e ridestare la volontà come principio di affermazione eroica. È la volontà che si deve possedere per sconfiggere quelle numerose schiavitù che vincolano al bisogno più sfrenato: schiavitù di ogni genere, nei confronti degli interessi, degli appetiti del proprio “io”, delle paure, delle cose materiali, dei vizi ecc. Comodità, lusso, pigrizia, apatia, egoismo, materialismo sono solo una parte di quanto si cela realmente dietro le diverse e false esigenze che si dice di avere.
Per riuscire ad essere realmente liberi, per svincolarsi dai numerosi lacci si deve trovare all’interno di se stessi questa particolare volontà che, concretamente, è la forza che spinge ad agire in modo impersonale e disinteressato, con spirito di sacrificio. Bisogna sentire di appartenere ad una diversa umanità e constatare che ogni giorno, dinnanzi alla disperazione irrazionale dell’uomo moderno, è necessario un nuovo stile essenziale e realistico, in cui vale più l’essere che non l’apparire, più l’agire che il parlare disordinato, sforzandosi di eliminare dalla propria vita ogni istinto volgare e caotico. Bisogna, quindi, reagire rendendo di nuovo sacra la propria esistenza, in un continuo migliorarsi. Lotta, volontà e ferrea determinazione rappresentano lo stile di chi è consapevole e innesta la realtà divina in se stesso e nella propria azione. Un uomo che rifiuta il conformismo borghese, che paralizza i moti irrazionali dell’anima, i desideri e le paure, le agitazioni e le speranze, opponendo una composta nobiltà e fortezza d’animo.
È necessario educare la gioventù ad affrontare le tante prove che la vita offre, invece di evitarle o aggirarle, prove che temprino e che rendano vana ogni agitazione, ogni desiderio, ogni paura o pigrizia; prove che portino il singolo ad una riduzione dei bisogni e delle comodità. In questo modo, da una parte si avrà il controllo del corpo, temprandosi fisicamente e abituandosi a sopportare la fatica, dall’altra parte verrà messo un freno alla vita emotiva, vincendo desideri e sterili sentimentalismi, speranze e angosce. Solo comportandosi in questo modo è possibile rettificare la propria vita e lasciarsi alle spalle la miseria della società moderna.
Essere trasgressivi significa essere liberi. Liberi dal bisogno, dalla parte istintiva ed egoistica della propria natura. Liberi di ritrovare se stessi, rispettando le leggi profonde della vita, che non è qualcosa d’arbitrario da poter essere accettato o rigettato a piacimento, la vita non può essere ridotta ad un semplice fatto accidentale dinanzi al quale vi è solo rassegnazione. Liberi di saper resistere alle lusinghe del mondo moderno, nell’accettare la lotta e la via più difficile dell’andare controcorrente: non per il gusto dell’originalità ma per riaffermare la propria coscienza e il proprio stile.
La lotta di chi non si piega su se stesso, ma che si esalta nelle avversità, che non si rassegna e che non si dà mai per vinto, che alle avversità sa opporre “la linea di maggiore resistenza”. Di chi a questa valle di lacrime, con responsabilità e con gioia, lancia la sfida senza giustificazioni o alibi, senza compromessi o mediazioni, di chi mai come oggi ha fatto proprio l’imperativo:
Vivere non è conservarsi: è lottare!
J. Evola, Crisi della società moderna, in “Il Secolo d’Italia”, 31 Maggio 1952. Ora in J. Evola, Il Secolo d’Italia (1952-1954), Fondazione Julius Evola, 2001.