Tempo fatale
La recente pubblicazione di una raccolta di scritti di Guido De Giorgio (G. De Giorgio, Tradizione e realizzazione spirituale, CinabroEdizioni, Roma, Dicembre 2018), che ripropone i testi di questo Autore risalenti al periodo della sua più intensa collaborazione con Julius Evola (oltre a tre scritti inediti ricavati dalle sue carte in nostro possesso), andando ad integrare e completare la precedente raccolta Prospettive della Tradizione, permette di leggere qui riuniti tutti gli articoli scritti da De Giorgio con un intento “militante” — non avendo «un fine speculativo ma pratico», come scriveva Dante a Cangrande a proposito della sua Commedia —, utili a chiarire alcuni aspetti fondamentale della visione tradizionale della vita. L’occasione è importante in quanto permette di vedere messi a disposizione scritti altrimenti consultabili frammentariamente su vecchie riviste e singole pubblicazioni giacenti in biblioteche pubbliche o private.
Particolarmente appropriata ci sembra la riproposizione dello scritto L’attimo e l’eterno per la sua immutata “attualità”, di cui diremo a breve. Firmato Havismat, l’articolo era uscito nel 1928 sulla rivista Ur, riproposto il 3 agosto 1939 sulla pagina Diorama filosofico del quotidiano Il Regime Fascista col titolo Il Fascismo sacro di fronte al mito dell’avvenire, per essere infine inserito da Evola nel terzo volume di Introduzione alla magia. In esso De Giorgio tratta il tema fondamentale della qualità del tempo, che può essere correttamente rappresentata solo attraverso la concezione tradizionale ciclica; dato che, come ci ricorda Guénon, «le epoche del tempo si differenziano qualitativamente mediante gli avvenimenti che vi si svolgono» e, di riflesso, certi avvenimenti possono prodursi solo in determinate epoche e… a tempo debito! In questo senso è particolarmente utile guardare al ciclo annuale e al succedersi al suo interno delle quattro stagioni, veri e propri “contrassegni” qualitativi di particolari ricorrenze astronomiche che ritornano ogni anno ad influenzare l’umanità e il creato tutto intero.
È, del resto, propria del tempo sottratto a questa sua ciclicità e abbandonato alla sua sola dimensione quantitativa l’irreparabile fugacità, dato che gli avvenimenti, non più protetti e contenuti dalla cadenza ritmica rituale, tendono a precipitare sempre più velocemente, allo stesso modo dei corpi pesanti nella loro caduta. Verifica facile da fare da parte di ognuno guardando alla propria vita e all’accelerazione che ne caratterizza la scansione, anno dopo anno e giorno dopo giorno, quando più che crescere si invecchia; puntualmente notata da Seneca quando afferma che «Come da un’anfora cola anzitutto la parte più genuina, mentre quella più spessa e torbida ricade sul fondo, così nel tempo di nostra vita i giorni migliori sono quelli che si presentano per primi».
Fuori dalla tradizione si perde la bussola, poiché una vita ben diretta e correttamente orientata è solo quella ritmata e mantenuta entro margini di bellezza e luminosità. Ma per “ritmare” sono indispensabili i riti, che possono sussistere solo all’interno di una tradizione vivente e legittima, non essendo possibile sostituirli con messe in scena e scimmiottature parodistiche. Appesantirsi di immagini (belle o brutte che siano), o dedicarsi a letture più o meno utili (non tanto dissimili dall’agghindarsi delle donne!) complica lo scopo della vita, che consiste nel riservare tutto lo spazio della coscienza al Sacro e alla luce del Principio, riducendola ai “fondi” dell’anfora di Seneca ricordati prima. Le immagini nascono dal sentimento, e possono al massimo condurre ad una scelta devozionale. La concentrazione, che consiste nel fare il vuoto, lascia invece spazio all’Intelletto, seguendo il quale si ottiene l’unità nel Principio: unico scopo degno di una vita pienamente vissuta e dell’utilizzo dell’opportunità rappresentata dal transito terreno.
L’accelerazione incontrollabile nel “versamento” del futuro nel passato trova il suo arresto momentaneo nel presente, che è l’unica cosa che conta, che è reale e su cui è possibile esercitare una qualche azione. Nell’articolo da cui abbiamo preso spunto per queste note, De Giorgio nota che «al mito dell’avvenire si riconnette quello della velocità che, se bene si considera la sua funzione, il suo schema interno, è l’abolizione del passato nel già percorso, l’impercettibilità del presente minimizzato nell’aspettazione continua dell’avvenire», su cui si fonda l’illusione moderna del progresso, negazione radicale di ogni tradizione. Se, invece, si riesce a vivere nel presente ritualizzando azione e pensiero, attraverso l’attenzione, la concentrazione e la meditazione, sarà possibile sottrarsi in parte allo scorrere ineluttabile della sabbia nella clessidra, trasformando in farmaco la stessa necessità di movimento e di azione proprie di colui che non ha ancora raggiunto la perfezione: essendo solo Dio stabile e immobile, non dovendo Egli raggiungere niente e nessuno, possedendo già tutto. Ecco perché in tutte le tradizioni le ricorrenze cosmiche sono state celebrate con ricorrenze religiose, in cui si fissa simbolicamente l’attimo e si arresta il rincorrersi del tempo profano.
Perfino un oggetto apparentemente marginale quale può essere un calendario, quelli di una volta e sempre più rari da vedere col susseguirsi dei singoli giorni contrassegnati dai nomi dei santi sotto la cui protezione ricadeva qualsiasi aspetto dell’esistenza umana, oggi diventa un bene prezioso e insolito, nel momento in cui lo si soppianta con le più fantasiose e stucchevoli “giornate mondiali di qualcosa”, alla cui promozione ci si dedica con spiegamenti di forze degne di miglior scopo, all’insegna di una inversione laicistica e satanica che intende sottrarre qualunque spazio ad ogni parvenza di sacro, aprendo fra l’altro le porte al sacrilego, al nefasto e a ogni azione umana illecita che offende la divinità.
L’attualità di quanto detto sopra è rafforzata dalla coincidente sovrapposizione, rara ma significativa, di due ricorrenze che in questo anno 2019 condividono nello stesso giorno, il 21 Aprile, la celebrazione del Natale di Roma e della Pasqua di Resurrezione cristiana. Occasione “fatale” che a sua volta ci riconduce proprio a Guido De Giorgio che, nella sua opera principale La Tradizione Romana (il cui titolo reale che compare nel manoscritto originale era: L’emblema fulgurale della potenza: il Fascio Littorio nella Tradizione Romana – Introduzione alla Dottrina del Sacro Fascismo Romano, in cui l’aspetto militante dell’opera del nostro, prima ricordato, viene ulteriormente ribadito, qualora ce ne fosse bisogno, a dispetto di quanti vorrebbero somministrargli il vaccino democratico!), dell’incontro fra romanità e cristianesimo è stato insuperato interprete.
In questi contrassegni astronomici in cui, per dirla con De Giorgio, «Dio va verso l’uomo esattamente nella misura in cui l’uomo sale verso Dio», per ristabilire quell’unificazione in realtà mai interrotta, si celebra la primavera tradizionale in cui l’uomo e la natura esprimono in massimo grado la loro attività espansiva e il loro rigoglio fecondante. Roma, perpetuando per tutta la sua durata l’atto fondativo di Romolo, ha provveduto a sacralizzare gli spazi da essa ricoperti, garantendo l’ordine e la legge tradizionali nell’area di sua competenza, preparando infine il terreno per il manifestarsi del divino, che dall’orizzontalità dell’Imperium è asceso alla verticale del Regnum risorgendo dalla morte corporale per tornare a ricongiungersi al Padre, da cui in realtà non si era mai separato. Come sottolinea De Giorgio: «la tradizione antica, col simbolo fulgurale del Fascio Littorio, innalza l’uomo fino al piano cruciale attraverso la compiutezza delle facoltà umane e delle potenze cosmiche, là dove il raggio divino s’inserisce permettendo la realizzazione integrale dell’Uomo Nuovo». Ridurre Roma al semplice paganesimo, sopravvivenza superstiziosa degenerescente dettata dall’ignoranza, significa tarpargli le ali della sua reale funzione provvidenziale riducendola ad un cadavere da animare necromanticamente da parte dei «seguaci passivi dell’esteriorità tradizionale».
Questa singolare coincidenza e sovrapposizione dei due appuntamenti rituali fondamentali per la Tradizione Romana e il Cattolicesimo, ci sembra poter assumere una funzione rafforzativa, proprio in questa fase particolarmente critica della porzione di ciclo che stiamo vivendo, anche in vista dei prossimi sviluppi escatologici, se si tiene presente la relazione che unisce l’Agnello del simbolismo cristiano all’Agni vedico, come ci ricorda Guénon nel suo L’Esoterismo di Dante (nota 13 al capitolo VIII): «Non pretendiamo che vi sia, fra i termini Agnus e Ignis (equivalente latino di Agni), qualche cosa più di quelle similitudini fonetiche alle quali facevamo allusione in precedenza, che possono benissimo non corrispondere ad alcuna parentela linguistica propriamente detta, ma che non sono per questo fatto puramente accidentali. Ciò di cui vogliamo parlare soprattutto, è di un certo aspetto del simbolismo del fuoco, che, nelle diverse forme tradizionali, si lega abbastanza strettamente all’idea dell’“Amore”, trasposto in un senso superiore come fa Dante; e, in ciò, Dante si ispira ancora a San Giovanni, a cui gli Ordini di cavalleria hanno sempre collegato principalmente le loro concezioni. Conviene notare, altresì, che l’Agnello si trova associato ugualmente alle rappresentazioni del Paradiso terrestre e a quelle della Gerusalemme celeste».
L’aberrazione moderna, con le sue innumerevoli e crescenti manifestazioni all’insegna della bestialità più ottusa, va contrastata e combattuta (prima di tutto in noi stessi) proprio “rivolgendosi” alle due tradizioni succedutesi presso Roma, da cui trarre insegnamenti per darsi una regola ed una legge che metta ordine sul piano orizzontale, per poi superare le limitazioni proprie dello stato individuale, come sottolinea lo stesso De Giorgio: «L’obbedienza alla legge è analoga a quello stato di passività preliminare e preparatorio, la fede, che è il vestibolo necessario della conoscenza, poiché nessuno può, praticamente se non in principio, giungere alla verità coi suoi mezzi e le sue risorse senza una guida offertagli dalle innumerevoli possibilità tradizionali che implicano accettazione totalitaria e non semplice adesione esteriore». Evidenza pienamente raffigurata nel quadrato come rappresentazione del mondo ordinato e dinamicamente animato, su cui s’innesta la direzione verso l’alto che porta alla trasfigurazione unificatrice, affinché di una Roma perennemente Rinnovata possa Risorgere il Tempus, cioè lo Spirito e non il cadavere.