LA DOMANDA RADICALE
Il raggio perforatore della mente
“Chi sono io?” Ecco la domanda decisiva che ogni essere umano deve porsi. La domanda fondamentale e radicale in cui è compresa ogni altra domanda che può venire in mente ad una persona. Una volta trovata la vera e definitiva risposta a questo quesito, tutti gli altri problemi, questioni e interrogativi vengono automaticamente risolti.Domanda radicale nel vero senso della parola, poiché va alla radice, interroga sulle origini profonde e trascendenti del nostro essere. Non è un caso, del resto, che una domanda così radicale venga impiegata come potente leva per trasformare la mente in numerose tradizioni e discipline spirituali, sia d’Oriente sia d’Occidente.Nel Vedanta e nella spiritualità indù, la domanda “Koham?” (“Chi sono io?”) figura come elemento centrale di ciò che riceve il nome di vichara, “ricerca”, “indagine” o “investigazione” — si sottintende, indagine sull’origine dell’io, sul mistero del proprio essere —, punto importante nella via della Gnosi o Jnana-marga e che costituisce un valido complemento della meditazione. I tre passaggi del vichara sono: Na aham (“non sono questo”), Koham? (“Chi sono io?”) e Soham (“Io sono Quello” o “Io sono Questo”).La domanda “Chi sono io?” è anche la quintessenza della dottrina Zen. Come sottolinea Toshihiki Izutsu, tutta la teoria e pratica di questo ramo del Buddhismo Mahayana si riassume nella domanda watashi ga dare ka? (in giapponese: “Chi sono io?”). I maestri zen raccomandano di concentrarsi nelle domande “che sono io?” o “chi sono io?”, le quali si propongono spesso come materia di un koan, enigmatica questione che non ammette una risposta logica e razionale e che il discepolo deve risolvere con le proprie forze, tenendolo in ogni istante presente e rimuginandolo in continuazione. Davanti a questo quesito, si incita il discepolo ad approfondire in sé stesso affinché scopra di non essere un oggetto o soggetto separato da tutto il resto.
Nell’India di questo secolo sono numerosi i maestri spirituali che hanno utilizzato questa domanda chiave come elemento capitale della loro dottrina e tecnica realizzativa. Conversando con uno dei numerosi europei che accorrevano al suo ashram in cerca di orientamento e consiglio, Sri Nisargadatta Maharaj lo invitava a “scoprire il suo essere reale”, e gli raccomandava per questo di rinunciare ad ogni domanda, eccetto una: “Chi sono io?”. «Immergiti in essa», gli diceva. «Lotta per trovare ciò che sei realmente», consigliava in un’altra occasione, e aggiungeva che non c’è modo migliore di farlo che formularsi tale domanda, la quale ci porta a «trasferire l’importanza accordata alla persona superficiale e mutevole verso l’essere immutabile ed eterno». Nisargadatta considera la domanda “Chi sono io?” come «la domanda primordiale», «la domanda fondamentale di ogni psicologia e di ogni filosofia». Come via per calmare e pacificare la mente. Ma Ananda Mayi, proponeva «il cammino che conduce a prendere coscienza di ‹Chi sono io?›». E come chiarimento di questo suo consiglio precisava: «I suoi capelli sono incanutiti, il suo corpo un tempo giovane è invecchiato e non durerà per sempre. Non è l’io reale. L’uomo deve scoprire chi egli sia in realtà. Si tratta di giungervi con la propria mente, riceverà l’alimento necessario per calmarla». Ma è senza ombra di dubbio Ramana Maharshi, il grande maestro spirituale del paese tamil, quello che dà maggior importanza e impiega in maniera sistematica la domanda “chi sono io?”, la quale praticamente costituisce il nocciolo del suo insegnamento. Non per nulla l’insegnamento di Maharshi si presenta fondamentalmente come un vichara-marga, un cammino di ricerca e indagine. Secondo Ramana, questa domanda, che implica il cercar di trovare la fonte dell’ego o dell’idea dell’ “io”, è la migliore arma per uccidere il mentale e distruggere i pensieri. Secondo le sue stesse parole, il più efficace mezzo per liberarsi dall’esclusivismo dell’ego, vale dire dalla passione e dall’ignoranza, consiste nel chiedersi «Chi sono io che mi trovo in schiavitù?» Già in relazione col problema della libertà rispetto al destino, aveva indicato molto chiaramente che ci sono due soli modi per vincere l’inesorabilità del destino: rimettersi alla Volontà di Dio o «indagare su chi è che subisce il destino». In un’altra occasione, a un tale che si lamentava di non sapere quale fosse l’io che si deve cercare o realizzare, e che rispondeva con uno schietto e scettico «non lo so» a una domanda che a tal proposito gli poneva Maharshi, questi lo consigliò con tono affabile: «Si limiti a riflettere su questo problema. Chi è quello che dice: non lo so? Chi è l’io nella sua asserzione? Cos’è ciò che non si sa?». E siccome quel tale si ostinava nelle sue difficoltà e le complicava con la domanda «perché sono nato?», Ramana replicò: «Chi è nato? La risposta è la medesima per tutte le sue domande».Già in ambito Zen, Yasutani Roshi, maestro giapponese contemporaneo, istruiva una volta uno dei suoi discepoli sulla necessità di non accettare troppo l’idea ossessiva dell’io-ego con la quale ci ostiniamo ad ingannarci e che non fa altro che generare l’alienazione e il conflitto, indicandogli che per lui era importante prestare attenzione al fatto che non siamo né il nostro corpo né la nostra mente. Per questo, lo invitava a concentrare tutta la sua attenzione in questa domanda radicale. «La sola cosa che deve fare — gli diceva — è perseverare nella domanda ‹chi sono io?›, se vuole sperimentare ciò che le è stato detto». Una raccomandazione simile la faceva a un monaco che ricorreva al suo saggio consiglio per risolvere i suoi dubbi su determinate questioni dottrinali. «Sopprima quanto appare nella sua mente, distrugga tutte le idee, e per tutto il giorno insista nella domanda ‹cos’é questo che ascolta questo insegnamento?›». E in una sua risposta alla lettera di un’altra persona che gli chiedeva indicazioni su come praticare lo Zen quando si è ammalati e si deve restare a letto, gli scriveva le seguenti parole: «Chi è l’ammalato? Chi è che stà praticando lo Zen? Lei sa chi è lei?». Questo è il problema chiave: non sappiamo chi siamo, e il peggio è che crediamo di saperlo. Basterà indagare sulla natura dell’io, ponendosi questa semplice domanda nella forma preferita, per renderci conto dell’enormità della nostra ignoranza. Quando lasciamo affiorare nella nostra coscienza tale domanda, verifichiamo fino a che punto ci ignoriamo, non ci conosciamo. Domandandomi chi sono, mi rendo conto di essere uno sconosciuto a me stesso; la prima cosa in cui mi imbatto è il vuoto, forse addirittura un abisso nel quale non avrei mai osato guardare. Per questo, abbiamo la tendenza a evitare tale interrogativo sulla nostra stessa realtà, per questo lo temiamo. «Non ci può essere uno sproposito maggiore che non conoscere se stessi, non saper nulla del fondo interiore», scrive Valentin Weigel, mistico cristiano tedesco del XVI secolo; poiché «tutta la sapienza e ogni conoscenza — aggiunge — è racchiusa in me», e potrò scoprirle solo se conosco me stesso. È a questo “fondo interiore” o “intimo fondamento”, questo inwendiger Grund di cui parla Weigel, che apre la strada la domanda “chi sono io?”.L’unico modo di conoscere noi stessi è chiederci chi siamo. Solo se mi chiedo in continuazione “chi sono io?” posso andare in fondo alla verità del mio essere. Così lo intendeva S. Agostino, il quale incentrava le sue meditazioni in una così semplice ma essenziale domanda per sviscerare il mistero della sua persona e il suo posto nel Creato. Porsi la domanda “Chi sono io?” significa mettere in pratica nel modo più coerente e rigoroso l’imperativo delfico gnothi seuaton, il “conosci te stesso”.
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La domanda “Chi sono io?” è il raggio di luce che attraversa la mente e, trapassandola, la illumina, rigenerandola e trasformandola. È lo sguardo luminoso che rischiara gli abissi della coscienza e rende manifesto ciò che in essi si occulta. Come il raggio che squarcia l’oscurità del cielo in mezzo alla tormenta, la sua semplice impostazione riempie di splendore le zone tenebrose della nostra interiorità e ci fa scoprire una verità che fino ad allora era rimasta ignota a noi stessi: la verità della nostra autentica natura, che è la Verità.Il rigore implacabile del “Chi sono io?” opera come un coltello affilato capace di togliere il guscio, la pelle o buccia del frutto vivente che è la nostra realtà personale, fino a giungere al midollo, al centro del nucleo, al centro della nostra identità. Un coltello sicuro e magistrale che va togliendo ad uno ad uno i successivi involucri o cappe psichiche che ricoprono la propria essenza spirituale; questi involucri con cui di solito ci identifichiamo e che, come le tuniche di una cipolla, si sovrappongono all’essere autentico e profondo della persona, vale a dire, al nucleo della Personalità metafisica, velandolo e occultandolo allo sguardo superficiale del soggetto.La domanda “Chi sono io?” si immerge nelle oscure acque della coscienza, come se fosse un amo che sonda il fondo del mare personale in cerca del segreto, il mistero o principio vitale che là si nasconde. Amo legato a un filo luminoso che scende dall’alto e che è in contatto con la Luce della Verità, quella Verità che è proprio ciò che si cerca e si vuole pescare. Lanciato continuamente dalla mano esperta del pescatore, questo amo, in una riedizione personale della “pesca miracolosa”, attrae e cattura il pesce invisibile, divino, animatore e vivificante, che dorme nel fondo dell’anima, nascosto, dimenticato, sconosciuto. (Non bisogna dimenticare che nell’iconografia paleocristiana Cristo, che è il “Verbo interiore” presente nel cuore dell’uomo, è rappresentato spesso sotto forma di pesce, ricevendo il nome latino di Piscis e quello greco di Ikhthis: o Ikhthis mas “nostro pesce”, lo chiama Tertulliano).Sonda che rastrella il fondo oceanico della propria persona e alla quale nulla può sfuggire, questa domanda scende in profondità per portare alla luce il tesoro che giace sepolto sotto il fango abissale in conseguenza del naufragio esistenziale. In una frazione di secondo, la semplice idea di questo interrogarsi su chi siamo scende fino alla parte più profonda di noi stessi per provocare in questa regione sconosciuta, come una formidabile mina di profondità, una esplosione tanto perturbatrice quanto chiarificatrice che farà emergere alla superficie della vita cosciente ciò che altrimenti resterebbe per sempre sepolto.Si tratta di un’arma dissacrante per eccellenza. È questo: un’arma distruttrice della mente; di questa mente discorsiva, disputatrice, egotista, egocentrica, miope e passionale, che ci allontana dalla Verità, che ci separa dal Reale, che ci fa vivere distratti e smarriti, separandoci da noi stessi e da ciò che ci fa essere quel che siamo. È un’arma che ci consente di mettere in pratica con incomparabile convinzione ed efficacia ciò che la tradizione indù chiama manonasha, “annichilimento della mente”, o manolaya, “dissoluzione della mente”. Un’arma forgiata col miglior materiale della mente, fatta di forza adamantina, come il vajra tibetano, per assestare un colpo mortale a questa stessa mente che ci schiavizza. Non c’è barriera né muraglia, mentale o psicologica, che può opporsi alla forza penetrante di questo dardo intellettuale, luminoso, lacerante, trasformatore e liberatore, diretto al centro della mente. Il suo potere trapassa tutti gli involucri dell’ “io”, tutti i travestimenti, tutte le maschere, le scorze illusorie o croste di falsità con cui si cinge l’ego nella sua strategia di autoaffermazione e autodifesa.Tale interrogazione sul nostro “io” opera come spada della conoscenza che lacera le nostre carni e penetra in esse da conquistatrice e dominatrice per portare il messaggio della luce dentro di noi. È la spada, freccia o lancia con la quale potremo uccidere il drago dell’io, che si rafforza fra le ombre dell’ignoranza, nell’oscuro antro dell’incosciente e del subcosciente. Ricordiamo che tali armi sono contemplate nelle diverse culture tradizionali come la raffigurazione simbolica del raggio, sia in quanto raggio luminoso sia in quanto folgore, e che la conoscenza è paragonata sempre a una penetrazione che introduce la luce in ciò che bisogna conoscere, come se lo sguardo conoscitivo fosse una freccia radiante o una spada risplendente che squarcia le tenebre e fende il corpo oscuro del fino ad allora ignoto; per questo si dice “visione penetrante” riferendosi alla sapienza, all’atto di conoscere. Nel linguaggio erotico, conoscere sessualmente e amorosamente una persona equivale a penetrarla o essere penetrati da essa — in questo senso si usa, senza andare molto lontano, l’espressione “conoscere un maschio” o “conoscere una femmina” nella Bibbia —, essendo il fallo, il membro virile che effettua tale penetrazione, paragonato a un dardo radiante, a una spada, freccia o lancia di luce e di fuoco.Con aureo filo rifulge nelle nostre mani questa domanda radicale come una spada invincibile. È la spada solare che ci permette di uscire vittoriosi dal combattimento col mostro abissale che giace nelle profondità della propria individualità. Grazie a quest’arma divina riusciremo, come il mitico eroe solare — Bellorofonte, Indra, Sigfrido, San Giorgio — a liberare la Principessa che il drago tiene prigioniera: la Donzella o Vergine solare, la Sophia o Sapienza, la nostra Anima celeste, l’Anima dell’anima, la nostra autentica e profonda realtà. E allo stesso tempo conquisteremo il tesoro nascosto in fondo alla caverna: l’oro spirituale racchiuso nel più profondo del nostro essere; il gioiello perduto indice della nostra natura divina; il Graal o Vaso d’immortalità che è il Cuore del Tao. Cose tutte queste a cui ci è inibito l’accesso dalla nostra stessa ignoranza e codardia; giacché non osiamo avventarci contro la tenebrosa fiera egotica, il cui nero e vischioso corpo si interpone nel cammino che conduce a tali tesori.Il “Chi sono io?” ci restituisce il valore perduto, ci risveglia dal nostro letargo e ravviva tutte le nostre forze per affrontare il nemico imboscato in noi stessi. Ci lancia totalmente nella lotta e ci dà pure la corona della vittoria. Non c’è alcun dubbio che, se sapremo maneggiare con pazienza e intelligenza questa spada interrogativa, non tarderemo a sottomettere, sconfitto e vinto, il mostro che prima ci terrorizzava e tiranneggiava. E allora vedremo — come si verifica in molti racconti e leggende — il drago che abbiamo ucciso trasformarsi immediatamente nella Principessa, la Figlia del Re divino, la quale era stata tramutata in drago dal maleficio del mago nero o stregone incantatore che è l’io. Rotto l’incantesimo che ci ingannava, demolito il potere dell’illusione egotica, si disfa l’incanto malefico che deformava la nostra visione e riaffiora la realtà nella sua originale e radiante bellezza: il nostro vero Io risplende in tutta la sua autenticità.Normalmente viviamo identificati col nostro io. Confondiamo il nostro essere e la nostra realtà con l’io superficiale, l’io fittizio e contingente della nostra individualità sensibile, psicofisica, ciò che il Buddhismo giapponese designa come “io falso” (nin-ga) o “piccolo io” (chiisai-ga). Ignoriamo che oltre a questo io apparente, ingannevole, illusorio ed effimero, c’è un Io più profondo e reale: il Sé o Se-stesso, l’Essere assoluto ed eterno, quello che i buddhisti giapponesi chiamano l’ “Io vero” (Shin-ga) o “Grande Io” (Dai-ga). La domanda “Chi sono io?” mette fine a un tale stato di cose. Ci mette di fronte alla verità di quel che siamo e ci mostra la falsità del meschino io individuale con cui ci identificavamo.Chiedendoci quale sia l’autentica verità del nostro io, quale la sua origine e quale la sua vera natura, si determina una crisi nel consueto processo identificativo. Ha luogo una rottura radicale della menzognera confusione che soffriamo. Cessiamo di identificarci con l’io psicofisico, di considerarci un’unica cosa con esso. Il semplice fatto di porci questa domanda mette in discussione quello che fino ad allora avevamo accettato come credenza basilare e fondatrice della nostra vita. E una volta che viene messo in dubbio, l’inganno o miraggio di cui eravamo vittime perde la sua forza.Come indica Jean Klein, questa indagine sul proprio io suole essere considerata “la Via diretta” verso la scoperta della Verità e dell’Assoluto, dato che ci porta a conoscere qualcosa che per il momento ignoriamo, la nostra vera natura, attraverso l’eliminazione del conosciuto. «Ogni volta che diciamo “io penso”, “io vedo” o “io ascolto” — osserva Klein —, associamo l’ “io”, il soggetto, a un oggetto di conoscenza col quale tende a identificarsi». Questo è il processo naturale, incosciente e istintivo, ma «se arriviamo a svincolare l’ “io” da una simile identificazione, appare il resto: il Sé o Self, la Realtà non duale, eterna, immutabile». E questo lo conseguiamo proprio, afferma Klein, ponendoci la domanda primordiale “Chi sono io?”. Ramana Maharshi chiama a sua volta questo indagatorio concentrarsi nell’io “il metodo diretto”; poiché non può esserci un’esperienza più diretta che quella dell’ “io”. E nessun metodo più diretto che il fissarsi in quest’esperienza. Si tratta, come insegna il Saggio di Tiruvannamalai, di pensare sempre ed esclusivamente all’io. «Pensate ‹io›, ‹io›, ‹io›, e mantenetevi in quest’unico pensiero, escludendone qualunque altro». Ramana ripete con insistenza che per mezzo di quest’indagine intorno all’io, si fa svanire l’io falso, impuro, contaminato, precario, che sorge dall’erronea associazione col corpo, i sensi, la mente o la psiche, e si arriva a scoprire, l’Io-Io o Io dell’io —The I-I, in inglese — l’Io puro, reale e autentico, perfetto, eterno, che non ha principio né fine. «Scopri da dove scaturisce il falso ‹io›. Allora sparirà. Resterà solamente quel che era: l’Essere assoluto». Il cammino raccomandato è molto semplice: «Cerca l’origine dell’idea “io”. Questo è tutto quello che bisogna fare».Grazie a questa indagine sull’io, vedremo con chiarezza che la nostra realtà è ben al di là di ciò che gli indù chiamano il nama-rupa, il “nome e forma”. In altre parole: che non siamo né questo nome (nama) col quale tutti ci conoscono e che figura sul nostro documento di identità, questa congiunzione di sillabe che tanto ci compiace vedere esaltata o semplicemente riprodotta, né tanto meno questa forma (rupa), questa effigie, questo corpo e questo volto che tanto ci piace vedere ritratti, della cui apparenza siamo in ogni momento dipendenti e sui quali siamo così suscettibili da non poter sopportare che li si metta in discussione o se ne parli male.Quando ci compaiono davanti questo nome e questo volto che ci sono tanto familiari, coi quali viviamo totalmente identificati, fino al punto che una offesa o critica agli stessi non la possiamo perdonare, domandiamoci: sono veramente io questo? chi è che sta dietro questo nome? chi è questo che si mostra con questa immagine? Non tarderemo a percepire che dietro l’io che si identifica con queste due cose c’è qualcosa di molto più profondo: il nostro Io autentico. E constateremo che questo nome e questa immagine non sono altro che vani rivestimenti che coprono il nostro Io autentico, maschere e indumenti che adotta per recitare la propria parte nel palcoscenico che è il mondo.
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Dovremmo fare della domanda “Chi sono io?” il centro e asse della nostra esistenza. Posto che l’“io” è il dato basilare e fondamentale della nostra esperienza, posto che la soggettività o la coscienza personale è il fatto primario con cui ci imbattiamo e su cui si basa tutto il resto, cosa ci può essere di più importante che indagare su tutto questo? Quale azione potrebbe avere un carattere maggiormente prioritario del dirigere lo sguardo dell’intelligenza verso detta soggettività, verso detto “io”, e interrogarsi sul suo contenuto, sulla sua autentica realtà? Così lo indica Ramana Maharshi: posto che il pensiero dell’ “io” è «il primo e il principale di tutti i pensieri che sorgono nella mente», non potendosi produrre gli altri pensieri se non dopo il pensiero dell’ “io”, e posto che «la mente non è altro che un cumulo di pensieri», l’unico modo per liberarsi della mente e conseguire la pace e la felicità autentiche è interrogarsi sulla radice di questo pensiero dell’ “io”.Invece di chiederci tante cose inutili come di solito facciamo, concentriamoci in questa domanda centrale e capitale in cui ci giochiamo tutto. Facciamone la nostra preoccupazione principale, ciò che riempie la nostra vita e che stà dietro tutto quello che facciamo. Convertiamola nella spina dorsale che sostiene il nostro vivere quotidiano. È inutile perdere il tempo in polemiche e discussioni, dice Ramana Maharshi. «L’unica cosa da fare è dirigere la mente verso l’interno e impiegare il tempo in modo proficuo». E dopo aver sottolineato che nell’unione col Supremo la sola cosa che conta è l’esperienza diretta, aggiunge: «Si può ricorrere solo all’esperienza diretta; quindi, cerca chi sei». È questa una domanda che possiamo e dobbiamo porci in qualunque momento della vita quotidiana; giacché il farla sorgere nella mente, come mostra bene Maharshi, non diminuisce affatto la nostra concentrazione né distoglie affatto l’attenzione da ciò che stiamo facendo. Al contrario: il semplice fatto di emergere il suo quesito nella coscienza ci riconduce istantaneamente alla presenza di quello che facciamo in questo preciso momento, ravviva e intensifica la nostra attenzione. Invece di perderci, ci ritroviamo. La domanda “Chi sono io?” è uno dei più efficaci strumenti per mantenere vivo l’atteggiamento di pura presenza, la lucidità intellettuale, la vigilanza spirituale e lo stato di allerta interiore. Per cui questa domanda viene ad essere come un bussare alla nostra coscienza che interrompe il corso distratto e dissipato in cui generalmente ci muoviamo; una chiamata o richiesta d’attenzione che ci sveglia dall’oblio in cui normalmente viviamo e ci fa volgere verso noi stessi. Intanto, il chiederci chi siamo ferma subito la divagazione e dispersione mentale a cui siamo così propensi. E immediatamente distrugge la nostra amnesia esistenziale, ci restituisce il ricordo di quel che siamo. Formularsi la domanda “Chi sono io?” è il miglior modo di praticare la anamnesis platonica; significa vivere presenti nell’Eterna Presenza.Per questo introdurci nel mistero della Presenza, per questo stabilirci nell’Assoluto onnipresente, la domanda “Chi sono io?” viene ad essere una forma di preghiera, di continua orazione. La necessità di ripeterla incessantemente, in ogni momento e luogo, le dà una certa rassomiglianza col dhikr della tradizione islamica e il japa o il mantra della tradizione indù, consistente nella recitazione o ripetizione incessante di una formula sacra (un nome divino, una sillaba mistica come il monosillabo Om). Sebbene avverta in più di una occasione che questa domanda non deve confondersi col japa né praticarsi come tale, lo stesso Ramana Maharshi sottolinea tale somiglianza, segnalando che l’insistenza in questo interrogativo dovrebbe finire per sfociare in una specie di «japa involontario ed eterno». «Di tutti i japas — diceva ad uno dei suoi discepoli —, “Chi sono io?” è il migliore».Bisogna coltivare, dunque, tale attitudine interrogativa in ogni istante della nostra vita. Vediamo un esempio pratico che può risultare particolarmente indicativo: guardandomi in uno specchio, invece di dilettarmi per quanto bello o forte sono, invece di preoccuparmi per la brutta cera che ho oggi, per vedere se mi è spuntato qualche capello bianco o se ho un buon aspetto per la riunione che terrò fra poco, dedicarmi a un’esistenza più profonda e interessante, che mi riguarda molto di più. Domandarmi: chi è questo che ho davanti? chi è questa persona che si guarda e si ammira come se fosse il centro del mondo? chi è quest’essere che si scontra con se stesso? chi è quest’individuo in cui vivo e col quale convivo giorno dopo giorno senza poter cessare di farlo? sono realmente io quest’essere che vedo? altrimenti chi sono?Se stiamo mangiando, lavorando, leggendo, facendo sport, passeggiando, pregando, parlando, meditando o passando un brutto guaio, questa domanda può sorgere nella nostra mente come un flash o bagliore istantaneo che la illumina. Domandiamoci: chi è questo che lavora? chi sta mangiando? chi è quello che medita o prega? chi ha adesso questa o quella preoccupazione? chi è questo che soffre o è triste? chi prova piacere, ride o si diverte? chi si sente solo o abbandonato? chi vive con entusiasmo l’attuale momento? chi sono io che non riesco a farmi capire dagli altri? chi sperimenta la riuscita o il fallimento a cui devo ora far fronte? In questo senso vanno le raccomandazioni del maestro Yasutani: «Quando ascolta, si domandi, ‹chi sta ascoltando?›. Quando guarda, ‹chi sta vedendo?›. Quando va, ‹chi sta camminando?›. Quando mangia, ‹chi sta mangiando?› ».E certamente, la luce potente che getta la domanda “Chi sono io?” dovrebbe proiettarsi anche sulle questioni fondamentali della vita e della morte. Dirigendo sulla nostra vita e la nostra morte il fascio luminoso che, come un potente riflettore indagatore dell’oscurità e dell’ignoto, tale domanda proietta, dobbiamo indagare a chi interessa questo vivere e questo morire o chi è il protagonista di entrambi. “Chi è questo che vive?”, “chi è quello che deve morire?”, “chi sono io che ho il piacere di vivere, ma sono sempre minacciato dalla morte?”, “chi deve colpire qualche giorno la morte in un domani ancora incerto?”, “chi vive la mia vita e morirà la mia morte?”, “chi sono io che, senza accorgermene, muoio un poco ogni giorno e avanzo inesorabilmente verso il mio destino finale?”, “chi sono io che nasco di nuovo alla vita ogni mattina e muoio nella piccola morte del sonno ogni notte in questo ininterrotto ciclo di morte e rinascita che è il mio divenire vitale?”. Eccoli alcuni degli interrogativi che converrebbe seminare nel nostro spirito e che certamente ci darebbero luce e forze per andare in contro come si deve al nostro destino. Domande tutte queste, in definitiva, che ci aiuterebbero a vivere bene e morire bene.Formulata in un’altra prospettiva, ma avendo sempre in vista il destino ultimo della vita, l’origine e la fine del proprio essere, la domanda “Chi sono io?” equivale a porsi quel problema fondamentale che stà alla radice dell’inquietudine filosofica e religiosa: Verso dove vado, da dove vengo? O, se si preferisce, e per esprimerlo più in conformità col tema che ci riguarda: Da chi e verso chi vivo la mia vita? Chi mi vive, mi ha vissuto e mi vivrà? Così lo intende il maestro zen cinese del XII secolo Daiyie, il quale fa le seguenti riflessioni: «Da dove siamo nati? Verso dove andiamo? Colui che conosce questi ‹da dove› e ‹verso dove› è quello che può essere detto veramente buddhista. Però, chi è questo che passa attraverso nascita e morte? E ancora, chi è colui che non sa nulla del ‹da dove› e ‹verso dove› della vita? chi è quello che all’improvviso prende coscienza del ‹da dove› e ‹verso dove› della vita?» E Daiyie conclude dicendo: «se vuoi sapere chi è, bloccalo dove non può rinchiudersi nel campo della ragione», e allora scoprirai che stà «ben oltre l’interferenza di nascita e morte». Daisetz Teitaro Suzuki commenta a tal proposito che se cerchiamo di cogliere e intendere questo essere che è cosciente di se stesso con le categorie della nostra mentalità ordinaria, relativa e limitata, o mediante sottigliezze dialettiche, «ci sfugge sempre»: «quando pensi che finalmente lo hai afferrato, ciò che ti resta in mano non è altro che una sua ombra, un concetto astratto che non ti offre alcun aiuto effettivo nella tua vita quotidiana».La semplice formulazione della domanda “Chi sono io?” ci mette in una condizione molto più adeguata per affrontare il problema, e inoltre assesta un colpo mortale alla nostra coscienza ordinaria, retta, ispirata e controllata dall’ego o falso io. In realtà, e posto che questa domanda radicale prepara la via per la morte dell’ego, dell’io effimero col quale normalmente viviamo identificati, si potrebbe dire che con essa impariamo a morire mentre viviamo. Questa domanda ci insegna questo “morire prima di morire” postulato da qualunque dottrina o via iniziatica.
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“Chi va là?” grida la vedetta che monta la guardia, occhio vigile, dall’alto delle mura, all’entrata del castello, accampamento o città, in segno di allerta allo scorgere qualcuno che si avvicina in mezzo all’oscurità. È una domanda che, mentre indaga su chi sia colui che si ha davanti, serve per mantenersi allerta, per risvegliare e ravvivare lo spirito. Una esclamazione simile, sebbene in forma silenziosa, taciuta ma non meno inquisitoria, è quella che dovremmo lanciarci continuamente nel corso della vita: “chi vive in quest’essere che sono io?, “chi sei tu che mi vivi, che vivi in me e con me?”. Come una sentinella che sorveglia la porta della città interiore, lanciamo questa domanda diretta all’individuo che si avvicina nascosto nella penombra di un’esistenza sonnolenta e il cui volto non vediamo ancora chiaramente; quest’individuo che siamo noi stessi.Nel momento in cui sorge nella nostra mente qualcuna delle numerose, indefinite, interminabili domande che così tanto ci distraggono, sviandoci dal nostro cammino — domande sul futuro, sul passato, sulla gente che ci circonda, sulla nostra stessa vita, su questo o quel problema intellettuale, su enigmi insolubili —, proiettiamogli sopra la luce inquisitoria di questa domanda, trasformandola così in una domanda interrogata nella sua stessa fonte, vale a dire, in una ri-domanda o una domanda della domanda. Invece di lasciarci dominare o lacerare da essa, interroghiamoci sulla domanda stessa, in modo che si trasformi in una interrogazione rivolta a chi domanda e che interroga su chi domanda. Lasciamo che la richiesta e il richiedente si rivoltino su se stessi. Avremo così come risultato un punto interrogativo che si chiude in circolo e si morde la coda, come l’Uroboros ermetico; una domanda alchemica sull’essenza, la fonte e il mistero dell’atto di domandare. Chiediti: chi pone questa domanda? chi si interroga? Così lo raccomanda Nisargadatta Maharaj: «Quando si formula una domanda, qualunque essa sia, porgila allo stesso interrogatore. Aggrappati a chi fa la domanda; è il tuo stesso essere, il tuo ‹io sono›. Così facendo, la gente si avvicinerà a te con numerose domande e ti chiameranno Mahatma!».Se, come insegna lo Zen, ogni domanda ben formulata contiene in se stessa la sua risposta, a maggior ragione la conterrà la domanda sull’io, che è la più elementare delle domande, la domanda principale e fondamentale. In nessun altro caso questa asserzione è sicura come in quello della formula “Chi sono io?”. Nessuna domanda, nessun atto interrogativo o investigativo, racchiude in sé una risposta così diretta come questa domanda che indaga sulla radice ultima dell’essere.«Chiedi, e ti sarà dato; cerca, e troverai; bussa, e ti sarà aperto», dice Cristo. Parole applicabili al tema qui trattato. Cos’altro è l’indagare sul proprio io se non un atto di ricerca, una invocazione e una richiesta? L’atto di interrogarsi su di sé contiene, in effetti, una ricerca della nostra vera identità, un bussare alla porta del proprio tempio interiore, un chiedere che ci venga svelato il mistero della nostra intima natura. Questo indagare chi siamo è un atto di investigazione, di esplorazione, di pedinamento, che implica allo stesso tempo una chiamata a qualcuno che deve risponderci, una richiesta che si dissipino la nostra ignoranza e la nostra perplessità riguardo a noi stessi. Questo cercar di scoprire cosa c’è dietro le tre nozioni che costituiscono la domanda “Chi sono io?” e che sono un’unica e identica cosa — il mio “chi”, il mio “sono” e il mio “io” — è come un appello al tribunale della nostra coscienza — nel senso più profondo della parola —, affinché risolva la causa che abbiamo pendente fin dalla nascita. Tale ricerca equivale a domandare la risposta definitiva ai dubbi che ci assillano e, pertanto, la soluzione del nostro problema esistenziale. È questa una ricerca che evoca la mitica ricerca o cerca del “Santo Graal”, la quête du Gral. “Chiedete e vi sarà risposto”, bisognerebbe aggiungere come glossa, variante, ampliamento o logico sviluppo della saggia sentenza evangelica. Chi domanda? Chi è l’interrogato? Chi risponderà e a chi? Non cessiamo di chiedercelo. Domandiamolo, interroghiamolo e richiediamolo al nostro intimo incessantemente. La Verità eterna che dimora dentro di noi darà completa risposta a tutte queste domande.Solo il Verbo o Logos divino, che è la nostra “Guida interiore”, l’Antaryamin del Vedanta, può chiarire l’incognita della nostra equazione esistenziale. Uguale è la risposta, la soluzione, la ragione e la parola che chiarisce tutte le incognite; la risposta delle risposte e la soluzione delle soluzioni. Solo dal Reale e dal Vero può venire la risposta e la soluzione ai nostri dubbi; solo il Principio che ci dà l’essere può risolvere il nostro problema. Ma è nostro compito porre correttamente l’equazione, formulare nel modo giusto il problema, domanda o quesito a cui si deve rispondere e che si deve risolvere.La domanda “Chi sono io?” — parimenti agli atti che Cristo menziona nel passo prima citato e così come lo stesso indica —, va diretta in fondo a Dio, al Padre celeste, all’Essere che è il Tutto, alla Realtà suprema che sostiene ogni realtà e dietro di essa si nasconde, al Logos divino che è Verità e Vita. Interrogarsi su di se vuol dire interrogarsi sull’assoluto Se-stesso. Mettere in discussione la propria realtà, vuol dire accorgersi della Realtà. Per questo tale domanda contiene tutte le domande possibili e la sua risposta racchiude parimenti tutte le risposte. Da qui anche l’importanza di mantenerla sempre viva e di tenerla presente in ogni istante.Qualunque occasione è buona per far sorgere nella coscienza l’interrogazione sulla nostra vera identità, sul nostro io, sulla nostra soggettività o intimità. Si tratta semplicemente di lasciar cadere questa domanda nel fondo della nostra mente, senza cercare di darle risposta. Lasciarla cadere più volte, incessantemente, senza tensione ma con assiduità e costanza, senza fretta ma anche senza posa. Si otterrà così un effetto somigliante a quello della goccia d’acqua che corrode la pietra: in questo caso la goccia di rugiada celeste che corrode la pietra dell’ego indurito.Se continuiamo con perseveranza la grande impresa che racchiude questa domanda radicale andremo approfondendo sempre più in noi stessi e arriveremo a sviscerare il più profondo segreto del nostro essere. Si compirà allora quanto annunciato da Yasutani Roshi: «Senza alcun’ombra di dubbio, percepirai la tua vera natura, come l’uomo che si sveglia da un sogno. Sicuramente spunteranno fiori sugli alberi secchi e uscirà dal ghiaccio una vampata di fuoco».
Antonio Medrano
(da Heliodromos n. 13 – primavera 1998)