La funzione delle fiabe
L’espressione fairy tale, fiaba, favola, racconto di fate è stata usata malamente così spesso che ai nostri giorni è diventata piuttosto ingannevole. Non saprei tuttavia come sia possibile liberarsene o trovarne una migliore: fa parte irrevocabilmente della nostra tradizione, e dice tante cose! Nell’immensa casa delle fiabe c’è posto per molti figli: miti, racconti popolari, leggende, saghe, per non parlare poi della madre comune, quella vecchia e possente pitonessa che è la religione. È una famiglia straordinaria, ed è possibile che l’oblio in cui è oggi caduta la fiaba sia dovuto al fatto che nessuno vuole più trovarsi di fronte ad una simile assemblea di Parche. Ho sentito molti genitori dire che non volevano permettere ai loro figli di leggere le favole, per paura che, diventando grandi, scambiassero per realtà i propri desideri. In un momento di maggiore sincerità, forse, avrebbero detto che giudicavano scomodo permettere ai loro figli di divorare qualcosa che è, potenzialmente, dinamite. Non che le favole possano far male a qualcuno: ma possono provocare tutta una serie di domande la cui unica risposta è la verità. È difficile immaginare un processo meno incoraggiante, per chi voglia scambiare per realtà i propri desideri.
Sarebbe assurdo negare che le favole siano soprattutto un divertimento per il bambino. Ma questo divertimento è solo la metà della favola: l’altra metà si riferisce alla natura del mondo ed ai rapporti dell’uomo con quel mondo. È un argomento che nessuno di noi è troppo vecchio per affrontare. La favola è nello stesso tempo una descrizione dell’uomo e la mappa del suo viaggio. Ognuna di queste storie è collegata, quasi attraverso un cordone ombelicale, ad una idea eterna. Scegliamo a caso fra le più semplici e le più note: per esempio, Hänsel e Gretel. Con la sua casa di zucchero e la soglia di caramelle alla menta, è un vero incanto per i bambini. Per noi, invece, è soltanto una casa. Il vero segreto è il viaggio attraverso il bosco. Se volete ritrovare la vostra strada (ritorno alle origini, ritorno alla condizione infantile), dovete, spiega la favola, seminare qualcosa di meno effimero dei piselli e dei petali di rosa. Gli uccellini mangeranno i piselli; il vento disperderà i petali. Soltanto se segnerete il vostro cammino con solidi sassi, nascosti, indistruttibili, potrete ritrovare la strada e sfuggire alla strega, cioè all’annientamento.
Prendiamo la storia di Un-Occhio, Due-Occhi, Tre-Occhi. La loro madre amava soltanto Un-Occhio e Tre-Occhi: erano tanto straordinarie, tanto rare! Due-Occhi somigliava a tutti gli altri: perciò doveva arrangiarsi da sola. Tuttavia, la festa delle fate fu offerta a Due-Occhi; solo Due-Occhi poté cogliere il frutto d’oro e d’argento, e il principe si innamorò solo di lei. Abbasso la bizzarria! grida la voce del racconto. Soltanto l’essere assolutamente normale può sfuggire alla schiavitù quotidiana e nutrirsi del pane spirituale.
Che dire della Bella Addormentata nel bosco? Credete che, in quella storia, l’incanto sia stato spezzato da qualcuno che scambiava per realtà i propri desideri? È il bozzolo di seta che avvolge un’esortazione severa: l’uomo, ci ricorda questa fiaba, deve mantenere sempre desta una parte di sé, in modo che, attraversando la foresta della sua natura abituale, la cui crescita è automatica, possa continuare a svegliare ciò che dorme dentro di lui. Ma se spezzate il ramoscello di questa storia fiorita, se ne distaccano anche altri granelli. Il primo consiglia una continua vigilanza; il secondo afferma che solo l’amore è in grado di liberare i più arretrati; il terzo suggerisce che, se la Bella è la protagonista del racconto, il personaggio principale è la fata cattiva. Se quest’ultima non avesse brandito la bacchetta magica gridando: «Dormi!», come avrebbe potuto incominciare il duro travaglio del risveglio? Nei testi antichi, le cose nascoste sono spesso manifeste attraverso il loro contrario. Nella favola della Bella Addormentata, ci viene rivelato che i demoni ci benedicono come fanno gli angeli, che i nostri nemici possono essere utili come i nostri amici.
Questa è soltanto una delle tante storie che ci mettono in guardia contro il sonno. In altre fiabe, vediamo maghi addormentati, mentre la loro vecchia madre strappa loro i tre capelli d’oro che costituiscono tutta la loro saggezza. Un gigante si sdraia per dormire, e viene derubato del cuore. Mentre la lepre fa la siesta, la tartaruga vince la corsa. I due fratelli maggiori russano al crocevia, mentre il più giovane li supera e arriva per primo al palazzo del re.
Il tema dei tre fratelli impegnati in un’unica ricerca ricompare continuamente. Alla lettera, possiamo considerarli entità diverse: il principe Tom, il principe Dick e il principe Harry. Ma possiamo anche considerarli come un’entità triplice, fatta ad immagine dell’io interiore dell’uomo. Questi, come il primo fratello, vive secondo il suo istinto. Viene il momento in cui sente il bisogno di qualcosa di più, e non sa dove cercarlo. Solo il terzo fratello, allevato fin dall’infanzia nell’accettazione e nella sottomissione, e che non si vergogna di chiedere aiuto alla creatura più umile, può aspirare all’amore della bella principessa. Le favole sono come ninfee: sono posate leggermente sulla superficie, ma le loro radici scendono nella profondità d’un passato tenebroso e lontano. Sono, in realtà, tutto ciò che resta di quell’arte orfica la cui funzione era quella di insegnare alle generazioni future il senso interiore delle cose. Non hanno mai avuto la pretesa di essere soltanto letteratura, sebbene il loro altissimo valore letterario sia una sicura indicazione della loro origine orfica. Crebbero spontaneamente, non tanto come invenzioni quanto come generalizzazioni dell’esperienza generale. Sono giudizi oggettivi formulati in parole, così come la Sfinge è un giudizio oggettivo formulato in pietra. E bisogna ricordare che la favola era destinata all’orecchio, e non all’occhio. L’atto di ascoltare è la prima lezione che bisogna trarre dalla favola, come dalla religione; l’atto di ascoltare, che è attenzione, sguardo interiore, richiamo. Finché le favole furono tramandate oralmente, non si deformarono. È la lettura che, nei nostri tempi, è responsabile delle versioni falsate. L’occhio, infatti, è meno sicuro dell’orecchio: non possiede il dono dell’eco. Coloro che hanno ascoltato le favole le comprendono in un modo molto diverso da coloro che le hanno soltanto lette. Quando un bambino ascolta, la storia che gli viene narrata penetra in lui soltanto come una storia. Ma esiste un orecchio al di là dell’orecchio, che conserva il significato del racconto e lo rivela molto più tardi. Allora si comprende la natura del drago, la necessità delle fatiche compiute dagli eroi, e si capisce anche chi vivrà sempre felice.
La sorte è uno degli elementi più importanti delle favole, ma non ha nulla a che fare con gli occhi. Senza la sorte, riuscirete a far passare un ricco per la cruna di un ago molto più in fretta di quanto riuscireste a soddisfare le sue esigenze. L’occhio che Odino dà volentieri in cambio del dono della memoria e della premonizione ricevuto da Mimir non gli costa niente. Ha fatto un ottimo affare, e lo sa. In questo mondo non si ha mai niente per niente, e i desideri non conducono a nulla. Nelle favole non vi sono mai risultati ottenuti facilmente. I personaggi devono subire prove d’ogni genere. I principi vengono mandati in capo al mondo, o addirittura più in là. Quando si arriva in capo al mondo, che cosa c’è più in là? Questo al di là si trova all’interno, risponde l’eroe, mentre ritorna sui suoi passi. È solo in quella direzione che può proseguire la sua ricerca. E deve compierla entro la durata tradizionale delle favole, un giorno, mai in un tempo più lungo. Anche in questo caso, come per l’al di là, è quel giorno che contiene il segreto. Sempre è il tempo: ma il giorno è il Tempo che si ripiega su se stesso; è l’attimo, è l’Adesso che va e viene al ritmo del respiro, il sempre assoluto, l’Eternità. Non bisogna uccidere il drago una volta, ma sempre, un secondo dopo l’altro. Si possono immaginare modi più facili per pensare secondo il proprio desiderio!
Come i fiori, le stesse favole spuntano in paesi diversi, e hanno sempre, fra loro, legami di parentela, e sono sempre collegate alle parabole della verità che costituiscono le religioni dell’uomo. Come i maestri dei villaggi, insegnano ai semplici, mentre l’alto clero si rivolge agli eruditi. Ma gli uni e gli altri impartiscono praticamente lo stesso insegnamento. Come vivere e come morire: questo è l’oggetto dell’arte orfica, sotto qualunque forma si presenti. Perché vivere e morire è un solo ed unico processo: apprendere una cosa significa comprendere anche l’altra. E questa conoscenza antica è sempre accessibile: le fondamenta della saggezza stanno in tutte le cose. È come se, in qualche parte dell’universo esistesse un grande faro, i cui raggi luminosi cadono qua e là sui mari agitati. George Chapman (il Chapman traduttore in inglese di Omero) ha potuto immaginare un fenomeno cosmico di questo genere, un simile donatore di luce all’infinito, quando ha scritto:
Terrore dell’oscurità! O tu, re delle fiamme,
sul tuo cavallo dai piedi di musica fai sprizzare
dal cristallo la luce scintillante sulla terra buia,
e lanci sul mondo un fuoco istruttore.
Un fuoco istruttore! Questo fuoco, in realtà, questo fuoco che si irradia indefinitamente è la nostalgia dell’uomo che pensa all’età dell’oro. Non esistono i bei tempi andati, né l’Eden trasformato in deserto, ma questa antica conoscenza che, colpendo il suo orecchio interiore, spinge l’uomo a desiderare ardentemente qualcosa che non sa di sapere. Possiamo vedere questo fuoco lanciato sul mondo, che agisce durante i secoli e che talvolta cade su di un terreno adatto. Questo fuoco fu la candela di Lao-Tze: alla sua luce espresse la sua Dottrina muta, che in verità non può mai essere detta, così come non può essere detto il Sermone del Fiore di Buddha. La favola prese per mano anche lui, al momento della morte, e lo posò sul dorso d’un bue per portarlo in cielo. E adesso il Vecchio è là, e percorre eternamente il cielo sulla sua rozza cavalcatura: tranquillo, mai sorpreso, mai soddisfatto; e forse, si inchina cerimoniosamente verso Elia che se ne sta sulla sua nube di fuoco.
In India cadde un’altra folgore, che illuminò i Veda, le Upanishad, le leggende buddhiste, le storie del Panchatantra, e quella grande fioritura di favole, il Ramayana e la Mahabharata, in cui le verità si esprimono attraverso la voce dei poeti e si ammantano della bellezza più silvestre. In quale favola troverete una figura come quella di Hanuman, un’apoteosi di semplicità e di altruismo paragonabile a quella di questa scimmia generosa, nel suo ruolo di servitore di Rama (Vishnú)? Solo il fuoco istruttore poteva riunire in un modo tanto significativo la scimmia impulsiva e l’eterno conservatore delle cose.
In Krishna e nei fratelli Pandava, Arjuna e Bhima, la favola concentra tutta l’essenza del Mahabharata. Ma vi sono piccole gemme non meno belle: Nala e Damayanti, per esempio, o Savitri e Satyavana. Nelle leggende indú troviamo la fonte che alimenta la cascata dei Marchen dell’Europa, della Scandinavia e della Russia. Ma non ci si può biasimare se conosciamo così male le origini delle nostre favole; è soltanto da un secolo che l’Occidente, infatti, può accedere direttamente alla saggezza orientale. Jacob e Wilhelm Grimm hanno capito, mi chiedo, che tutti i loro principi leggendari portano come nomi segreti quelli di Rama e di Arjuna? O che l’Ahmed e il Mustafà delle Mille e una notte mescolavano le loro chiome brune ai riccioli biondi degli occidentali? Anche le Mille e una notte avevano attinto, sia pure in parte, il loro patrimonio dall’India. L’altro ramo della famiglia veniva dalla Persia. Là, il fuoco istruttore era caduto sui poeti sufi. Nel Mathanavi, il Jalalu’ddin Roumo, coppa traboccante di parole e di storie, potete trovare più di un racconto che somiglia incredibilmente ai racconti di Sheherazade ed a quelli che narriamo ai nostri figli per farli addormentare.
Se insistiamo a cercare le origini delle favole, la pista ci conduce inevitabilmente a Oriente. È là che si leva il sole della saggezza, come è là che si leva il sole della luce. Ma, fortunatamente per noi, entrambi quei soli si muovono verso Occidente. Durante il loro tragitto verso Occidente, adattano ad ogni paese, ad ogni epoca le ricchezze che portano con sé? Anche noi possediamo le nostre favole, le nostre allegorie, le nostre parabole. Gli indiani d’America possiedono una miniera di leggende tanto ricche e variate che occorreranno parecchie generazioni per raccoglierle e per riordinarle. The Pilgrim’s Progress di Bunyan rientrano nella stessa categoria, non solo per la vicenda in se stessa, ma anche per la grande semplicità stilistica. La costruzione e la risonanza di un racconto costituiscono una parte intrinseca della sua allegoria. E pensate a Blake e alle sue invenzioni: angeli, demoni, bambini sulle nuvole, e il mondo degli spiriti al completo. Tutta la sua opera è una favola, una rete flessibile e solida tesa dall’uccellatore per intrappolare la verità.
E, mentre noi vi badiamo sempre meno, la ruota continua a girare, la luce a cadere su di noi. Mai, come adesso, abbiamo avuto bisogno di questo fuoco istruttore. E, come se questa necessità, per una legge universale, suscitasse il mezzo di soddisfarsi, ecco che viene a noi una parte di questo fuoco istruttore. All and Everything di G. I. Gurdjieff, mi sembra, va collocato nella stessa categoria, poiché questo libro ha lo scopo di dire all’uomo, attraverso la fiaba e la parabola (chiamatela come preferite) la verità sul suo stesso conto. O forse dovrei scrivere che ha lo scopo di ridarla, poiché, raccogliendo i fili perduti dell’antica conoscenza, tesse la solida tela d’una esposizione contemporanea. È un libro strano, appassionante, inquietante, unico nel suo genere: talvolta pervaso di poesia, continuamente provocatorio: vibrante come un filo dell’alta tensione, capace di dare scosse ad alto voltaggio. Per fare di questo libro un’esperienza valida, bisogna accostarglisi spogli e vergini di tutte le idee preconcette su ciò che deve essere un libro. È un tipo di libro completamente nuovo. La differenza tra questo libro e gli altri è una differenza di natura, non di grado; è diverso nello stesso modo in cui un cammello è diverso da uno struzzo.
Questa storia, che lega intimamente gli opposti (come fanno sempre tutte le favole) viene raccontata da Belzebú a suo nipote Hassein, un bambino di dodici anni, mentre navigano attraverso l’universo, da un pianeta all’altro. E l’argomento di questo discorso è la razza degli esseri tricervicali che popolano il pianeta Terra. Seduti a bordo della nave interplanetaria il narratore, il bambino e il vecchio servitore (l’intellettuale, l’emotivo e l’istintivo) meditano malinconicamente, come le tre Parche, sulla razza degli uomini. Il contrasto tra la nave volante (una nuova versione del tappeto magico?) e la tranquillità dei tre personaggi è reso perfettamente, ed è sconvolgente. Immobili, avvolti dalle loro code, le teste cornute appoggiate alle palme delle mani, sembrano contemplare gli esseri terrestri con una pietà impersonale. È la favola dei tempi moderni, un frammento di scrittura oggettiva che è impossibile leggere senza farne, in un certo senso, l’esperienza. Il suo simbolismo è accessibile a chiunque desideri veramente comprenderlo, e se non vi si incontrano veri draghi, vi si trovano molti terrori invisibili capaci di fare tremare gli eroi più valorosi. Per apprezzare veramente questa storia, bisogna sentirla leggere a voce alta. Soltanto in questo modo, credo, è possibile chiarire i ritmi imbrogliati della scrittura e afferrare, al di là dei nomi e dei verbi inventati deliberatamente, la risonanza del loro significato interiore. Per capire questo libro è necessario, come per le storie zen, distaccarsi dall’interpretazione abituale di certe parole e di certe frasi. Chi è abituato a pensare ed a sentire per mezzo di stereotipi non otterrà nulla; dovrà prima sbarazzarsi di questo fardello acquisito. Se si vuole capire Belzebú, bisogna imparare di nuovo parole come Coscienza, Coscienza di Sé, Ragione, Speranza, Lavoro, Amore. Non che Belzebú debba essere separato dal suo contesto abituale. Dobbiamo invece dare al Diavolo ciò che gli è dovuto. Per quanto riguarda le parole nuove, tanto prodigiose e ricche di significato, il nostro solo comportamento possibile consiste nell’adottarle come i bambini adottano, senza capirle, le parole dei grandi. Queste parole sono come i granelli di sabbia attorno ai quali si forma la perla del sentimento. Senza analizzarla e senza interpretarla, i bambini lasciano che una storia diventi parte di loro, e loro stessi diventano parte della storia. Il fatto che All and Everything sia narrato a un bambino dimostra che l’autore ha voluto suggerire qualcosa che rientra nella tradizione delle favole: la porta della storia può essere aperta soltanto per mezzo della stessa chiave che apre il Regno dei Cieli. Attraverso Hassein, un bambino serio, ascoltatore instancabile, creatura per metà adulta, piena della compassione appassionata tipica della giovinezza e dotata della vivace struttura della saggezza, il lettore viene messo in condizione di vedere se stesso come in uno specchio. Nonostante la sua poesia, la sua invenzione e i suoi squarci di commedia, non è un quadro consolante. Sulla scala cosmica, l’uomo viene indotto a vedersi contemporaneamente più piccolo e più grande di quanto presuma: più piccolo, perché non si trova più al centro della creazione; più grande, perché possiede ancora, nonostante tutto, la possibilità di cambiare. Il passato può essere recuperato, può essere preparato un avvenire più nobile. Ma questa possibilità, ed è appunto ciò che la sminuisce, deve essere sfruttata subito, in questo stesso momento; non dopo pranzo o domani, ma Adesso. Sentite l’eco della favola?
La cosmologia del libro è immensa. Come dall’alto d’una montagna, ci vengono mostrati i monti che si allontanano l’uno dall’altro o che discendono l’uno verso l’altro, armoniosamente, come note d’una ottava universale. Le leggi cosmiche del Tre e del Sette ci vengono rivelate: e ci fanno ricordare i Tre Fratelli e i Sette Fratelli delle favole. Abbondano affreschi grandiosi, come la nutrizione reciproca di tutte le cose create, che appare miracolosa fino a quando non si comprende che deve essere vero e perciò inevitabile. In ogni istante, tutto è partecipe di tutto. Ciò che noi mangiamo e da che cosa siamo mangiati è uno degli argomenti più importanti del libro. Gli antichi insegnavano all’uomo le sue relazioni con i pianeti. Paracelso si riferiva allo stesso fenomeno quando affermava che noi mangiamo le stelle insieme al nostro pane. E questo libro trasmette lo stesso messaggio… ma pone una condizione. Questa condizione è il nucleo e il punto cruciale della parola di Belzebú: è la stessa condizione sottintesa in tutte le favole. Questa condizione è che l’uomo deve lavorare. Deve guadagnare il pane con il sudore della fronte: ma per mangiare la sostanza di Arturo e di Orione oppure di Giove e di Venere, che sono più vicini a noi, deve compiere altri lavori molto più duri. Le condizioni in cui questi lavori possono essere compiuti sono esposte esplicitamente nel libro. L’uomo deve essere in ogni secondo. Deve vivere la propria vita come se fosse la sua morte, senza staccarsi dal mondo, ma, al contrario, vivendo nel mondo, in vita e non accontentandosi semplicemente di respirare, mentre passano gli anni.
Questo libro ci offre tutto e ogni cosa. La frase dominante delle favole era «felici per sempre». Tuttavia le favole non mancano mai di presentare il conto, e Belzebú non fa eccezione. In cambio di tutto e di ogni cosa, pretende tutto e ogni cosa. La nostra esistenza, ci avverte, noi dobbiamo pagarla, e il tempo passa in fretta. Continuate a sognare, grida questa storia, ma a vostro rischio e pericolo!
Dunque, siamo tutti altrettanto Belle Addormentate nel bosco fittissimo dell’abitudine? Se siamo sinceri, allora dobbiamo rispondere di sì. La terra sarebbe dov’è, se non fossimo addormentati? Ma ci vogliono altre bombe atomiche per scoprire che seminano rovina e morte. Fin dall’inizio del tempo, ogni favola è stata una piccola esplosione, capace di guarire l’uomo che vuole essere guarito. È ancora possibile ascoltare le grandi verità, se l’uomo le vuole ascoltare: ma non ha il potere di farle tacere. Sono oggettive, e non dipendono da lui.
Molte folgori, molte bombe piene di avvertimenti e di rimedi possono venire scoperte in questa allegoria di All and Everything. Ogni capitolo illumina la condizione umana in un modo nuovo. Uno dei più lunghi, quello dedicato all’America, è anche uno dei più significativi. Infatti è in America che Belzebú trova soprattutto quella fratellanza indispensabile alla maggiore felicità dell’uomo. Anzi, tutto il libro è una dichiarazione di fratellanza. È come se un fratello maggiore (o minore, come avviene nelle favole) potesse, con la sua profonda esperienza, esporre davanti a noi tutta la saggezza da lui acquisita. Leggere questo libro è come venir passati in una trebbiatrice. Piccolo, timido, incerto, il lettore viene trascinato vertiginosamente in aria, dove vortica senza sapere mai dove andrà a cadere. Ma la storia si conclude in una atmosfera di grande serenità. Sempre compassionevole, il nipote invoca dal nonno qualche conforto per gli esseri che popolano la Terra. La risposta non tarda a giungere: fredda e amara, sale tuttavia sulle ali della poesia, poiché è veritiera e nasce dall’amore. E, mentre chiudiamo questo libro, ci sembra che il castello incantato si apra, e che i rovi che ci fermavano indietreggino. Attraversandoli, il piccolo, serio Hassein viene verso ciascuno di noi, e ripete la più antica ammonizione delle favole: «Svegliati, dormiente, svegliati!».
M. L. Travers
(In World Review, Londra, luglio 1950)