LA MAFIA
L’inchiesta parlamentare sulla mafia, recentemente disposta, prova una cosa sola: l’inverosimile infantilismo e la incredibile ignoranza della nostra classe dirigente. Un’inchiesta parlamentare? Ma la mafia è forse un fenomeno recente, mai studiato, ignorato, sul quale deve essere fatta luce, debbono essere raccolte informazioni, dati, rivelazioni?
Ahimè! La mafia esiste da secoli ed esiste anche una biblioteca voluminosa, antica e moderna, nella quale è stato studiato e detto tutto ciò che c’era da studiare e da dire. I nostri parlamentari, venuti in gran parte, salvo eccezioni, dalla bassa forza dei partiti, la ignorano. Da Michele Amari a Vittorio Emanuele Orlando, tutti i grandi siciliani di sinistra e di destra: De Felice, Barbato, socialisti, Napoleone Colaianni, repubblicano, Crispi, Di Rudinì, Nicolò Gallo, liberali, tutti hanno detto la loro parola su un fenomeno che li inquietava e li umiliava nel loro orgoglio isolano. E se non si vuol dar credito a costoro, perché siciliani, ebbene si prendano ad esempio il barone Franchetti e Fortunato, non siciliani, e si troverà un esame quanto mai esauriente sui vari aspetti del fenomeno e sulle diverse cause che sono state proposte per spiegarlo. Si dirà che si tratta di testimonianze invecchiate, ma l’obiezione non è conferente. Prima di tutto, la mafia è un costume, come vedremo, radicato profondamente nella psicologia dell’Isola, e come tale non è soggetto a variazioni sensibili nel tempo. I mafiosi di oggi sono eguali ai mafiosi che vivevano sotto i Vice-Re, il Borbone o, più vicino, ai tempi del processo Notarbartolo. In secondo luogo, vi sono studi recenti e recentissimi, che convalidano le testimonianze più antiche. Sarei curioso di sapere quanti dei parlamentari, che hanno votato l’inchiesta, conoscono Virgilio Titone, oggi professore di storia moderna all’Università di Palermo. Titone è uno dei più grandi storici viventi, il quale ha dedicato parecchi volumi alla storia della Sicilia e qualche saggio, estremamente originale, al problema della mafia. Sarei curioso di sapere anche se quei parlamentari hanno letto gli studi di S.E. Lo Schiavo, presidente di sezione alla Cassazione Penale, i cui giudizi sono particolarmente autorevoli, posto che come magistrato si è trovato in una situazione privilegiata per studiare da vicino il fenomeno, e, come siciliano, non gli sono sfuggite tutte quelle connotazioni, che i continentali spesso non afferrano o valutano erroneamente.
Ma l’inutilità dell’inchiesta non è fondata solo sulla considerazione, che essa si propone di studiare ciò che è stato già studiato; si fonda anche sulla certezza che essa non potrà mai suggerire i soli provvedimenti che forse sarebbero efficaci per chiudere questo lungo capitolo della storia siciliana.
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Ciò premesso, voglio esporre qua, in riassunto, alcune mie personali e dirette esperienze.
Primo punto è di non fare d’ogni erba un fascio. Generalmente, ogni delitto, commesso in Sicilia da siciliani, viene attribuito alla mafia. Omicidi, rapine, estorsioni, peculati e via dicendo avvengono in tutte le regioni d’Italia e quindi anche in Sicilia, senza che la mafia c’entri per niente. La mafia non è un’associazione a delinquere, un’associazione cioè preordinatamente costituitasi per commettere delitti contro le persone o le cose. Direi anzi il contrario, anche se la cosa può sembrare paradossale e cioè che in origine la mafia fu un’intesa tacita, un costume più che un’associazione, diretta ad esercitare finzioni di polizia e di giustizia, diretta quindi non a commettere reati ma a prevenirli ed a punirli. Si intende che in quanto questa intesa si attuava in concorrenza e in sostituzione degli organi dello Stato, era illegale e costituiva di per se stessa un delitto. Nessun codice consente deleghe ai privati di funzioni proprie dello Stato. Molti autori infatti ritengono che in origine la mafia sarebbe stata un fatto esclusivamente rurale.
Data la carenza dello Stato, il quale non riusciva a estendere efficacemente la sua autorità nelle campagne e proteggere i proprietari dall’abigeato, si sarebbero offerti contadini animosi per vigilare, per scovare e punire i ladri. I primi mafiosi sarebbero stati così una specie di guardie campestri, di poliziotti volontari. Ed è presumibile che in cambio di questi servizi, essi avrebbero ricevuto dai signori, dai baroni, oltre che una retribuzione in denaro anche una benevolenza e una protezione.
È un particolare, codesto, che va sottolineato, perché ci dà la chiave per comprendere il trapasso dalla mafia rusticana ad una mafia urbana e diffusa, nella quale entrano altri ingredienti oltre quelli indispensabili alla fase primordiale del volontariato nella polizia campestre.
Nella mafia, diciamo così, adulta dominano due elementi psicologici, che più o meno si riscontrano in tutti i siciliani, mafiosi e non mafiosi: uno è lo spirito di clan, l’altro la volontà di potenza.
Il siciliano, come tutti sanno, è cordiale, affettuoso, aperto all’amicizia. Fuori dell’Isola, tutti sanno pure, quanta solidarietà corra tra i siciliani emigrati. Nell’Isola, il vincolo si divide in gruppi di parenti, affini, amici, clienti, gruppi ordinati secondo una certa gerarchia patriarcale. Creatosi il clan, il dovere fondamentale è quello del favore reciproco di un membro verso l’altro. E fin qui niente di male, anzi tutto di bene, per il calore umano in cui in Sicilia tutti trovano conforto. Nessuno è mai solo. Sennonché lo spirito di clan, coniugandosi con l’altro sentimento, la volontà di potenza, dà un precipitato, che è un incentivo al bene, ma anche al male. I siciliani hanno una grande vitalità, amano distinguersi, non si contentano della mediocrità, tengono molto ad essere pubblicamente considerati come personaggi importanti, naturalmente ognuno nei limiti e nelle forme proprie al suo ceto ed al suo ambiente.
Entro l’ambito del clan questi «social ramblers», come si usa chiamarli oggi, sono spinti irresistibilmente a scambiarsi favori magari attraverso qualche scorciatoia, o a proprio profitto o a profitto degli amici, per dare prova della propria potenza, per sentimento di dovere verso il sodàle, per calcolo, in quanto la reciprocità è la legge di questo tipo di rapporti ed ognuno dona per obbligare l’altro a contraccambiare.
Fin qui abbiamo visto la mafia, nei suoi rapporti interni. Vediamola adesso nei rapporti esterni. Indubbiamente la mafia non sarebbe così tenace e potente se non potesse contare su una complicità più o meno confessata con la classe dirigente. Oggi forse la classe dirigente (non diciamo: la classe politica) non ha un interesse economico determinato ed unico per collegarsi con la mafia, come alle origini; ha però almeno l’interesse generale, diciamo così, negativo di non farsi nemica la mafia, che, essendo infiltrata un po’ dappertutto, può rendere a chi le si mostra avverso la vita difficile. E quindi, nei limiti del possibile, non rifiuta di essere compiacente coi mafiosi, i quali poi alla loro volta non restano ingrati. Così, diventa difficilissimo distinguere e segnare una linea di confine tra mafia e non mafia. In un certo senso, in una maniera o nell’altra sono tutti coinvolti in una specie di costume regionale. La mafia diventa inafferrabile, sembra un’atmosfera che si respira dappertutto come l’atmosfera propria dell’Isola. Sì, ci stanno i mafiosi, qualificati pubblicamente, che sulle piazze di ogni villaggio, si lasciano facilmente individuare, perché con spavalderia portano la «coppola nera»; sì, c’era don Calogero Vizzini (e adesso c’è il suo successore) capo supremo, ufficialmente riconosciuto e venerato per la sua saggezza, la sua probità e il suo senso di giustizia, ma attorno ai militanti, in servizio attivo permanente, ci sono le solidarietà, che, come centri concentrici, si estendono e si allargano per tutta la superficie almeno delle tre province occidentali, alle quali alcuni dicono che vada limitato il fenomeno.
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A questo punto, il nostro lettore potrebbe domandare: se la mafia è tale quale la descrivo e cioè una specie di società di filantropi e di benefattori, come mai è messa da tutti in così stretto rapporto con la delinquenza? Ed ecco la nostra risposta: se è vero che la mafia non è un’associazione a delinquere è altrettanto vero che essa favorisce alcuni determinati reati. Innanzi tutto nel procacciamento di favori, nel chiedere e nell’ottenere servizi, essa non sempre distingue tra il lecito e l’illecito, sia riguardo alla specie del favore, sia riguardo ai mezzi per ottenerlo. Sebbene di regola preferisca l’astuzia, l’intrigo, la corruzione, ciò non significa che, occorrendo, essa non sia disposta a servirsi anche dell’intimidazione e della violenza. Il suo ideale sarebbe di riuscire solo mediante l’ascendente, il prestigio personale, l’autorità di un semplice cenno (è la cosa che più lusinga il siciliano), ma in taluni casi è costretta a ricorrere ad altri mezzi, che il codice penale punisce.
In secondo luogo, la norma della mafia, come del resto di ogni associazione, intesa o rapporto costituitosi al di fuori ed occorrendo contro la legge, è che i conti vengono regolati direttamente dagli interessati. Chi versa «in re illicita», si deve fare giustizia da sé. Chiunque violi il codice della morale mafiosa, viene punito. Lo stesso avviene nella camorra, tra i magliari, i gangsters americani e i còrsi, che comandano la malavita parigina.
Infine la mafia, per le punizioni inflitte ai delatori, crea l’omertà, della quale approfittano e dietro la quale si nascondono criminali che non hanno niente a che vedere con la mafia. Noi siamo convinti ad esempio che né l’assassinio del commissario di P.S. di Agrigento, né le estorsioni e l’assassinio, nei quali furono coinvolti i frati di Mazzarino, siano stati delitti addebitabili alla mafia. Ciò nonostante in tutti e due i casi l’omertà è stata assoluta. Padre Carmelo, nel processo, disse una frase storica: «a Mazzarino chi tace vive e chi parla muore», testimonianza codesta estremamente significativa per esprimere la paura di parlare che circonda ogni delitto.
Un ultimo tocco. La mafia è politicamente indifferente e neutrale. Tendenzialmente sarebbe immutabilmente governativa, perché vede nel potere niente altro che il favoritismo organizzato. Ed è tendenzialmente democratica, sia perché intuisce che la democrazia è il regime più fiacco, sia perché trova nelle elezioni l’occasione propizia per obbligare coi propri voti gli uomini che avranno in mano le leve per dispensare i favori. Come agenti elettorali i mafiosi non si orientano scegliendo tra i partiti ma scegliendo tra gli uomini che li rappresentano e in base al criterio della loro maggiore o minore sensibilità ed arrendevolezza nell’avere comprensione e generosità nell’accontentare gli amici.
I rimedi? Nessuno praticamente possibile nell’Italia contemporanea. Bisognerebbe infatti, come prima misura, togliere ai siciliani lo statuto d’autonomia. Mi associo, senza riserve, a quanto scrive in proposito Virgilio Titone: «potrebbe ricordarsi – scrive Titone – il pensiero del Turiello, che, polemizzando contro il decentramento regionale propugnato da Stefano Jacini, vedeva nelle autonomie delle regioni meridionali, un sicuro aggravarsi dei loro mali e in primo luogo del clientelismo e della corruzione nel governo della cosa pubblica: come infatti è avvenuto con la istituzione della regione siciliana. Né molto diverso è stato il pensiero di Fortunato». (Quaderni reazionari, pag. 75).
Occorre sottoporre la Sicilia ad una specie di regime di eccezione non democratico, né comunque elettivo. E per non offendere una popolazione per tanti riguardi rispettabile, intelligentissima e generosa, potrebbe però essere opportuno rimettere i pieni poteri a eminenti cittadini siciliani. In Sicilia non sono mai mancati uomini eminenti, austeri, di severissima coscienza e di indomito coraggio. Così la Sicilia governata da Siciliani con pieni poteri, correggerebbe se stessa.
E qua non condivido il pessimismo di Titone, il quale al contrario pensa che solo delle forze estranee alle forze politiche operanti in Sicilia e alla tradizione e al costume siciliano potrebbero raddrizzare la situazione.
Ma io sto smarrendomi nel regno della fantasia. Nessuna inchiesta parlamentare suggerirà rimedi di questo genere. L’inchiesta farà la fine che hanno sempre fatto tutte le inchieste parlamentari. Dopo qualche giorno di discussioni in Parlamento e di vacui articoli di fondo moraleggianti sui giornali, tutto sarà dimenticato.
Viviamo in un’epoca di «bavardage» e la sola cosa che interessa, come ha insegnato il ministro Bosco, è il centro-sinistra.
Panfilo Gentile
(Opinioni sgradevoli, Volpe 1968)