José Antonio Primo de Rivera
Il fondatore della Falange
Il 20 novembre 2016 saranno trascorsi ottanta anni dalla morte di José Antonio, fondatore e capo della Falange spagnola, nonché fulgido esempio di combattente sul Fronte della Tradizione che, al pari di tanti altri suoi fratelli nello spirito e camerati della medesima lotta, antepose l’esempio vissuto alle parole vane e vuote. Heliodromos, per l’occasione, vuole ricordarlo con questo vecchio scritto di Antonio Medrano, che ci restituisce un’immagine viva e attuale del suo nobile compatriota.
«Bisogna riscattare i popoli da se stessi», diceva Eugenio d’Ors, formulando così uno dei principi di quel che egli chiamava la «politica della missione». Queste parole potrebbero riassumere il destino tragico e la vita missionaria di quel grande poeta della vita e del combattimento politico che fu José Antonio Primo de Rivera, il cui tentativo di riscattare il popolo spagnolo condusse al martirio.
Nato a Madrid il 24 aprile del 1903, figlio del Generale Primo de Rivera, Marchese d’Estella e Grande di Spagna, instauratore della Dittatura che resse la Spagna nel periodo che va dal 1923 al 1930 e che la sottrasse alla prostrazione in cui l’aveva gettata il regime parlamentare della Monarchia Costituzionale. Egli eredita dal padre i doni di una marcata attitudine al comando e un portamento aristocratico, che contribuirono decisivamente a formare il suo futuro ruolo di capo. È il maggiore di sei figli, la maggior parte dei quali giocherà un ruolo fondamentale nella gestazione del movimento falangista (basti pensare ai casi di sua sorella Pilar o dei suoi fratelli Miguel e Fernando). La sua infanzia e la prima giovinezza trascorrono ad Algésiras, città andalusa dov’era originario suo padre. Fa i suoi studi universitari all’Università Centrale di Madrid, dove si laurea in Diritto nel 1923. In questo stesso anno, accompagna suo padre nel viaggio che egli fa in Italia, coi Reali di Spagna, e a Roma è presentato a Mussolini, che eserciterà sul giovane aristocratico un incontestabile fascino. Nel 1925, José Antonio apre uno studio a Madrid, consacrandosi interamente alla sua professione d’avvocato, che esercita brillantemente e per la quale prova un’autentica passione. Sotto la Dittatura, non occupa alcuna carica politica di qualunque tipo, vivendo senza ostentazione, ritirato dalla politica e consacrandosi alla propria attività professionale. In nessuna occasione cerca di servirsi del suo nome — della posizione del padre — per ottenere vantaggi o prebende che non derivassero dal suo impegno. Bernd Nellessen ci presenta José Antonio come «un giovane dai sentimenti delicati, intelligente, che s’interessava molto alla letteratura, fedele alla tradizione cattolica della sua famiglia dedicata al servizio dello Stato».
Nel 1930 muore il Generale Primo de Rivera a Parigi, dove viveva in esilio dopo la caduta del suo regime. Come primogenito, José Antonio eredita il titolo di Marchese e diviene Grande di Spagna. È allora che inizia il suo impegno politico, soprattutto centrato, all’inizio, sulla difesa della memoria del padre. Egli porta a compimento quest’impresa con veemenza e una lealtà filiale esemplare, che non gli impedisce tuttavia di riconoscere, con quella visione serena ed equilibrata che lo caratterizzerà sempre, gli errori e le carenze di cui soffriva la Dittatura. Nel 1931, milita, fedele alla tradizione familiare, sebbene timidamente e sempre in secondo piano, nei ranghi monarchici, che provano a riorganizzarsi. Entra nell’Unione Monarchica Nazionale, tentativo di creazione di un blocco unitario destinato a riunire le due branche borboniche, carlisti e alfonsiani. Nel settembre di quest’anno, fa irruzione per la prima volta sulla scena pubblica e si presenta come candidato alle Cortes per Madrid. I temi della sua campagna elettorale ruotano sempre intorno alla difesa di suo padre. Non viene eletto e non tarderà molto a perdere le sue illusioni sull’attivismo monarchico costatandone i dissensi, l’inefficacia e la mancanza di visione che regnano nel campo monarchico spagnolo. Comincia a studiare il fascismo, nel creatore del quale egli vede l’uomo politico geniale che fu l’amico di suo padre e il suo maestro in un certo senso (non è un caso se il colpo di Stato del Generale Primo de Rivera avviene un anno dopo la “marcia su Roma”, quasi un tentativo di ripetere in Spagna l’azione salvifica del Duce e delle sue “camice nere”). Nel 1932, in seguito al fallimento del sollevamento monarchico di Sanjurjo, viene arrestato a San Sebastian, e rimesso in libertà non avendo alcun legame col tentativo di colpo di Stato.
Il 1933 è un anno chiave della vita di José Antonio. Esso segna la sua entrata definitiva nell’arena politica, alla quale egli farà dono di tutta la sua energia e della sua stessa vita. Comincia a organizzare quello che diventerà più tardi il movimento falangista con dei tentativi appena abbozzati come quello del “Fronte Spagnolo”, quello del “Fascismo Spagnolo” o quello del “Movimento Spagnolo Sindacalista”. Il 16 marzo 1933 esce il primo (e unico) numero d’El Fascio, periodico edito da Manuel Delgado Barreto, la cui intera tiratura sarà sequestrata dalle autorità democratiche. José Antonio collabora alla nuova (e abortita) pubblicazione con diversi articoli, fra i quali “Orientamenti per un nuovo Stato”, dove si profila già una parte di quella che sarà l’ideologia falangista. Inizia col dire che «lo Stato liberale non crede in niente, nemmeno in se stesso», e conclude con la seguente affermazione: «Tutte le aspirazioni del nuovo Stato potrebbero riassumersi in una parola: Unità. La Patria è una totalità storica, in cui ci fondiamo tutti, superiore a ognuno dei nostri gruppi». In un altro dei suoi contributi, che usciva col titolo “Distinzioni necessarie”, egli dichiara, traendo le opportune lezioni dall’esperienza paterna e dissipando ogni malinteso: «Noi non ci proponiamo una Dittatura», che è sempre qualcosa di transitorio e non tocca il fondo del problema, ma «un’organizzazione nazionale permanete», «uno Stato forte» su una base corporativa. Il 13 ottobre dello stesso anno, fa visita a Mussolini, col quale ha una conversazione cordiale. Nella sua premessa alla traduzione spagnola dell’opera del capo italiano Il Fascismo, ricorderà quest’incontro col Duce, nel quale vede l’«immagine dell’Eroe fatto Padre, che veglia vicino alla sua piccola luce permanente sul lavoro e sul riposo del suo popolo».
Il 29 ottobre 1933, pronuncia il celebre discorso del Teatro della Commedia, d’una tale altezza poetica e d’una tale novità radicale da riuscire a impressionare Unamuno e che resterà come uno dei capolavori, una delle più belle testimonianze dell’arte oratoria spagnola di questo secolo. Con questo discorso, la Falange e il suo fondatore entrano sulla scena storica della Spagna. Questa riunione segna la nascita della Falange. Allora comincia la sua febbrile attività politica, che niente ormai potrà fermare e che, giorno dopo giorno, guadagna in intensità e in elevazione. Alcuni mesi dopo viene eletto deputato alle Cortes per la provincia di Cadiz, e fonda il settimanale F.E., di cui le forze marxiste contrastarono la diffusione con tutti i mezzi violenti a loro disposizione.
Febbraio 1934: ha luogo la fusione della Falange Spagnola e delle J.O.N.S., che vede così riunire le forze di quello che è già indiscutibilmente il movimento nazional-rivoluzionario più importante di Spagna. Alla testa della nuova organizzazione si trova un triunvirato formato da Primo de Rivera, Ledesma e Ruiz de Alda. Lo stesso anno è anche creata la “Sezione Femminile” del movimento, alla testa della quale si trova Pilar Primo de Rivera. José Antonio è vittima, a Madrid, d’un attentato ch’egli affronta con coraggio, pistole alla mano, mettendo in fuga i suoi assalitori. Nel maggio dello stesso anno, viaggia in Germania, per studiare sul campo il regime nazional-socialista. Durante la sua visita, il fondatore della Falange ha un incontro con Alfred Rosenberg, principale ideologo del nazional-socialismo, il quale, secondo quanto egli riporta nelle sue Memorie, manifesta a José Antonio la sua simpatia per il movimento falangista e sconsiglia al giovane leader spagnolo la traduzione delle sue opere, pensate solo per la Germania, ricordandogli che «la Spagna ha le proprie tradizioni originali» e «nel caso in cui aspirasse allo stabilimento di nuove e giuste forme di vita sociale dovrebbe ricollegarle alle proprie tradizioni»: un punto sul quale José Antonio si mostra pienamente d’accordo. Nel settembre del 1934, prende contatto con Francisco Franco, con una lettera nella quale richiama l’attenzione del giovane e già allora brillante generale sul pericolo della bolscevizzazione e della disintegrazione che incombe sulla Spagna. Nei primi giorni d’ottobre è convocato il primo Consiglio Nazionale della Falange Spagnola delle J.O.N.S., durante il quale José Antonio è eletto Capo Nazionale. La sua prima decisione è l’adozione della camicia azzurra, colore «netto, serio, intero e proletario», come uniforme del movimento. Il 1934 è un anno durante il quale José Antonio svolge un’intensa azione di proselitismo, percorrendo le varie regioni della Spagna e pronunciando discorsi e conferenze che tracciano il contorno dottrinale della Falange.
Nel 1935 cresce il clima di tensione in tutto il paese. La sanguinosa tragedia della guerra civile si annuncia già. José Antonio intensifica la sua campagna di reclutamento e di diffusione delle nuove idee nelle principali capitali spagnole. Il 21 marzo, fonda il periodico Arriba, che sostituisce F.E., interdetto dal regime nel luglio del 1934. In questo periodico pubblica articoli e saggi di grande importanza dottrinaria, collaborando contemporaneamente al settimanale studentesco Haz. In giugno ha luogo nella Sierra di Gredos una riunione clandestina della Giunta politica, nel corso della quale si decide che la sola via d’uscita per evitare la sovietizzazione, lo smembramento e la rovina della Spagna, sia la lotta armata. Francisco Bravo prospetta la prossima vittoria delle sinistre, sostenendo che piuttosto che attendere la persecuzione, sarebbe meglio preparare l’insurrezione. A partire d’allora, l’attitudine combattentistica dell’organizzazione si accentuerà potentemente, i suoi sforzi essendo indirizzati verso la preparazione di una ribellione militare e popolare.
Verso la metà di dicembre di questo così critico 1935, José Antonio partecipa al congresso fascista di Montreux, al quale sono presenti, tra gli altri, Léon Degrelle (capo del rexismo belga), Marcel Bucard (leader del “Francismo”), Sir Oswald Mosley (leader dei fascisti inglesi), Corneliu Codreanu (capitano della “Guardia di Ferro” rumena), il colonnello Fonjallax (uno dei principali dirigenti del fascismo svizzero), Vidkung Quisling (capo del Nasjonal Samling norvegese), il Principe Stahremberg (fondatore e ispiratore della Helmwehr austriaca), Anton Mussert (capo dell’ N.S.B. olandese) e Owen O’Duffy (leader delle Blue shirts, le “camicie azzurre” irlandesi. Durante questo congresso, il capo della Falange si mostra ostile alla costituzione d’una sorta di internazionale fascista, proposta da alcuni dei partecipanti, perché egli considera questo progetto incompatibile con il carattere eminentemente nazionale del movimento che dirige.
Dopo la vittoria del Fronte Popolare alle elezioni del febbraio 1936, la persecuzione della Falange e dei suoi dirigenti si accentua. Il 14 marzo, la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza ordina la chiusura di tutte le sedi del movimento e l’arresto dei principali dirigenti, José Antonio viene arrestato al suo domicilio e il giorno appresso entra nel Cárcel Modelo di Madrid. Nella sua cella, redige la sua «lettera ai militari di Spagna», circolare clandestina nella quale chiama alle armi i militari d’onore affinché impediscano l’ «invasione dei barbari» e fermino la rovina della Patria. In questa circolare egli definisce l’esercito «guardia del permanente» e, nei paragrafi intitolati «L’ora è suonata», chiede ai militari spagnoli di non lasciare senza risposta «le campane di guerra che s’avvicinano». Il 20 maggio, ordina il lancio della pubblicazione clandestina No Importa, di cui qualche numero uscirà prima del 18 luglio.
Il 6 giugno, dopo il fallimento di numerosi tentativi d’evasione, viene trasferito nella prigione di Alicante, con suo fratello Miguel. Da lì da l’ordine ai falangisti di tutta la Spagna di collaborare al sollevamento militare che si prepara. Il 17 luglio, un giorno prima dell’Alzamiento, lancia il suo ultimo manifesto. Egli vi afferma che nella lotta armata che sta per scoppiare non si deciderà nient’altro che «la perennità della Spagna», la realtà d’«una Patria grande, una, libera, rispettata e prospera». Nei mesi seguenti falliscono diversi tentativi di liberazione, intrapresi da gruppi falangisti della regione. Di fronte al pericolo d’evasione, il Capo della Falange e suo fratello vengono isolati. Nel novembre di quest’anno chiave per la Spagna e per l’Europa, José Antonio viene processato davanti a un “Tribunale Popolare”, che lo condanna a morte. «Piaccia a Dio che il mio sangue sia l’ultimo sangue spagnolo che sia versato in discordie civili», dice nel suo testamento. Il 20 novembre, il fondatore della Falange viene fucilato insieme ad altri quattro giovani, due militanti falangisti e due requetés (“berretti rossi” carlisti), che poco prima di morire incoraggia dicendo loro: «Coraggio, ragazzi, non si tratta che d’un attimo. Avremo una vita migliore!».
Durante la guerra civile, nella Spagna nazionale che non voleva credere alla sua scomparsa definitiva, viene chiamato «L’Assente», finché nel novembre 1938 il “Caudillo”, Francisco Franco, dichiara pubblicamente la sua morte.
A guerra finita, le sue spoglie saranno solennemente traslate, sulle spalle dei falangisti della “Vecchia Guardia”, da Alicante all’Escurial, nel celebre Monastero dove riposeranno temporaneamente, prima d’essere condotte, venti anni dopo, nel loro luogo di riposo definitivo nella monumentale basilica della Valle de los Caidos, eretta dal Generale Franco per commemorare le gesta della “Crociata” e accogliere i resti dei morti di entrambi i due schieramenti.
José Antonio è, senza alcun dubbio, uno dei dirigenti fascisti europei il cui ricordo e la cui eredità dottrinaria esercitano la più forte attrazione sulla giovinezza dei nostri giorni. Contribuendovi in modo decisivo il suo portamento nobile e giovanile, la sua posizione classica e profondamente religiosa, il suo atteggiamento sempre sereno e misurato, la sua lingua chiara e tagliente, la sua attitudine rivoluzionaria e combattiva, la bellezza e il carattere contundente delle sue espressioni, l’esempio della sua vita e della sua morte («egli ha sempre ritenuto il suo esempio superiore alle sue parole», scrisse Luys Santa Marina, uno dei suoi fedelissimi fino all’ultimo), l’autenticità della sua devozione all’azione, che s’intensifica continuamente e viene sigillata col suo sangue. Come diceva Lain Entralgo nel suo periodo di fervore falangista, il José Antonio degli ultimi istanti, frutto maturo di una lenta evoluzione — o se si preferisce di una trasformazione interiore — è l’uomo d’azione esemplare, «il capo rivoluzionario, in grado di unire un’irrinunciabile devozione alla forma e all’intelligenza con le urgenze demagogiche dell’eroe politico»; il capo popolare, «allo stesso tempo agitatore e aristocratico, stilista e rivoluzionario». Robert Brasillach, il giovane poeta francese innamorato della Spagna, fucilato nell’euforia della “liberazione” democratica del 1945, considerava il «Giovane Cesare» — come lo chiamavano nella Spagna nazionale che rinasceva al calore del suo verbo — come l’eroe più grande e più puro del fascismo, questo «mal du siècle» ch’egli stesso ha definito «la poesia del XX° secolo».
Ma la forza attuale del messaggio josé-antoniano è soprattutto determinata dall’eccellenza e dalla profondità delle sue formulazioni dottrinali, che si elevano al di sopra delle circostanze del momento e che si caratterizzano per il loro profondo realismo, lungi da ogni demagogia e dalle meschine passioni che provocano la lotta dei partiti e la politica delle masse. Si trova in pochissimi uomini politici e in pensatori di questo secolo un’analisi così lucida e una diagnosi così giusta del male che affligge l’umanità, il tutto unito a una precisa e incoraggiante formulazione di rimedi da applicare.
José Antonio Primo de Rivera, non dispiaccia ai nemici della sua dottrina, ai recalcitranti dell’antifascismo, s’è conquistato di diritto un posto eminente nella storia del pensiero spagnolo. E, questo posto, nessuno glielo può ancora togliere. Come scriveva Azorin, il maestro della “generazione del 98”, José Antonio «s’allontana nel profondo della storia, e la sua persona diviene sempre più leggera; egli ha la leggerezza dell’immortale (…). Man mano che s’allontana (…) una luce pura, una sorte di lume increato, avvolge la sua persona».
La sua opera comprende molto più che una semplice idea politica. È tutta una visione del mondo e della vita che vi è tracciata. Una visione del mondo e della vita del più alto valore poetico, d’una novità radicale e allo stesso tempo d’una netta ispirazione tradizionale, d’una potente forza trasformatrice e rivoluzionaria, autenticamente spagnole ma ugualmente d’un valore universale. Ciò che gli occhi di José Antonio abbracciano col loro geniale sguardo poetico-filosofico, ciò che si trova al centro del suo pensiero e della sua dottrina, è il male del mondo moderno, il terribile problema della decadenza dell’Occidente e della cultura europea, la grave crisi dell’umanità occidentale — crisi di cui il liberalismo, il comunismo, il capitalismo, l’anarchismo, la disintegrazione della Patria, le lotte sociali, e tanti altri fenomeni non sono che espressioni parziali.
José Antonio è un autentico poeta della politica; un’autentica personificazione dell’ideale che lui stesso formulerà in un’espressione chiaroveggente. In altre parole: un uomo d’azione e di pensiero che ha epurato la politica dell’edulcorazione di cui aveva sofferto nei tempi moderni, che l’ha liberata dalla sua scorie d’impurità, dalle meschinerie e dalle bassezze alle quali l’aveva mischiata l’era borghese, e l’ha rivestita del profilo sacro, dello splendore dorato e solare dell’antica tradizione imperiale. Un “guerriero del divino” — per usare un’espressione medievale spagnola —, il cui sguardo va al di là dei problemi del momento e delle frontiere della sua patria, per diventare una visione profetica e divinatoria d’un valore permanente e universale. Un uomo politico che si eleva al di sopra della politica, che va al di là di quello che questa significa oggi e che trasforma l’azione ordinatrice della società in un’alta impresa spirituale, orientata verso il mantenimento dell’ordine divino dell’universo. «José Antonio, per la sua condotta e la sua dottrina — ha scritto Per Engdahl, grande pensatore svedese — fu un capitano nell’armata degli eroi dello spirito (…). José Antonio, più che un uomo, fu un vangelo, una dottrina — il Nazional-Sindacalismo — che dopo la sua morte rimane non solamente per gli Spagnoli, ma anche per tutte le forze nazionali d’Europa, come un testamento sacro». «L’ultimo grande pensatore occidentale della nazione», lo ha chiamato Jesus Fueyo y Feravia. E Eurdiaga lo considera l’ultimo dei pensatori tradizionali spagnoli. Anche se queste definizioni sono pienamente giustificate in una visione retrospettiva, io penso che lo si potrebbe piuttosto considerare, con lo sguardo rivolto al futuro — quel futuro che, come indica la dottrina islamica, si trova nelle mani di Dio —, come il pensatore e il poeta anticipatore dell’Impero in pieno XX° secolo, come uno dei primi araldi della restaurazione tradizionale imperiale, ariana e solare dell’Occidente. «Sognatore dell’Impero», lo chiama Victor de la Serna. E anche se sicuramente l’idea d’Impero presente nell’ideologia falangista non è proprio l’idea autentica e tradizionale, perché essa non riuscì a superare la limitazione nazionale comune a tutti i movimenti fascisti degli anni trenta e quaranta — l’Impero è concepito come il risultato della più grande espansione del potere d’una data nazione, e non come una realtà posta al di sopra della nazione —, tuttavia, il ripudio del nazionalismo (proclamato, almeno, teoricamente e in modo esplicito) e la vocazione all’universalità implicita nel pensiero josé-antoniano aprono la via a un’autentica formulazione del principio imperiale, adattato ai tempi attuali. Per di più, il concetto chiave dell’«unità del destino nell’universale», applicato all’idea di Patria, si presta in modo insuperabile a un’estensione sovranazionale, divenendo in questo senso perfettamente applicabile all’edificazione dell’Impero: unità sovranazionale, universale, integrata da unità minori che trovano in quello il loro senso compiuto e il posto adatto alla realizzazione del loro destino particolare. Come ha fatto notare un commentatore portoghese dell’opera josé-antoniana, José Miguel Alarcao Judice, in questa la nazione è concepita «come una tappa sul cammino dell’universale», «come momento d’una evoluzione che porterà al futuro superamento della realtà nazionale attraverso organismi d’un più grande grado integrativo»: «un progetto la cui realizzazione e la cui perfezione segnerà l’inizio di un nuovo processo di tipo sovranazionale, per il quale, nella nostra epoca, non sembrano però esserci ancora le condizioni».
Per la sua vita e per la sua opera, José Antonio figura certamente all’avanguardia storica della futura rivoluzione tradizionale dell’Occidente. Noi possiamo vedere il lui uno di quegli uomini illuminati, che, nella congiuntura critica degli Anni Trenta, ebbero l’intuizione della possibilità di un risveglio e che, con tutte le insufficienze che si vuole, avvieranno attraverso la loro azione e il loro pensiero la Rivoluzione integrale che doveva rinnovare la vita dei popoli europei e che, reinserendoli nell’ordine cosmico, dovrà farli ritornare all’ordine e alla pace.
Antonio Medrano