Che fine ha fatto Aboubakar Soumahoro, che poco più di un anno fa faceva il suo ingresso trionfale – in stivali di gomma – nel Parlamento, per portare una ventata di aria nuova nella sonnolenta politica italiana? Quello che doveva essere il legittimo rappresentante dei “nuovi italiani” e la tangibile espressione parlamentare dello svecchiamento civile del nostro Paese; addirittura in predicato di diventare il nuovo segretario del Partito Democratico, costretto poi a ripiegare su un altro outsider altrettanto “strano”? Il nostro si è ritrovato emarginato da tutti, evitato come un appestato e dimenticato dall’opinione pubblica, a cui nessuno lo ha più proposto come fenomeno emergente e personaggio importante, facendolo letteralmente sparire dai radar mediatici: le prime pagine dei giornali e i salotti televisivi che fanno e disfano le reputazioni e possono decidere le fortune o le disgrazie di ognuno.
C’è però il fondato sospetto che dietro questa repentina rimozione non si nasconda solo un’astratta condanna moralistica delle malefatte dei suoi familiari (il comunista per necessità ma fascista per convinzione Cesare Pavese ebbe modo di dichiarare che «La morale è il mondo dell’astuzia»), quanto piuttosto l’esigenza tecnica di eliminare un pericoloso esempio e prototipo del “così fan tutti”. Quello che i suoi vecchi sodali, il canagliume giornalistico e i politicastri democratici, non gli hanno perdonato è l’essersi fatto scoprire, è l’aver rivelato a tutti la prassi secondo la quale agiscono coloro che vengono beneficiati dal consenso elettorale, abbandonandosi regolarmente all’egoismo, alla rapacità, all’avarizia e all’ipocrisia. Plebei all’arrembaggio! A rovinarlo è stata la sua totale mancanza di esperienza e di furbizia. Novizio fra i privilegiati, con l’aggravante di un codazzo tribale afflitto da fame ancestrale che, come in tutti i villani arricchiti, non si è saputo controllare, abbandonandosi spudoratamente all’arte di arraffare, e comportandosi come la Banda Bassotti penetrata nel deposito di Paperone.
Dalle dinastie governative statunitensi (parodia e caricatura delle passate aristocrazie), ai commissari e parlamentari europei (usi ai “Qatargate” o alle “emerite” creste sulle spese di viaggio), rimane sempre valido il longanesiano “tengo famiglia”, che da motto ed emblema nazionale è possibile estendere a livello mondiale. Del resto, in un mondo di eunuchi, se non di fatto sicuramente nello spirito, oramai prevale il residuo decaduto della famiglia piccolo-borghese, fondata esclusivamente sulla convenienza pratica e su un utilitarismo primitivo e animale, che non ha alcuna eredità di ceppo casta o razza da tramandare; non più influenze spirituali quanto piuttosto beni materiali e possedimenti acquisiti con ogni mezzo (legittimo o illegittimo, poco importa!), per cui nell’attuale dominio ginecocratico, quando la moglie ordina:
Porta a casa qualcosa, che c’è sempre bisogno!
nessuno è in grado di dire di no, essendo passato il tempo dei santi e cavalieri. E persino un semplice virologo televisivo, un gaglioffo qualsiasi che si spaccia per esperto e “scienziato col bollo”, ha in famiglia tante spese da sostenere, e i soldi non bastano mai. E poi, come si sa, l’appetito vien mangiando, per cui, appunto, “così fan tutti”! L’importante è non farsi scoprire, altrimenti crolla il palco, cadono le maschere dell’ipocrisia e della finzione, e quelli che non devono sapere vengono a conoscenza del funzionamento del sistema, e finiscono per non credere più nei loro rappresentanti, a non abboccare, a diventare diffidenti; fino a pretendere, addirittura, l’onestà e la coerenza fra proclami e comportamenti. Insomma, un irreparabile disastro e un’insostenibile perdita di credibilità.
Il vincolo anomalo di solidarietà che si viene a creare fra i membri di una stessa famiglia è indicato in sociologia con la definizione di “familismo amorale”, in seguito alle ricerche dello studioso Edward Banfield, che gli diede nome dopo un’indagine condotta sul campo nel paesino di Chiaromonte in provincia di Potenza, nel biennio 1954-1955; indicando con questa categoria la tendenza tipica di certe famiglie del luogo a rinchiudersi nel proprio nucleo parentale, assolutizzandolo e anteponendolo a qualunque utile e benessere comune esterno alla propria cerchia familiare. Risulta, dunque, una singolare coincidenza il fatto che lo studioso abbia condotto la sua indagine praticamente sotto casa e presso i parenti di Roberto Speranza, di Luciana Lamorgese e del generale Francesco Paolo Figliuolo, tutti quanti nativi della città di Potenza. Al punto che verrebbe da dire: la potenza di Potenza! Ma questo è un altro discorso…