L’inganno dei “diritti”
Quando una situazione di emergenza, di qualsiasi tipo, mette in discussione realtà ritenute stabili e sicurezze consolidate, risulta spontaneo chiedersi fino a che punto la nuova situazione possa modificare i vecchi stili di vita e soprattutto con quale autorità le istituzioni politiche possano imporre tali mutamenti. La questione fondamentale riguarda sempre i cosiddetti diritti, cioè quel complesso di facoltà che singoli o associazioni hanno di compiere determinati atti o godere di precise tutele. Questi diritti, da sempre (almeno in epoche recenti) proclamati come inalienabili e quindi non soggetti a sospensioni o limitazioni di sorta, sarebbero quindi un “patrimonio fondamentale dell’umanità”, non solo “stabilito dalla natura” e “di per sé evidente”, ma anche difeso dagli Stati e dalla legge. Però da sempre (almeno dalla proclamazione di un simile stato di cose) questi famosi diritti sono stati sempre elusi, disattesi, modificati o violati proprio dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto tutelarli. Situazione che non ha nulla di casuale, né tantomeno riguarda abusi di potere, mancate applicazioni o tradimenti di ideali e sommi principi, ma è solamente una diretta conseguenza di un difetto originario, quell’atto iniziale di proclamazione arbitraria di una base teorica che nella sua artificialità era già inconsistente, non solo per quello che affermava ma soprattutto per quello che negava.
Le Dichiarazioni dei diritti, e la loro presunzione assoluta di legittimità (l’esecranda alleanza tra giusnaturalismo e positivismo giuridico), si pongono in netto contrasto con quel sistema dinamico di gestione del potere che ha contraddistinto l’Antico Regime, quel continuo confronto tra le varie componenti del corpo sociale, quella dialettica che poteva manifestarsi talvolta come scontro e spesse volte come collaborazione, ma che sempre aveva come obiettivo la salvaguardia della pluralità, del limite e della garanzia delle prerogative di tutte le parti. Il monarca non è mai assoluto, ma è limitato dal clero, dalla nobiltà, dalla borghesia e dalle classi produttive, e tutti questi nuclei di potere si limitano a vicenda, salvaguardando i propri spazi di autonomia e lavorando congiuntamente per il mantenimento dell’ordine sociale e delle identità particolari. Abbiamo inoltre le corporazioni, le comunità locali, le provincie, i feudi, le associazioni, le confraternite, che formano quel reticolo di forze che tiene unita la società, che la frammentano in maniera coerente rendendola così più libera, sfuggente, inafferrabile per la volontà accentratrice e razionalizzatrice del sovrano. Nella selva dell’Antico regime il Leviatano si muove con difficoltà, inciampa, si impiglia nei vincoli, nei privilegi, nelle norme particolari, negli statuti locali (che spesso sono più antichi dello stesso Stato e ad esso non debbono nulla) e non riesce a imporsi, restando il più delle volte impotente.
Come nota Alexis de Tocqueville, “colpisce nel leggere la corrispondenza dei ministri e degli intendenti del diciottesimo secolo vedere come quel governo così invadente, così assoluto, a cui l’obbedienza non è mai stata contestata, resti interdetto di fronte alla minima resistenza, si turbi alla più lieve critica, si spaventi al minimo chiasso e allora si fermi, esiti, parlamenti; vedere come si moderi, e spesso resti molto di qua dai limiti naturali del suo potere.” (1)
Ma gli elementi comunitari, associativi, corporativi non hanno con il sovrano un rapporto di totale contrapposizione: le varie componenti della società vivono l’una a contatto con l’altra, ognuna nel suo ambito con una precisa sfera di autonomia, costituendosi al tempo stesso come un insieme organico in grado di mantenere un equilibrio tra le parti e per il vantaggio di tutti.
Nell’Antico Regime, come nota Cochin “si parla di libertà come si parla di popoli, ce n’erano di ogni misura e di ogni natura, ognuna con la sua storia e i suoi titoli, altrettanto numerosi e diversi dei corpi di cui costituivano il bene specifico”. (2)
A questo punto possiamo comprendere che cosa sia stata la vera Costituzione: un equilibrio di forze, uno status che si riconferma in ogni momento e che riflette il carattere plurale e composito delle componenti che lo determinano. La pluralità di corporazioni, comunità locali provincie, feudi, associazioni che costituiva il tessuto sociale dell’antico regime regola i suoi rapporti con il potere superiore in maniera particolaristica, riuscendo a ottenere o a mantenere, grazie a tradizioni, concordati, compromessi, diritti acquisiti e esenzioni, la propria autonomia e una libertà che difficilmente oggi potremmo avere. È proprio questa l’autentica Costituzione di una nazione, l’insieme delle sue forze vive, in perenne confronto con il potere sovrano per limitare la sua influenza e garantire margini di libertà, collaborando allo stesso tempo con esso per una corretta e efficiente gestione degli affari pubblici e il mantenimento dell’ordine sociale.
La garanzia di tutela contro gli abusi del potere pubblico non è quindi una concessione che viene dall’alto, ma un dato di fatto che le stesse forze presenti della società rendono effettivo e attuale in ogni momento.
Tutte le cosiddette monarchie assolute non furono mai realmente tali, al massimo furono accentratrici, tentando di essere assolutiste nell’erodere quei poteri particolari (i contro-poteri di cui parlava Montesquieu) che così tanto ostacolavano la loro influenza. Ma non riuscirono mai nel loro intento. Saranno le rivoluzioni che, alla fine, non solo coglieranno i frutti di questo lungo lavoro, ma lo porteranno anche a compimento, abbattendo tutta la selva di particolarismi che fino a quel momento aveva costituito l’argine al dilagare di un potere assoluto. I nuovi Stati sorti da quell’esperienza otterranno quindi una forza enorme, che permetterà loro di chiedere ai propri sudditi dei sacrifici che fino a pochi anni prima sarebbero stati impensabili (fiscalità, leva obbligatoria, limitazioni delle libertà personali). In mezzo c’è un passaggio dalle enormi implicazioni future: la proclamazione dei diritti, cioè una dichiarazione del tutto arbitraria di pretesi stati di fatto del tutto astratti. L’antica Costituzione, cioè il tessuto vivo della nazione, è abbattuta, sostituita da un lato da una serie di vaghe dichiarazioni di principio, e dall’altra da una massa disarticolata di individui isolati ed equalizzati. Tutti i poteri antagonisti a quello centrale e assoluto (quello che ha proclamato, cioè concesso, i diritti) sono di fatto annientati e non possono più opporsi alle decisioni provenienti da quest’ultimo. La nuova Costituzione, questo prodotto artificiale, si pone come legge fondamentale dello Stato, garantendo a tutto l’insieme dei suoi associati una serie di cosiddetti diritti, che non vengono a essere altro che concessioni, benefici uguali per tutti che basano la propria realtà e credibilità solo sull’autorità e la forza dello Stato. La facoltà di fare le leggi e di renderle esecutive è ora una prerogativa assoluta del potere centrale, che degrada le altre giurisdizioni a mere particolarità di fatto.
Un cambiamento radicale, una vera rivoluzione rispetto allo stato precedente, ma non di certo una liberazione. Piuttosto il contrario. La nuova legge unica serve più a imporre che a garantire, e inoltre è scomparsa anche la facoltà di opporre limiti agli eccessi di un potere sempre più assoluto e ormai senza vere controparti. Abbiamo però delle concessioni, i nuovi “diritti naturali e inalienabili”, che i detentori della forza, i rappresentanti della “volontà generale”, si impegnano a tutelare. Impegno che spesso e volentieri si dimenticano di rispettare e che però nessun altro può far rispettare al posto loro.
Abbiamo inoltre un’uguaglianza negativa, disgregatrice, che nega ogni ruolo ai ceti, ai corpi intermedi e a tutti gli eventuali antagonisti per imporre un unico volere, che s’impone così senza resistenze nei confronti di una società livellata.
Sempre Tocqueville: lo Stato ora è “il prodotto e il rappresentante di tutti” e come tale “deve far piegare il diritto di ognuno sotto la volontà di tutti”. È una tirannia, “chiamata dispotismo democratico”, che non conosce più gerarchie, classi distinte, ranghi stabiliti, ma “un popolo composto di individui quasi simili e interamente uguali”, una “massa confusa” che per giunta “è riconosciuta per solo legittimo sovrano” anche se “accuratamente privata di tutte le facoltà che potrebbero permetterle di dirigere o anche sorvegliare il proprio governo.” (3)
Ciò che è avvenuto è simile al ritiro della monetazione aurea e alla sua sostituzione con quella cartacea (evento peraltro contemporaneo a quello delle Dichiarazioni dei Diritti). Si potrà constatare come questo cambio non sia stato molto favorevole, comportando tutti quegli inconvenienti che ancora oggi si ripercuotono nella vita politica e sociale, primo fra tutti l’impossibilità del controllo e del contrasto dell’apparato di potere dominante, che esercita le sue funzioni in una sostanziale indifferenza nei confronti dei propri sottoposti, che possono soltanto contare sulle sue promesse e sulla sua buona fede nel mantenerle. E non si tratta di situazioni episodiche, ma strutturali. Tutte le Costituzioni moderne sono considerate “sacre e inviolabili”, ma solo finché i detentori del potere non decidono il contrario. Le Costituzioni rivoluzionarie del 1791 e 1793, con le loro somme declamazioni di principio e proclamazioni di diritti, divennero presto carta straccia, proprio come le banconote della nuova repubblica.
Chi volesse divertirsi potrebbe leggersi la Costituzione dell’Unione Sovietica del 1936, che garantiva qualsiasi cosa, dal lavoro al riposo e al tempo libero, dalla libertà di espressione al culto, fino all’inviolabilità della persona, del domicilio e della corrispondenza. Poi una notte ti venivano a prendere e sparivi nel nulla…
Anche in tutti i cosiddetti paesi democratici il sistema delle Costituzioni e dei diritti da queste garantite hanno spesso dimostrato la loro natura di concessioni, venendo spesso disattesi o sospesi, anche in maniera arbitraria (ad esempio con l’ordine esecutivo 6102 del 5/4/1933 con cui venne proibito il possesso di oro da parte di ogni soggetto residente negli Stati Uniti).
Non ci si lamenti quindi se i governi sospendono le libertà, perché queste sono state sempre delle concessioni. La vera Costituzione si basa su un contrasto di forze, su una lotta continua per stabilire un limite, per formare uno spazio di autonomia nel quale nessuno di esterno potrà permettersi di dettare legge.
Alla fine si tratta solo di un equilibrio, che può essere garantito solo da chi la forza la detiene realmente, ogni garanzia esterna non avendo credibilità alcuna, confondendosi con una cessione di sovranità seguita da uno stato più o meno esplicito di sudditanza. Anche la Magna Charta sarebbe rimasta “carta straccia” se non fosse stata difesa dalle spade dei baroni.
Scriviamo questo non per un inutile elogio dei tempi passati, ma perché si riesca almeno a intuire ciò che si perse e soprattutto ciò con cui la perdita venne colmata. Se questa comprensione non avviene si rimarrà sempre legati all’illusione, al gioco di prestigio voluto dai detentori del potere, a una sterile dialettica su temi decrepiti e inutili, che mai porterà a nulla non indicando altre strade che quelle all’interno del labirinto, non segnalando mai la possibilità di una uscita verticale, di un passaggio che vada oltre quelli suggeriti dagli interessati guardiani del cancello.
Renzo Giorgetti
) A. de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, Rizzoli, Milano, 1981, p.148.
2) A. Cochin, Come furono eletti i deputati agli Stati Generali, in Lo spirito del giacobinismo, Bompiani, Milano, 1989, p.88.
3) A. de Tocqueville, idem, p.199.